giovedì 18 dicembre 2008

Continua la battaglia di Salvatore Palumbo

A maggio era salito sulla stele che ricorda la strage di Capaci, lungo l'autostrada Palermo-Mazara del Vallo. Lunedì 15 dicembre ha montato una tenda davanti al tribunale di Palermo per urlare contro l'ingiustizia del suo licenziamento. Oggi Salvatore Palumbo ha scelto i binari della stazione per gridare ancora più forte. Si è incatenato, insieme con la moglie e i tre figli, chiedendo il reintegro a Fincantieri, l'azienda che nell'agosto 2007 lo aveva lasciato a casa, senza stipendio e con una famiglia da mantenere. Solo l'intervento delle forze dell'ordine, che hanno tranciato le catene, ha permesso di liberare i binari e far riprendere la normale circolazione dei mezzi.

Ma Palumbo non si arrenderà. Lotta contro quella che definisce un'ingiustizia, un licenziamento che Fincantieri giustifica dicendo di averlo sorpreso a pescare durante il turno di notte. Eppure già da tempo in azienda la sua posizione era diventata scomoda. Perché lui sul posto di lavoro aveva sempre avuto una sensibilità particolare per il tema della sicurezza, a tal punto da diventare "fastidioso". Ora da quasi un anno e mezzo lotta per la sua riassunzione, ma i suoi ricorsi sono stati finora respinti dal tribunale del lavoro. Adesso è Natale e non parliamo di regali, lui non sa dove trovare i soldi per dare da mangiare ai suoi figli. Lo scorso 6 dicembre era salito fino a Torino, in occasione della manifestazione a un anno dalla strage della Thyssen, per raccontare la sua storia. Ora spera che qualcuno sia disposto ad ascoltarla, lui di sicuro farà di tutto perché ciò avvenga.

martedì 9 dicembre 2008

Altre 5 vittime nella guerra del lavoro
La testimonianza da Dalmine

Una nuova strage, un nuovo nero bollettino di guerra. Nella giornata quasi conclusa sono 5 i morti sul lavoro in tutta Italia, dal Nord al Sud, senza distinzioni. Dalmine (Bergamo), Torretta di Galliavola (Pavia), Santa Giustina (Belluno), Amatrice (Rieti), San Pallegrino (Bergamo). Questi i luoghi dei decessi.

Riportiamo il comunicato diffuso dallo Slai Cobas sulla morte di Sergio Riva, 20 anni, alla Tenaris di Dalmine.

Un altro assassinio programmato e annunciato alla Tenaris Dalmine di Bergamo. Si tratta di un giovane operaio interinale di 20 anni da quasi 1 anno in fabbrica. E' successo alle 1.30 di questa notte nel reparto fas espander (tubi di grosso diamentro), quando una squadra ridotta di operai stava attrezzando una macchina dell'impianto che doveva iniziare a produrre alle 6 sul primo turno. Lo Slai Cobas Dalmine, dopo aver verificato la dinamica con gli operai del reparto, si riserva di presentare nei prossimi giorni un esposto alla procura Affinché si faccia luce sull'accaduto.
Ribadiamo con forza che quanto successo non è una fatalità, come sembra già circolare nelle note interne dell'azienda, ma il frutto della corsa alla produzione a tutti i costi. Produzione che è aumentata enormemente in questi anni, fino a raggiungere i record pubblicizzati dalla stessa Tenaris Dalmine.
I profitti top intascati da padron Rocca in questi anni non sono caduti dal cielo ma sono stati ottenuti spremendo al massimo gli impianti con recuperi produttivi, festività lavorate, flessibilità della turnistica, saturazione delle 8 ore di lavoro. Il tutto garantito dallo sfruttamento e dalla condizione di ricatto per gli operai nei reparti, in particolare per quelli precari, costretti a lavorare in qualsiasi condizione per sperare di essere confermati. Ad esempio, è norma che questi giovani operai facciano 48 ore alla settimana, in quanto i capi turno "chiedono" il salto del riposo settimanale previsto dal contratto.
Situazione ancora più accentuata in questo periodo in cui la Dalmine, utilizzando il tema della "crisi", ha annunciato che la maggioranza degli operai interinali non saranno confermati nei prossimi mesi. Questo ha scatenato una guerra tra "poveri" per l'accaparramento dei pochi posti di lavoro.
Slai Cobas Dalmine per il sindacato di classe. Coordinatore provincia di Bergamo, Sabastiano Lamera

sabato 6 dicembre 2008

A un anno dalla Thyssen
Contro tutte le stragi

Il freddo pungente, le Alpi innevate, il dolore e la voglia di continuare a lottare, hanno accompagnato questa mattina il corteo di 5mila persone che a Torino dai cancelli della Thyssen (corso Regina Margherita) è arrivato fino alle porte del Palazzo di Giustizia.

C'erano i familiari delle vittime della strage del 6 dicembre 2007 e i loro compagni di fabbrica. C'era la Rete nazionale per la sicurezza sul lavoro. C'era Francesca Caliolo, moglie di Antonio Mingolla, una delle troppe vittime dell'Ilva di Taranto, la fabbrica assassina. C'erano Dante De Angelis, ferroviere, e Salvatore Palumbo, operaio alla Fincantieri Palermo, entrambi licenziati per aver denunciato le condizioni di insicurezza nei rispettivi luoghi di lavoro. C'erano gli studenti, compagni di Vito Scafidi, morto nel crollo del soffitto della sua scuola di Rivoli mentre faceva lezione. C'era l'associazione dei parenti delle vittime dell'Eternit. E molti altri ancora.

Non certo il fiume che era visto un anno fa, subito dopo la strage, e che aveva invaso le vie del centro cittadino. Ma una solida base disposta a continuare la lotta per la dignità e la sicurezza, per il lavoro e la giustizia.

martedì 11 novembre 2008

Contro le stragi del lavoro
Il 6 dicembre manifestazione nazionale
dai cancelli della ThyssenKrupp di Torino

Il 6 dicembre di un anno fa un rogo sprigionatosi all’interno dello stabilimento ThyssenKrupp di Torino faceva strage di 7 operai. Sette vite bruciate e sette famiglie lasciate nella disperazione.

Forte furono la commozione e l’eco in tutto il Paese. Le massime autorità dello Stato dichiararono che avrebbero fatto l’impossibile affinché stragi come quella di Torino non fossero più avvenute.

Spenti i riflettori dei mass-media, la questione della sicurezza sul lavoro è sparita dall’agenda politica di governi e parlamenti, sostituita da quella della “sicurezza” nelle città, della psicosi dell’immigrato stupratore, rapinatore, pirata della strada.

La strage di Torino non è stata la prima né l’ultima: i circa 4 morti al giorno nei luoghi di lavoro dovrebbero suonare come uno schiaffo per ogni società che si definisca “civile”. Ma in Italia non solo si continuano a varare provvedimenti insufficienti, soprattutto dal punto di vista delle azioni di contrasto e di sanzione nei confronti delle aziende, come da quello dei poteri e delle agibilità degli RLS e degli ispettori INPS o INAIL (come il nuovo Testo Unico, Legge 81/2008), ma si affiancano leggi e decreti come quello sulla detassazione degli straordinari (Legge 126/24 del luglio 2008), quello sulla deregolamentazione del mercato del lavoro (Legge 133 del 5 agosto 2008), la direttiva del Ministero del Lavoro che indebolisce i servizi ispettivi del ministero stesso e dell’INPS (settembre 2008), e, ultimo, il ddl 1441 quater, attualmente in discussione alla Camera, che vorrebbe sterilizzare i processi e legare le mani ai giudici del lavoro.

Il segnale è chiaro: da un parte si continuano a garantire condizione di massima redditività delle aziende, dall’altra si aumenta la precarietà, si allunga l’orario di lavoro, si controllano meno le violazioni di sicurezza, diminuendo la tutela della salute e dell’incolumità del lavoratore, così come di chi vive in città o quartieri vicini ad impianti industriali.

Siamo stanchi di restare a guardare, spettatori/vittime di una macabra rappresentazione che coinvolge tutti noi.

Il 6 dicembre saremo a Torino e sfileremo dalla Thyssenkrupp (9.30) al Palagiustizia non solo per ricordare i nostri 7 compagni di lavoro morti nel rogo di un anno, reclamando giustizia in un processo che sta per entrare nel vivo, ma per ricordare tutti i lavoratori e le lavoratrici che ogni giorno perdono la vita o subiscono gravi infermità perché qualcuno, per arricchirsi sempre di più, li fa lavorare sempre di più, sempre più velocemente e in condizioni sempre più insicure.

Il processo Thyssen è giunto a un grande risultato, senza precedenti nella storia della giurisprudenza italiana: i lavoratori vengono ammessi dal Gup come parte lesa e quindi riconosciuti come parte civile in un processo contro i sei dirigenti della multinazionale tedesca per il rischio che hanno occorso a lavorare in un’azienda (peraltro già chiusa), così come purtroppo ha colpito i nostri cari sette compagni in quella tragica notte. Ma sappiamo che questo non basta: siamo coscienti che sarà impossibile invertire questo drammatico corso di sangue e di morte (una “guerra” che fa più vittime della guerra in Iraq o delle guerre di mafia) solo se riusciremo ad affermare un punto di vista: salvaguardare la salute, la sicurezza nei luoghi di lavoro e fare sempre e comunque gli interessi delle lavoratrici/ori scegliendo fino in fondo e senza ambiguità da che parte stare, dalla nostra parte, con orgoglio e dignità, quella di chi lavora.

Per questo facciamo appello a tutte le organizzazioni sindacali, alle associazioni dei familiari, ai medici e ai giuristi sinceramente democratici, agli ispettori del lavoro, dell’INPS e dell’INAIL, ai giornalisti coscienziosi, ai giovani e agli studenti che in queste settimane stanno difendendo il loro futuro, a partecipare e a sostenere questa manifestazione. Perché se non lo facciamo noi, non lo farà nessuno al nostro posto.

Torino il 6 dicembre 2008 – Manifestazione con concentramento di fronte allo stabilimento ThyssenKrupp, Corso Regina Margherita 400, ore 09.30

Associazione LEGAMI D’ACCIAIO (ex-operai ThyssenKrupp)
RETE NAZIONALE PER LA SICUREZZA NEI LUOGHI DI LAVORO

sabato 1 novembre 2008

Processo Tricom. Il cromo che uccide.
Assemblea e presidio contro l'archiviazione

"Nel paese in cui vivo, la morte di mio padre per cancro era scontata: lavorava alla TRICOM!!!Chiunque poteva ammalarsi, nessuno utilizzava guanti, mascherine non c'erano sistemi di protezione... Oltre al cromo esavalente e al nichel sono stati trovati ben sette tipi di cianuro, piombo, soda, e composti, acido cianurico... L'intera area lavorativa era un bagno di cromo esavalente, l'operaio camminava in una fanghiglia, il pavimento in cemento era stato corroso e i veleni sono filtrati nel terreno inquinando persino le falde acquifere. Risultavano esserci state delle ispezioni da parte dell'USL. Ogni volta nei verbali segnalavano carenze, ma la copertura politica ha permesso di ovviare... TUTTI SAPEVANO MA NESSUNO PARLAVA."

(Dal libro "Morti bianche" di Samanta Persio - luglio 2008).

Contro l'archiviazione del procedimento penale (promosso dai familiari di alcuni operai deceduti per cancro al polmone) per la causa di morte dei lavoratori della TRICOM GALVANICA di Tezze sul Brenta, in corso presso il Tribunale di Bassano del Grappa (Vi): presidio pubblico il 21 novembre 2008 davanti al Tribunale di Bassano del Grappa .

Per preparare la mobilitazione e fare il punto della situazione è convocata una assemblea pubblica giovedì 6 novembre 2008 alle 21 presso la sala Nord, Piano terra del Vecchio Municipio di Tezze sul Brenta.

Interverranno l'avvocato PATRIZIA SADOCCO, consulente legale della causa Tricom; il professore ANGELO LEVIS e il dottor DARIO MIEDICO, consulenti di parte; il senatore FELICE CASSON

giovedì 16 ottobre 2008

Argentina, l'appello di una nonna
per ritrovare la nipotina che la dittatura le portò via

La compagna Chicha Mariani è una delle fondatrici della Assocazione Abuelas de Plaza de Mayo, oggi ha più di 80 anni. Vuole con tutta la sua anima ritrovare sua nipote, rapita dai militari argentini durante la dittatura. Qualsiasi dato potrebbe essere utile. Nel caso qualcuno potesse aiutarla può contattare la Associazione Argentina Vientos del Sur, di Udine.

Cara nipotina,
Sono la tua nonna Chicha Chorobik in Mariani, ti cerco dal momento nel quale Etchecolatz, Camps e le loro truppe ammazzarono tua madre e ti sequestrarono nella tua casa sita nella via 30 n° 1134 di La Plata, Repubblica Argentina. Era il 24 Novembre del 1976 e avevi 3 mesi di età. Da quel momento tuo padre e io ti abbiamo cercata fino al momento in cui ammazzarono anche lui.

Nonostante abbiano cercato di convincermi del fatto che eri morta nella sparatoria, io sapevo che eri viva. Oggi è una cosa certa che sei sopravvissuta e sei sotto il potere di qualcuno. Hai già 31 anni e il tuo numero di documento probabilmente è all’incirca il 25.476.305 con il quale ti abbiamo iscritta.

Vorrei chiederti di cercare fotografie che ti ritraggono a pochi mesi e fare il paragone con quelle allegate a questo testo.

Voglio raccontarti che tuo nonno paterno si era dedicato alla musica e io alle belle arti; che i tuoi nonni materni si dedicarono alle scienze, che tua madre amava la letteratura e tuo padre era laureato in economia.

Loro due avevano un gran senso di solidarietà e compromesso con la società, qualcosa che sicuramente tu avrai nella tua personalità perché, nonostante tu sia cresciuta in una famiglia diversa, l’essere umano conserva internamente i geni dei suoi antenati.

Sicuramente ci sono molte domande senza risposta che si muovono dentro di te.
Adesso ormai che ho più di 80 anni, il mio desiderio più grande è di abbracciarti e riconoscermi nel tuo sguardo, mi piacerebbe che tu mi venissi incontro per far sì che questa lunga ricerca si concretizzi nel più grande desiderio che mi tiene ancora in piedi, quello del nostro incontro.

Clara Anahì, mentre ti aspetto, continuerò a cercarti.

Ti abbraccia, la tua nonna, Chicha Mariani.

sabato 27 settembre 2008

Piombino: lavorare in acciaieria.
Il calore, il fuoco, l’inferno


Una notte si sono sprigionate le fiamme, un muro di fuoco alto dieci metri. L’impianto antincendio automatico, sostituito da pochi mesi, non è entrato in funzione. Neppure quello manuale. Non si è avuto neanche il tempo per avere paura. Non si parla della Thyssen Krupp di Torino nella notte del 6 dicembre 2007. Ma della Magona di Piombino, una delle fabbriche del comprensorio siderurgico della città toscana. Era l’aprile del 2005, i quindici operai che si trovavano sul posto sono riusciti a scappare, nessun ferito e nessun intossicato. Fatalità, fortuna.

Il complesso più grande del distretto è quello delle Acciaierie di Piombino, un tempo di proprietà statale, dal 1992 privatizzato, in mano al Gruppo Lucchini, che nel 2005 ha venduto il 70% del capitale azionario al colosso russo Severstal. Poi c’è la Magona (oggi gruppo Arcelor) e uno stabilimento della Dalmine. Acciaio, materiali resistenti, calore. Un lavoro logorante, in mezzo a nuvole difficili da respirare. Eppure un orgoglio per la città: l’ha fatta crescere, l’ha arricchita, l’ha vista accogliere lavoratori dal resto d’Italia e altri paesi. Un orgoglio che però si è concesso qualcosa di troppo sulle vite delle persone, sulla pelle di chi in quella città vive e di quel lavoro si nutre.

Alla Lucchini da un paio d’anni non ci sono più stati morti. L’ultimo il 3 dicembre 2006: Luca Rossi, travolto da un motocarro di una ditta appaltatrice. Prima di lui, tra il 1998 e il 2005, sono morti altri 10 lavoratori, la maggior parte operai di ditte esterne. Manutentori, elettricisti, manovali. Anime che si muovono negli stabilimenti, spesso è come se non ci fossero. I cui spostamenti e le cui presenze sono più leggeri del vento, ma i cui corpi subiscono l’affronto del lavoro in fabbrica e spesso ne pagano le conseguenze peggiori. Nessun morto dal dicembre 2006, ma gli infortuni continuano. L’ultimo grave è del 15 giugno: Paolo Bucci, un operaio Lucchini, colpito da un cavo elettrico, ha dovuto subire l’asportazione della milza.

Infortuni di cui almeno si parla. Perché poi ci sono quelli di cui non si avrà mai notizia. “Le aziende sventolano l’obiettivo Infortuni Zero. Ma questo non significa che davvero non ci sono infortuni, ma che non li denunciano – spiega Giancarlo Chiarei, dei Cobas di Piombino e una vita passata come operaio alla Magona –. Le fabbriche sono portate a dichiarare meno infortuni possibile, quindi quelli meno gravi vengono fatti passare come malattia. Poco tempo fa un ragazzo con un contratto interinale si è ferito a una mano: 10 punti. Mi ha chiesto un consiglio e gli ho detto di dichiarare l’infortunio. Gli hanno dato 20 giorni di prognosi, quindi è tornato a lavorare, tempo di finire i giorni di contratto, poi è stato lasciato a casa. Non c’è stato neanche bisogno di licenziarlo”.

Il comprensorio siderurgico ha subito negli ultimi anni una forte ristrutturazione. La Lucchini un tempo occupava 8000 persone, oggi poco più di 2000 a cui si aggiungono un migliaio di lavoratori dell’indotto. La Magona non arriva a mille, la Dalmine a 300. “Nelle nostre fabbriche si è assistito a un esodo delle professionalità, con forte perdita di coscienza operaia – prosegue Chiarei –. Quando si perde la cultura del lavoro tutto diventa più duro, una volta si entrava in fabbrica ed era più facile contrastare gli affronti che venivano dal padrone. Oggi non è più così, i giovani sono ricattabili”.

E oltre agli infortuni, difficili da catalogare, ci sono condizioni di lavoro che rendono la vita dell’operaio sempre più stressante e a rischio. Non sono poche infatti le ditte appaltatrici che adottato i cosiddetti “contratti globali”, in cui ufficialmente figura un numero di ore settimanali per una paga fissa. In realtà talvolta le ore finiscono per essere di più, 12, 14 al giorno, le ferie scompaiono, la malattia pure. Tutte le ore vengono pagate, illegalmente: aumenta la fatica, diminuisce l’attenzione, si moltiplica lo stress. Scompaiono le difese.

Infine ci sono i pericoli per la salute. “Come Cobas stiamo lavorando sul caso di un gruppo di operai del reparto di stagnatura elettrolitica della Magona, tra il ’64 e il ’94, metà dei quali si sono ammalati di tumore. Stiamo cercando di far sì che le vedove possano avere un minimo di risarcimento e che la malattia dei loro cari sia riconosciuta come professionale. Ma ci sono altre forme di malattia di cui non si parla, come la silicosi. L’unica che ha avuto un riconoscimento è stata quella derivante dall’amianto, per cui molte persone sono state mandate in prepensionamento”.

Ma la fabbrica non è fatta solo dai reparti, con i loro macchinari, il rumore, l’aria difficile da respirare. E’ anche territorio. Un animale che di questo si nutre, un mostro che può arrivare a consumarlo, a distruggerlo. Nel marzo 2007 una ricognizione della Guardia di Finanza ha scoperto all’interno della proprietà Lucchini una discarica di 35 ettari con rifiuti illegalmente depositati, più di un milione di tonnellate a cielo aperto, a minacciare silenziosamente la città. Le indagini sono partite e gli imputati sono 6, tra cui l’ex amministratore delegato della Lucchini Spa e il direttore dello stabilimento. Ora l’azienda sembra aver capito la lezione e ha dato il via a due progetti per il recupero delle polveri ferrose. Rimane da vedere se sarà possibile lo smaltimento e se siano rifiuti speciali, come sembra emergere dalle analisi della procura di Livorno. “C’è stato anche un operaio che si è rifiutato di mettere rifiuti in quella discarica ed è stato licenziato”, continua Chiarei. Piombino è la città toscana con il più alto numero di tumori.

Una città colpita ma che partecipa al dolore, tentando di dare una risposta. Più di dieci anni fa, il 17 marzo 1998, alla Magona moriva stritolato in un ingranaggio un ragazzo, Ruggero Toffolutti, che amava il calcio. Quel ragazzo, scomparso così dolorosamente ha continuato a vivere grazie ai suoi genitori che hanno dato vita all’Associazione Nazionale per la sicurezza sul lavoro Ruggero Toffolutti.

“Tentiamo di far di tutto per sensibilizzare la popolazione, con dibattiti, iniziative, presentazioni – dice Valeria, mamma di Ruggero, giornalista de Il Terreno –. Abbiamo anche dato il via al “Van Toff” un torneo di calcetto per ricordare Ruggero e la sua passione. La differenza rispetto al passato è che in fabbrica si continua a morire, ma se ne parla molto di più. Eppure questo modo di parlarne mi fa paura, perché spesso è solo un lamento che non affronta i veri problemi del lavoro. Si parla tanto di cultura della sicurezza, ma un operaio può fare tutti i corsi che vuole, ma il pericolo vero è la strutturazione del mercato del lavoro, con i suoi ritmi, la priorità del profitto, la precarietà. Il precario è un candidato naturale a morire”.

Poi c’è la storia di chi di voce ne ha ancor meno. Ad esempio Leke Kolaj, un ragazzo albanese, venuto in Italia per cercare lavoro. Il lavoro lo trova, prima in una ditta interinale. Ma quando il contratto scade Leke rimane a piedi. Dopo poco viene ripreso da un’altra parte, sempre con un contratto a termine. Avrebbe avuto ancora tanti anni da lavorare. Le spalle forti. Leke ha 42 anni quando inizia il suo nuovo lavoro alla Bertocci, ditta che lavora all’interno degli stabilimenti Lucchini. Proprio qui, dopo meno di una settimana, muore, schiacciato da una barra di un nastro trasportatore. Sono in pochi quelli che si ricordano di lui.

Ilaria Leccardi da Cenerentola

mercoledì 24 settembre 2008

Pandora a Torino, la scatola aperta


Presentazione di Pandora a Torino: appuntamento, venerdì 26 settembre alle ore 18, presso Idea Solidale di corso Novara,64, sala Zefiro - via Doberdò, 10, Torino e poi alle 21.15 al Salone Polivalente di via W. Fontan, 103, piazza del mercato, a Bussoleno...

Con la partecipazione di Giulietto Chiesa – presidente dell'associazione Canale Zero e ideatore di Pandora e Udo Gümpel – direttore di Pandora

Nell'occasione verrà proiettato il documentario promozionale: PANDORA - Appello per un'informazione libera (35') e lanciata la campagna di raccolta fondi per l'iniziativa.

Ma cos'è Pandora?

Pandora vuole diventare uno spazio di informazione indipendente in onda sulla TV satellitare, su reti regionali e sul web.

Pandora nasce dall'impegno di professionisti della comunicazione che si battono da sempre per la libera informazione, ma Pandora è aperta alla collaborazione di tutte le persone che hanno qualcosa da raccontare.

Pandora è il punto di partenza e di arrivo di una rete di contatti che attraversano l'Italia e che si collegano con molti angoli del mondo.

Pandora non è il megafono di qualcuno o per qualcuno, Pandora vuole dare voce a chi non ce l'ha.

Per questo Pandora può vivere solo grazie al sostegno di tutte le persone che si riconoscono nel progetto.

Pandora vuole proporsi come esempio autentico di televisione di servizio pubblico, cioè una televisione che risponde ad un unico editore: i suoi telespettatori, a partire da tutti quelli che hanno deciso di sottoscrivere un "abbonamento volontario", non solo per se stessi, ma anche per tanti altri che nemmeno conoscono.

Non appena saranno raccolte le risorse necessarie per realizzare la prima stagione, Pandora metterà in cantiere un programma televisivo settimanale di circa 90 minuti e un notiziario quotidiano sul web e sul satellite.

Per tutto questo, ti chiediamo di partecipare al progetto Pandora inviandoci la tua adesione: così potremo sapere quanti siamo e tenerti sempre al corrente della strada fatta e delle prossime tappe. E ti chiediamo di parlare di Pandora con tutte le persone che possono essere interessate: non abbiamo risorse per grandi campagne pubblicitarie, la nostra forza si basa solo sul passaparola. E soprattutto ti chiediamo un aiuto concreto: anche il tuo contributo può fare la differenza. E far diventare Pandora una voce diversa a "portata di telecomando"...


PRIMI SOTTOSCRITTORI E SOSTENITORI DEL PROGETTO:
Giulietto Chiesa, Lucio Barletta, don Aldo Benevelli, Anna Maria Bianchi, Maurizio Cabona, Caparezza, Sergio Cararo, Franco Cardini, Felice Casson, Paolo Ciofi, Antonio Conte, Giorgio Cremaschi, Francesco De Carlo, Tana de Zulueta, Arturo Di Corinto, Laura Di Lucia Coletti, Claudio Fracassi, Luciano Gallino, don Andrea Gallo, Silvia Garambois, Giuliano Giuliani, Udo Gümpel, Sabina Guzzanti, Serge Latouche, Mario Lubetkin, Manolo Luppichini, Empedocle Maffia, Lucio Manisco, Gianni Minà, Giuliano Montaldo, Roberto Morrione, Diego Novelli, Moni Ovadia, Franco Pantarelli, Valentino Parlato, Riccardo Petrella, Carlo Petrini, Franco Proietti, Lidia Ravera, Ennio Remondino, David Riondino, Roberto Savio, Francesco Sylos Labini, Antonio Tabucchi, Chiara Valentini, Gianni Vattimo, Vauro, Elio Veltri, Dario Vergassola, Alex Zanotelli

pandoratv
Una risposta all'esigenza di un'informazione diversa

venerdì 19 settembre 2008

Il neofascista Diodato dietro il massacro dei contadini di Pando


Il prefetto Leopoldo Fernández, principale accusato del recente massacro di 15 contadini indios di Pando, che stavano andando a una manifestazione in appoggio del presidente Evo Morales, è legato a Marco Marino Diodato (neofascista italiano e leader della mafia italiana in Bolivia) e a narcotrafficanti che operano nel Rio Branco, in Brasile. E' ciò che denuncia Aldo Michel Irusta, parlamentare ed ex responsabile per le idagini nel processo contro l'ex dittatore Luis Garcia Meza e i suoi collaboratori.

Michel è un ex legislatore, oggi editorialista del settimanale Alerta, e parte civile nei processi contro Diodato. Quest'ultimo, dopo esser stato condannato a 10 anni per narcotraffico nel paese, nel 1999 è riuscito ad eludere i controlli e fuggire.

Secondo l'ex parlamentare, la elite cruceña vuole mantenere a Santa Cruz un paradiso finanziario di guadagni illeciti, in relazione diretta con il clan di Diodato. "Abbiamo sviscerato l'agire dei gruppi paramilitari e abbiamo appurato la relazione degli stessi con il signor Leopoldo Fernández", ha detto Michel, aggiungendo che il prefetto di Pando ha precedenti illegali dagli anni '80.

Secondo Michel, Fernández ha consolidato una holding, una squadra, un clan, un cartello di gente legata all'ex dirigenza politica di Acción Democrática Nacionalista (ADN), oltre a legami con il gruppo Diodato e alla legittimazione di guadagni illeciti mediante le case di gioco clandestine.

"Il signor Leopoldo Fernández ha una relazione con gente che opera in Rio Grande (Brasile), con gente che è stata implicata in processi per narcotraffico", ha continuato Michel, il quale ha aggiunto che dopo aver seguito le autorità di Pando, si è scoperto che Fernández è riuscito a consolidare una struttura corporativa paramilitare senza alcun timore, reclutando delinquenti per formare un gruppo irregolare, con capacità di reazione bellica e armata.

Per Michel, la struttura criminale di Diodato è formata dai prefetti di Pando, Leopoldo Fernández, di Santa Cruz, Rubén Costas, oltre a Marincovik, Dabdoub, ai fratelli Landívar e alla Unión Juvenil Cruceñista.

"Il gruppo Diodato opera da più di 10 anni a Santa Cruz sotto copertura dei governi di Hugo Banzer, Jorge Turo Quiroga e Gonzalo Sánchez de Lozada", ha aggiunto Michel, secondo cui il massacro di contadini nel mese di maggio di quest'anno a Sucre è stata sistematicamente pianificata e operata da questi gruppi provenienti da Santa Cruz, Beni e Pando.

Per Michel questi gruppi paramilitari, insieme a sicari mercenari, sono responsabili del massacro dei contadini tra l'11 e il 12 agosto. Alla base delle azioni messe a segno a Pando ci sarebbe gente addestrata a imboscate, maneggio di armi, sadismo e sangue freddo.

Tradotto da Abi - Agencia boliviana de Informacion

martedì 2 settembre 2008

Palermo, il porto dell'incertezza


Sono arrivati a impiegare migliaia di persone. Oggi a malapena danno lavoro a 500 operai. Sono i Cantieri navali di Palermo, di proprietà di Fincantieri, il colosso mondiale della costruzione navale che conta nove stabilimenti in tutta Italia e in Germania.

Stando agli ultimi dati di bilancio e all’utile dichiarato, Fincantieri, azienda di proprietà pubblica e controllata dal Ministero del Tesoro, gode di ottima salute, riceve commesse da tutto il mondo e ha tra i suoi clienti importanti operatori marittimi, tra cui Costa Crociere e Princess. Eppure dal porto di Palermo arrivano notizie ben diverse. Sarà perché la situazione complessiva del porto siciliano è da anni incerta, sarà perché l’azienda di proprietà statale ha modificato i suoi piani industriali a favore degli altri centri cantieristici, resta il fatto che per i lavoratori palermitani non esiste certezza sul futuro.

«Sono tre anni che a Palermo non si costruiscono più navi intere, ma solo parti di esse – spiega Damiano Gambino, rls della Fiom Cgil nel cantieri navali palermitani – e questo è un grande deficit perché il ruolo di Palermo all’interno di Fincantieri è stato drasticamente ridimensionato. Inoltre, siamo un cantiere arretrato, abbiamo macchinari obsoleti e non utilizziamo tecnologie avanzate, come ormai avviene negli altri stabilimenti della nostra azienda».

Ma sul destino del cantiere navale di Palermo pesano anche le scelte riguardanti il futuro di tutto il porto siciliano, la sua trasformazione e la bonifica delle aree costiere, considerando anche la nomina di Palermo a Capitale dell’Euromediterraneo per il 2010. «Ci troviamo fisicamente tra due fuochi – continua Gambino –. Da una parte abbiamo l’edificio dismesso dell’ex Manifattura Tabacchi, dove un ditta privata dovrebbe costruire un centro alberghiero, dall’altra abbiamo il porto che dovrebbe allargarsi in previsione di diventare un porto turistico a tutti gli effetti. Anche per questo il nostro futuro è incerto. Nel 1992, quando ho iniziato a lavorare eravamo più di 1700 operai, oggi siamo appena 523, siamo sottodimensionati. Ma non siamo solo noi operai di Fincantieri a soffrire della crisi. È tutto l’indotto a esserne colpito».

Per i prossimi tre anni è stata commissionata a Fincantieri la costruzione di venti navi, ma nessuna di queste sarà realizzata a Palermo, nonostante qui esista uno dei più grandi bacini d’Italia, da ben 400mila tonnellate. «Quartieri di Palermo e famiglie intere vivono grazie al nostro stabilimento – conclude Gambino – in città e dintorni è l’unica importante realtà industriale. C’è ancora la Fiat Termini Imerese, certo, ma dista 40 chilometri dalla città. Viviamo una situazione molto difficile».

Un’incertezza sul futuro accresciuta lo scorso anno dalla decisione dell’amministrazione di privatizzare e quotare in Borsa il 49% dell’impresa, una scelta approvata dal governo Prodi. Le proteste degli operai sono state forti in tutta Italia, anche a Palermo. L’appuntamento per l’entrata in Borsa era fissato per la primavera, ma la crisi dell’esecutivo ha bloccato tutto, lasciando la situazione in sospeso.

Poi c’è il solito spinoso tema della sicurezza sul posto di lavoro, dei pericoli che si corrono per portare a casa lo stipendio. Quello nei cantieri navali è uno dei lavori classificati come più logoranti, soprattutto per la fatica fisica che implica. Un lavoro che d’estate si svolge spesso a una temperatura superiore ai 40°, che richiede protezioni in pelle su tutto il corpo e che, durante le fasi di saldatura, rinchiude gli operai all’interno di strutture di lamiera incandescenti.

Per quanto riguarda il rischio incidenti, secondo i sindacalisti della Fiom la situazione rispetto al passato è migliorata. La tragedia della Thyssen sembra aver reso più attenti anche i vertici aziendali che si sono mobilitati per far rispettare maggiormente i parametri di sicurezza, con normative interne che regolano la condotta del lavoro. Eppure c’è chi ancora denuncia gravi mancanze. «Ci sono fotografie e filmati fatti da operai che documentano situazioni molto pericolose all’interno del cantiere – spiega Rosario Sciortina, dello Slai Cobas di Palermo –. Ad esempio ci sono infiltrazioni d’acqua dal muro di contenimento del mare, oppure perdite d’acqua dove si lavora con la tensione a 400 Volt». E c’è anche chi perde il lavoro, apparentemente per futili motivi. Salvatore Palumbo era un operaio della Fincantieri, sposato, papà di tre figli. Nell’estate scorsa è stato licenziato perché, sostiene l'azienda, sorpreso a pescare in orario di lavoro. Ma non era vero. Salvatore, dopo mesi senza lavoro, è arrivato al limite della sopportazione. Il 14 maggio è salito in cima alla stele che ricorda la strage di Capaci, lungo l’autostrada Palermo-Mazara del Vallo, minacciando il suicidio. La motivazione alla base del licenziamento non sarebbe altro che un modo per coprire le sue ripetute denunce delle condizioni di insicurezza lavorativa all’interno del cantiere.

Ilaria Leccardi da Cenerentola

giovedì 21 agosto 2008

Dante De Angelis, storia di un ferroviere licenziato per aver detto la verità

Dante De Angelis è un ferroviere. Responsabile. Attento. E' un Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza. Sigla Rls.
Alcuni giorni fa, il 14 e il 22 luglio, alla stazione di Milano due treni Eurostar si sono spezzati. Troncati. Divisi.
Trenitalia spiega: la colpa è del personale, un errore di manovra.
Dante prova a dire qualcosa di diverso: si tratta di mancanza di manutenzione, eccessiva usura.

15 agosto 2008: gli italiani vanno in vacanza, è Ferragosto. L'Italia è divisa in due dal maltempo, al nord piove, lacrime su quasi tutte le regioni. Al sud il sole di dà fare. Splende, sorride. Proprio quel giorno, a Ferragosto, Dante de Angelis viene "allontanato" dal posto di lavoro, senza ricevere nemmeno una lettera di licenziamento. Era già stato licenziato nel 2006 dopo aver parlato della insicurezza dei treni, ed era stato reintegrato dopo 7 mesi passati senza stipendio.

La solidarietà arriva subito, dai sindacati, dai compagni di lavoro, anche dalla Polizia Ferroviaria. Intanto, mentre Dante viene licenziato, un terzo treno si spezza. Un treno merci, in transito all'interno di una galleria vicino a Salerno. Denunciano il fatto il 15, forse anche per farsi forza. Saranno licenziati anche loro?

giovedì 24 luglio 2008

Processo ThyssenKrupp, seconda udienza
Un report della Rete nazionale per la sicurezza sui luoghi di lavoro

Mercoledì 23 luglio: nell'aula grande del Tribunale di corso Vittorio Emanuele II si celebra la seconda udienza - l'ultima prima della pausa estiva - del processo contro i vertici del colosso mondiale dell'acciaio Thyssenkrupp Acciai Speciali Terni. In questa occasione il giudice deve convalidare la costituzione delle parti civili. L'inizio della seduta è previsto per le 10, e come in occasione dell'apertura del processo - avvenuta martedì 1° luglio, è convocato - a partire dalle ore 9,30 - un presidio per chiedere alla magistratura giustizia per le vittime della strage alla linea 5 dello stabilimento di corso Regina Margherita.

Sono presenti gli ex lavoratori della fabbrica, riuniti nella associazione Legami d'acciaio con alcuni familiari delle vittime, il segretario provinciale della Fiom Giorgio Airaudo, il parlamentare del partito sedicente democratico Antonio Boccuzzi - ex operaio della linea 5 - e una rappresentanza dei lavoratori torinesi della Rete nazionale per la sicurezza sui luoghi di lavoro.

Esattamente come in occasione della prima udienza brillano per la loro assenza sia le formazioni della falsa sinistra forzatamente extraparlamentare - Rc-Se, Pdci, Sc, Pcl - sia i sindacati - sia quelli confederali sia Cub, Confederazione Cobas, SdL - che evidentemente hanno altro a cui pensare: ci chiediamo con quale diritto osino ancora definirsi i difensori dei lavoratori, dopo che disertano appuntamenti, come quello di oggi, ai quali chiunque si definisca in qualche modo di sinistra dovrebbe quantomeno fare presenza.E' proprio vero: tra il dire ed il fare c'è di mezzo il mare... dell'opportunismo, del voler coltivare il proprio orticello evitando di presenziare a manifestazioni - anche sacrosante - che non sono convocate dalla propria organizzazione. A questo proposito vedremo come si comporteranno gli assenti di oggi nel prosieguo, anche in relazione all'altro processo - per lesioni colpose - che coinvolge i vertici torinesi della Thyssenkrupp: si tratta di quantificare il danno esistenziale subito dagli operai della linea 4 in seguito all'incendio della vicina linea 5 (furono i primi ad accorrere in soccorso dei compagni e il ricordo di quella tragica notte non li abbandonerà mai). Attualmente il procedimento è allo stato delle indagini preliminari.

Per parte nostra, come Rete per la sicurezza sui luoghi di lavoro, continueremo a seguire il processo con tutta la attenzione che merita. L'appuntamento per le prossime udienze è fissato per i giorni 26 settembre, 6 e 13 ottobre. Il rinvio è stato richiesto dagli avvocati della azienda per studiare la linea difensiva anche in relazione alle venti nuove costituzioni di parte civile.

Stefano Ghio. Rete nazionale per la sicurezza sui luoghi di lavoro

mercoledì 16 luglio 2008

Per un'informazione libera
Nasce un nuovo format... si chiama Pandora.
Presentazione giovedì 17 luglio a Torino

Non una nuova tv, ma un nuovo format televisivo settimanale, per andare al di là dell'informazione che i media generalisti ci propongono e impongono... Si chiama Pandora e sarà presentato giovedì 17, alle ore 21, alla Fabbrica delle "e", Corso Trapani 95, Torino.
La serata, organizzata dal Comitato Promotore di Torino, in collaborazione con il Gruppo Abele, vedrà la partecipazione di Diego Novelli e Gianni Vattimo.

L'idea, nata dall’associazione MEGACHIP, presieduta da Giulietto Chiesa, ha subito attirato partecipazioni e consensi di chi nel nostro Paese si batte per un’informazione libera, a difesa della democrazia e del bene comune.

Le violazioni del pluralismo e la manipolazione delle notizie sono gli effetti più evidenti e dannosi di un sistema mediatico controllato da poteri politici ed economici, che continua a disinformare e distrarre i cittadini.

Per questo è nata l'idea di lanciare, lo scorso marzo, una voce alternativa, indipendente e altamente qualificata che rompa il conformismo del panorama informativo italiano. La particolarità di Pandora è quella di nascere dal basso, fondandosi sull'azionariato popolare. In breve tempo, oltre a una forte adesione di cittadini, è arrivato l'appoggio di tanti giornalisti, artisti ed esponenti del mondo della cultura e dello spettacolo che condividono e appoggiano il progetto.

Obiettivo della serata del 17 è far conoscere il progetto e lo stato di avanzamento.
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Primi sostenitori: Giulietto Chiesa, don Aldo Benevelli, Anna Maria Bianchi, Caparezza, Sergio Cararo, Franco Cardini, Felice Casson, Paolo Ciofi, Giorgio Cremaschi, Tana de Zulueta, Arturo Di Corinto, Laura Di Lucia Coletti, Claudio Fracassi, Luciano Gallino, don Andrea Gallo, Silvia Garambois, Giuliano Giuliani, Udo Gumpel, Sabina Guzzanti, Serge Latouche, Empedocle Maffia, Lucio Manisco, Gianni Minà, Roberto Morrione, Diego Novelli, Moni Ovadia, Riccardo Petrella, Carlo Petrini, Lidia Ravera, Ennio Remondino, David Riondino, Roberto Savio, Antonio Tabucchi, Gianni Vattimo, Vauro, Elio Veltri, Dario Vergassola, Alex Zanotelli
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Per ulteriori informazioni: www.megachip.info
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Per scaricare il volantino: http://www.obiettivo.info/FabioNews/Volantino17luglio.pdf

venerdì 4 luglio 2008

Una lista infinita. I morti sul lavoro nei primi 6 mesi del 2008

Una lista macabra, per certi versi potrebbe sembrare cinica. Ma significativa. Numeri, luoghi e date. Più di una guerra. 185 persone, senza contare quelle che hanno perso la vita nei primi giorni di luglio

Giugno (33)
30 - 1 morto a Afragola (Na)
29 - 1 morto a Bellaccio (Como)
- 1 morto a Cesena
- 1 morto a Lugnano in Teverina (Viterbo)
28 - 1 morto a Massrosa (Lucca)
- 1 morto a L'Aquila
26 - 1 morto a a Scarlino (Grosseto)
25 - 1 morto a Cogne (Aosta)
- 1 morto a San Giovanni in Fiore (Cosenza)
24 - 1 morto a Bolzano
- 1 morto a Civitavecchia
23 - 1 morto a Tortoli (Nuoro)
21 - 1 morto a Menfi (Agrigento)
18 - 1 morto a Oggiona Santo Stefano (Varese)
- 1 morto a Trevigiano (Treviso)
15 - 1 morto a Costa Canile (Cuneo)
13 - 1 morto a Donori (Cagliari)
- 1 morto a Termini Imerese (Palermo)
- 1 morto a Settimo Milanese
11 - 6 morti a Mineo (Catania)
- 1 morto a Orani (Nuoro)
- 1 morto a San Salvatore Monferrato (Alessandria)
- 1 morto a Modena
10 - 1 morto a Imperia
9 - 1 morto a Campo Calabro (Reggio CAlabria)
7 - 1 morto a Prato
- 1 morto a Francavilla al Mare (Chieti)
4 - 1 morto a Jesi (Ancona)

Maggio (30)
29 - 1 morto a Vicenza
- 1 morto a San Marcello (Ancona)
- 1 morto a Bergamo
- 1 morto a Trento
- 1 morto a Sanremo
28 - 1 morto a Udine
27 - 1 morto a Tordanadrea di Assisi (Perugia)
- 1 morto a Ragusa
- 1 morto a Locorotondo (Bari)
23 - 1 morto a Chiaravalle Gubbio (Perugia)
- 1 morto a Ciaravalle (Ancona)
22 - 1 morto a Bolzano
21 - 1 morto a Ceprano (Frosinona)
20 - 1 morto a Casalmaggiore (Cremona)
19 - 1 morto a Oggiono (Lecco)
- 1 morto a San Lucido (Cosenza)
16 - 1 morto a Piombino
13 - 1 morto a Lamezia Terme
- 1 morto a Palermo
11 - 1 morto a Catania
10 - 1 morto a Cornedo Vicentino (Vicenza)
- 1 morto a Montecchio Maggiore (Vicenza)
- 1 morto a Monopoli (Bari)
- 1 morto a Ovada (Alessandria)
9 - 1 morto a Piacenza
7 - 1 morto a Cascina Risaie di Villareggia (Torino)
5 - 1 morto a Roma
- 1 morto ad Asti
3 - 1 morto a Catania
- 1 morto a Monopoli (Bari)

Aprile (31)
29 - 1 morto a Miglianico (Chieti(
- 1 morto a Reggio Emilia
24 - 1 morto a Lecco
23 - 1 morto a Roma
- 1 morto a Modena
- 1 morto a Sondrio
22 - 1 morto a Ferrara
- 2 morti a Padova
- 1 morto a Costa Masnaga (Lc)
- 1 morto a Taranto
- 1 morto a Villa Santo Stefano
19 - 1 morto ad Agrate Brianza (Monza)
18 - 1 morto a Legnano
17 - 1 morto a Custonaci (Trapani)
16 - 2 morti a Cornate d'Adda (Milano)
13 - 1 morto a Terni
12 - 1 morto a Basilicagoiano (Parma)
- 1 morto a Treviso
- 1 morto a Castelbelforte Mantova
10 - 1 morto a Ferrara
- 1 morto a Sant'Antonio Abate (NApoli)
9 - 1 morto a Busto Arsizio (Varese)
- 1 morto a Monselice (Padova)
- 1 morto a Portovesme (Cagliari)
8 - 1 morto a Cagliari
7 - 1 morto a Oristano
6 - 1 morto a Verona
2 - 1 morto a Roma
- 1 morto a Pietrabbondante (Isernia)

Marzo (19)
31 - 1 morto a Napoli
- 1 morto a Vestenanova (verona)
- 1 morto a Teramo
- 1 morto a Caserta
26 - 1 morto a Melfi (Po)
20 - 1 morto a Sesto SAn Giovanni (MIlano)
- 1 morto a Tronto (Ascoli Piceno)
12 - 1 morto a Lentini (Belluno)
11 - 1 morto a Chiavasso (Torino)
10 - 1 morto a Verona
- 1 morto a None (Torino)
8 - 1 morto a Lizzanello (Lecce)
6 - 1 morto a Cerano (Novara)
- 1 morto a Milano
4 - 5 morti a Molfetta

Febbraio (38)
28 - 1 morto a Nocera Umbra (Perugia)
- 1 morto a Genova
27 - 1 morto a Migliara (Latina)
- 1 morto a Candelo (Biella)
25 - 1 morto a Siderno (Reggio Calabria)
23 - 1 morto a Borgoricco /Padova)
21 - 1 morto a Cupello (Chieti)
20 - 1 morto a Cesio MAggiore (Belluno)
- 1 morto a Misano (Rimini)
19 - 1 morto a Catania
- 1 morto a Biella
17 - 1 morto a Busano (torino)
- 1 morto a Sant'Agata dei Goti (Benevento)
16 - 1 morto a Travagliato (Brescia)
- 1 morto a Campobello di Mazara (Trapani)
14 - 1 morto a Enna
- 1 morto a Spinadesco (Cremona)
- 1 morto a Firenze
13 - 1 morto a Lutrano di Fontanelle (Treviso)
- 1 morto a Reda (Faenza)
- 1 morto a Raffadali (Agrigento)
12 - 1 morto a Torino
- 1 morto a Guidonia
11 - 1 morto a Salemi (Trapani)
- 1 morto a Falettis di Bicinicco (Udine)
- 1 morto a Orte (Viterbo)
10 - 1 morto a None (Torino)
9 - 1 morto a Roma
7 - 1 morto a Pratola Serra (Avellino)
- 1 morto a San Martino di Lupari (Padova)
6 - 4 morti a Castiglione in Teverina (Terni)
5 - 1 morto a Genova
- 1 morto a Ferrara
2 - 1 morto a Novafeltria (pesaro)
2 - 1 morto a San Giacomi di Guastalla (Reggio Emilia)

Gennaio (34)
31 - 1 morto a Messina
28 - 1 morto a Toscanella di Dozza (Bologna)
- 1 morto a Napoli
26 - 1 morto a Torbole Casaglia (Brescia)
25 - 1 morto a Venezia
24 - 1 morto a Val Bormida (Savona)
- 1 morto a Sommariva del Bosco (Cuneo)
- 1 morto a Vazzola (Treviso)
23 - 1 morto a Custonaci (Trapani)
- 1 morto a Ragusa
22 - 1 morto a Bolzano
21 - 1 morto a Contrada Terrepupi Ragusa)
20 - 1 morto a Castel Bolognese (Ravenna)
18 - 2 morti a Venezia
17 - 1 morto a Cosenza
16 - 1 morto a San Guovanni in Marignano (Rimini)
- 1 morto a Rosolini (Ragusa)
- 1 morto a Castelgomberto (Vicenza)
15 - 1 morto a Firenze
14 - 1 morto a Sassari
11 - 1 morto a San Giorgio di Nagaro (Udine)
- 1 morto a Cuneo
9 - 1 morto a Catania
8 - 1 morto a Leverano (Lecce)
7 - 1 morto a Peschiera Borromeo (Milano)
- 1 morto a Massa Marittima (Grosseto)
- 1 morto a Varese (Milano)
5 - 1 morto a Porzano di Leno (Brescia)
4 - 1 morto a Gissi (Chieti)
- 1 morto a Treviso
3 - 1 morto a Tito (Potenza)
2 - 1 morto a Torino
1 - 1 morto a Treviso

sabato 28 giugno 2008

Morti sul lavoro: una marcia senza fine

La marcia non si ferma. Il primo viaggio per l’Italia della Rete per la sicurezza nei posti di lavoro è arrivato a Roma, ma è già pronto a ripartire. A settembre, la Rete lancerà, infatti, uno sciopero rivolto a tutte le categorie. In piazza Barberini, venerdì 20 giugno, si è ritrovato un mondo che si batte per un lavoro più sicuro: operai e migranti insieme per una battaglia di diritti e giustizia.

Sotto la sede del ministero del Welfare si è svolta un’assemblea pubblica a cui hanno partecipato lavoratori provenienti da tutta Italia: dalla Thyssen di Torino all’Ilva di Taranto, dal petrolchimico di Marghera ai cantieri navali di Palermo, passando per il porto di Ravenna e la Dalmine di Bergamo. Tutte realtà in “emergenza”, che ormai quasi da un anno hanno dato vita alla Rete. Nel suo viaggio per la penisola, iniziato lo scorso marzo, la carovana per la sicurezza ha raccolto diverse proposte per integrare il testo unico, «che non va toccato come vuole fare Berlusconi, ma migliorato e applicato». Ed è sulle sanzioni che gli organizzatori premono di più: «I gravi incidenti non sono “contravvenzioni” ma devono essere qualificati come “delitti” – sottolinea Giuseppe Gaglio dell’Istituto Tumori di Milano – e devono essere estesi i reati di omicidio colposo e volontario, così come Guariniello ha ipotizzato per la Thyssen».

Una delegazione è stata ricevuta dal ministro Sacconi, tra le richieste: maggiori risorse per gli ispettorati del lavoro, riconoscimento degli infortuni invalidanti, diritto di cittadinanza per i migranti e più tutele per le donne, che più di altri patiscono gli stress della precarietà. La questione di genere è, infatti, uno dei temi più sentiti dal movimento: «Le donne – spiega Donatella Anello dello Slai Cobas di Palermo - sono tra le principali vittime della precarietà, che talvolta porta a gravi conseguenze sull’apparato riproduttivo, con disturbi mestruali e rischi per la maternità”.

In piazza Barberini c’erano anche le donne migranti che lo scorso 8 marzo con Action “A” hanno dato vita all’occupazione di uno stabile in via Lucio Sestio a Roma. Ventuno donne e 13 bambini che stanno recuperando la struttura dove abitano e dove si tengono corsi di ceramica e di italiano. Tutte hanno lunghe esperienze di lavoro non regolare: «E’ una presa in giro - racconta Milly dal Perù - sembra che oltre al “nero” non ci sia altro e, quindi, non si hanno molte scelte quando alla fine del mese uno deve pagare l’affitto». Serkalem, etiope, dopo anni di «nero» finalmente è stata assunta in una ditta. Infine, Rita, peruviana con due bambini di 6 e 7 anni, fa un paragone con la Spagna: «Vi ho vissuto e lì non c’era questa disuguaglianza tra uno stipendio di una donna e quello di un uomo, in Italia noi prendiamo la metà».

Mauro Ravarino

giovedì 12 giugno 2008

Lavoro, dove osa il Venezuela


Mentre in Italia si fatica ad arrivare alla fine del mese in Venezuela il Presidente Hugo Chavez firma un decreto per l'aumento dei salari minimi del 30%. Il Venezuela sale così al primo posto tra i Paesi dell'America indiolatina er salari minimi, con 372 dollari, anche ai pensionati. Inoltre, come già annuncia in passato, dal 1° maggio del 2010 la giornata lavorativa venezuelana passerà da 8 a 6 ore. E questo anche grazie ai processi di nazionalizazione delle maggiori fonti economiche del Paese come la Banca centrale, i pozzi di petrolio e l'azienda metallurgica SIDOR. Al contrario in Italia il 1° maggio non sappiamo neanche più cosa sia e torniamo indietro, cercando di eliminare il tetto massimo di 48 ore di lavoro settimanali.

Guarda il video del discorso di Chavez

mercoledì 11 giugno 2008

Nuova strage sul lavoro, questa volta in Sicilia.
I morti sono 6, ma 9 oggi in tutta Italia

Come per la Thyssen di Torino, come la Truck Center di Molfetta. Oggi succede ancora, in Sicilia, precisamente a Mineo, paesino di 5700 anime in provincia di Catania. Sei lavoratori morti, mentre stavano ripulendo il filtro di un impianto di depurazione. Quattro erano dipendenti comunali, i loro nomi: Giuseppe Zaccaria, Giovanni Sofia, Giuseppe Palermo e Salvatore Pulici, quest'ultimo lavoratore precario ex art. 23. Gli altri due erano dipendenti di una ditta privata impegnata nei lavori di manutenzione del depuratore, la Carfì di Ragusa.
Ai morti di Mineo se ne devono aggiungere altri 3, vittime del lavoro in diverse parti d'Italia, e un grave incidente occorso ieri sera alla Mercegaglia di Ravenna, dove un operaio di una ditta esterna è rimasto schiacciato da un rotolo di lamiera al centro servizi. Le sue condizioni sono gravi. Gli operai si sono fermati fino alla conclusione del 2° turno in segno di protesta per la mancata osservanza delle norme antinfortunistiche all'interno della fabbrica.
Non ci sono più parole per questo massacro continuo.

venerdì 16 maggio 2008

Lavorare al porto di Ravenna


Il 13 marzo 1987 l’Italia assisteva al più grave incidente sul lavoro del dopoguerra: la strage del cantiere Mecnavi, al porto di Ravenna. Tredici vittime, morte per aver respirato sostanze tossiche sprigionate da un incendio durante i lavori di pulizia nella stiva della nave Elisabetta Montanari. Il Paese scopriva così, incredulo, l’inferno del lavoro portuale, fatto di mansioni logoranti, contratti irregolari e subappalti. Delle tredici vittime otto lavoravano in nero, alcuni erano ragazzi ai primi giorni di servizio.

È partita proprio il 13 marzo di quest’anno, da Ravenna, la carovana contro le morti bianche. Un’idea della Rete per la sicurezza sui posti di lavoro, fondata dallo Slai Cobas di Taranto e dall’associazione 12 giugno che riunisce i familiari delle vittime dell’Ilva. La carovana fino a oggi ha toccato anche altre città, tra cui Bergamo, Palermo, Napoli, Molfetta, ma la scelta di partire da Ravenna non è casuale: luogo simbolo del lavoro assassino, è sede di uno dei maggiori porti commerciali d’Italia, dove gli incidenti colpiscono per lo più giovani senza esperienza.

«Abbiamo iniziato la nostra attività nel settembre 2006, subito dopo la morte di Luca Vertullo –, racconta Enzo Diano, dello Slai Cobas di Ravenna – e quest’anno, in occasione della carovana, abbiamo occupato la sede locale dell’agenzia interinale Intempo». Luca è morto a 22 anni al primo giorno di lavoro. Si trovava sul traghetto Ravenna-Catania, quando è rimasto schiacciato tra due rimorchi. Aveva trovato lavoro proprio tramite la Intempo, «leader in Italia nella somministrazione di lavoro in ambito portuale», come recita il suo sito internet.

Dopo la morte del giovane qualcosa sembra essersi mosso. Al porto è stata reintrodotta la “pesa” per controllare che i carichi non siano in eccesso, anche se qualcuno ha fatto notare che il rispetto dei limiti di carico avrebbe reso il porto ravennate “meno competitivo”. Nei mesi scorsi, inoltre, enti locali, sindacati confederali e Autorità Portuale, hanno firmato due importanti protocolli: il primo per favorire il miglioramento della qualità dell’aria nel porto, il secondo per la pianificazione degli interventi sulla sicurezza nell’area e che prevede la formazione di tre coordinamenti: uno dei lavoratori, uno delle imprese operanti nel porto e uno delle amministrazioni pubbliche con competenze in materia. Infine è stato firmato un contratto per realizzare un sistema di monitoraggio degli accessi al porto, che dovrebbe fornire un quadro delle presenze nell’area e vietare l’ingresso di personale non autorizzato.

Eppure tra le banchine di Ravenna decessi e infortuni non si sono fermati. Nell’ottobre del 2006 un incendio alla Polimeri Europa (ex Enichem) ha ustionato nove persone; nel luglio 2007 un dipendente della Donelli Eos è stato schiacciato dopo la rottura della catena di una gru; a settembre Marco Zanfanti, 19 anni, al secondo giorno di lavoro, è stato investito da un muletto all’Euro Docks, rimanendo gravemente ferito; a ottobre Filippo Rossano, ormeggiatore a pochi giorni dalla pensione, è morto cadendo in mare; infine a gennaio di quest’anno un operaio nigeriano è rimasto ferito a gambe e bacino, spostando del materiale.

Cos’è cambiato, quindi, dal 1987? «Nulla –, risponde Ermanno Bigi, del sindacato Federmar, una vita come gruista e tante battaglie alle spalle –. La cosa vergognosa è che ogni 13 marzo le autorità ripetono “mai più”, ma al porto si rischia sempre la pelle. Tutti i giorni avvengono cose che fanno rabbrividire. Gli incidenti piccoli o mancati sono numerosi, eppure nessuno li documenta. I lavoratori mostrano disagio ma hanno paura di parlare». Uno dei principali problemi di Ravenna è la scarsa specializzazione dei terminal, a differenza degli altri porti commerciali italiani. «Qui i terminalisti privati – continua Bigi – per aumentare i guadagni scaricano un po’ di tutto. Chi dovrebbe trattare cereali talvolta sbarca anche ferro o altri materiali. E questo aumenta confusione e rischi».

Una situazione che non sembra dunque essere migliorata, anzi: «I problemi della sicurezza sono gli stessi di vent’anni fa, ma una cosa è cambiata, in peggio. Un tempo tra i lavoratori c’era la consapevolezza del rischio, di ciò che stavano facendo e che sarebbe potuto succedere. Oggi quella consapevolezza si è persa e i giovani che iniziano a fare questo lavoro spesso non sanno nemmeno a cosa vanno incontro».

Ilaria Leccardi da Cenerentola

giovedì 24 aprile 2008

Tav Bologna Firenze:
tra le viscere della montagna



Fino al 2006 gli infortuni erano 3842. Sette i morti legati alle attività di cantiere. Tre le vittime di incidenti stradali avvenuti nel tragitto tra casa e posto di lavoro. È questo il bilancio di quasi dieci anni di lavori nei cantieri Tav tra Bologna e Firenze. Un progetto presentato come il fiore all’occhiello dalla Tav spa, che dovrebbe permettere ai treni di viaggiare come proiettili, attraversando le viscere della montagna, e rendere l’Italia un paese più moderno, per molti più civilizzato. Più probabilmente un’inutile macina di dolore.

«Oggi stiamo entrando nella delicata fase di dismissione del cantiere – afferma Valentino Minarelli, segretario della Fillea-Cgil dell’Emilia Romagna –. Una fase pericolosa, come quella iniziale di allestimento, in cui alle ditte che hanno condotto i lavori di scavo e costruzione se ne aggiungono altre in subappalto, che forniscono un lavoro precario e meno regolamentato. Una delle prime cause di infortunio in questi casi è il movimento dei mezzi di trasporto nei piazzali. Quando non c’è un coordinamento aumenta il rischio che il personale venga investito. I report sulla sicurezza dimostrano che nello stadio iniziale i picchi di infortuni sono alti, mentre scendono negli anni successivi. E per quest’ultima fase, purtroppo, si può prevedere un innalzamento del numero di incidenti».

Per tutta la durata dei lavori è stato possibile, grazie all’impegno delle regioni Toscana ed Emilia Romagna, dei sindacati e delle imprese, un monitoraggio sugli infortuni e l’approvazione di una serie di norme di sicurezza nei cantieri, tra cui l’utilizzo di un cartellino che garantisce un controllo sugli spostamenti e le presenze dei lavoratori. Questo ha ridotto gli incidenti, soprattutto nella fase centrale della lavorazione, quando il numero delle imprese è limitato e il controllo è maggiore. Ma non è bastato.

Alla base della grande quantità di infortuni ci sono anche le condizioni disagevoli di lavoro che aumentano la disattenzione e lo stress dei lavoratori. Prima di tutto i turni. Sulla linea Bologna-Firenze è stato adottato un sistema a ciclo continuo con lo schema 6+1; 6+2; 6+3, dove il 6 sta per giorni di lavoro, con turni di otto ore (6-14, 14-22 e 22-6) che si succedono l’uno all’altro, e 1, 2 e 3 sono i giorni di riposo. «Bisogna considerare che la maggior parte degli operai e dei minatori proviene da regioni lontane, dalla lontana Calabria al profondo nord – commenta Girolamo Dell’Olio, presidente di Idra, associazione ambientalista toscana, da tempo vicina ai lavoratori nei cantieri Tav -. L’orologio biologico dell’organismo viene stravolto. Il tempo per tornare in famiglia è poco e nel nostro conteggio delle vittime abbiamo inserito anche chi ha perso la vita per strada, nei lunghi e stancanti viaggi cantiere-casa e ritorno. Inoltre per tutto il periodo lavorativo gli operai sono stati costretti a vivere in campi base isolati da ogni centro abitato e spesso, invece di utilizzare il giorno di pausa per riposarsi, hanno finito per fare straordinari illegali, molto difficili da documentare».

Ci sono poi l’insalubrità dell’ambiente di lavoro, un terreno impervio, argilloso, difficile da trattare, il pericolo degli scavi in galleria che aumenta in presenza di grisù, le squadre di lavoro ridotte, l’isolamento. «Una delle cose che mi ha fatto più impressione – continua Dell’Olio – è la voglia di contatto che hanno questi operai. Ogni volta che siamo andati a manifestare contro i lavori loro provavano a comunicare con noi, si facevano fotografare, cercavano amicizia, anche se in realtà la nostra azione puntava a bloccare gli scavi e quindi avrebbe danneggiato nell’immediato anche loro. Certo apprezzavano quello che noi chiedevamo e chiediamo: lavoro e ferrovie là dove loro abitano, nelle regioni prive di ogni servizio da cui sono costretti a emigrare».

La fine dei lavori sulla Bologna-Firenze (annunciata in principio per il 2002-2003) è prevista adesso per l’autunno del 2009 e l’entrata in funzione delle linee per il 2010. Ma tra le mille difficoltà di costruzione e gli errori di progettazione rimane un grave problema irrisolto: la mancanza di una galleria di soccorso nel tratto appenninico tra Vaglia e Bologna. «L’ultima galleria in direzione Firenze è divisa in due subtratte – spiega Dell’Olio –. Una lunga 11 km, approvata nel ’98, è completa di galleria di soccorso parallela. L’altra, di 60 km con poche e brevi uscite all’aperto, approvata nel ’95, ne è invece sprovvista. Si tratta di un tunnel monotubo, in cui treni viaggeranno in direzioni opposte a più di 250 km orari. In caso di incidente, l’unico modo per prestare soccorso sarebbe usare le finestre intermedie poste a 6 o 7 chilometri di distanza una dall’altra. Troppo poco per garantire la sicurezza».

I Vigili del Fuoco di Firenze hanno espresso perplessità sulle effettive possibilità di prestare soccorso in una simile situazione. Allo stesso modo si è espresso il professor Aurelio Misiti, ex presidente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, oggi nelle liste dell’Italia dei Valori, che - in una conferenza nazionale a Roma cui è stata invitata anche l’associazione Idra - ha confermato le mancanze progettuali della tratta in tema di sicurezza, ipotizzando un termine dei lavori ben oltre il 2009. Tutto questo va di pari passo con le logiche del sistema dei general contractor per la gestione dei cantieri. La Bologna-Firenze è stata affidata al general contractor Fiat che, come altri grandi gruppi affidatari, assegna ad altre ditte la progettazione e l’esecuzione (in questo caso il consorzio Cavet, che riunisce imprese fra le più quotate del nostro Paese, da Impregilo alla Cmc-Cooperativa Muratori e Cementisti di Ravenna). L’architettura contrattuale e finanziaria però è tale che il general contractor risulta affidatario di una concessione di progettazione e costruzione delle opere, pagate interamente da Tav spa, senza però avere responsabilità sulla gestione. Questo determina una situazione paradossale che porta a prolungare il più possibile i lavori e a definire progetti sempre più costosi. Le vittime di una situazione in cui il concessionario non è impegnato a recuperare l’investimento fatto attraverso una buona gestione sono la qualità dell’opera e, ancor prima, i lavoratori.

Ilaria Leccardi da Cenerentola

sabato 1 marzo 2008

Ho 17 anni e fuggo dalla guerra

"Death visits everywhere". La morte ti può far visita dovunque. «È questo il proverbio inglese che mi ha dato coraggio durante i miei lunghi viaggi, nei momenti più difficili, anche quando sono arrivato davanti al mare e ho dovuto attraversarlo a bordo di un piccolo gommone. La paura di tornare indietro era più forte delle grandi onde che mi aspettavano».

Ahmed ha diciassette anni e viene dalla città di Ghazni, nel centro dell’Afghanistan. Il suo volto ha tratti orientali e occhi a mandorla, tipici dell’etnia hazara. Tra i suoi capelli scuri alcune striature grigie raccontano una maturità raggiunta troppo presto. La sua è una fuga dalla guerra, nata per rincorrere il sogno di studiare, quando anche l’istruzione nel suo paese era diventata un diritto per pochi.

«Sono scappato dall’Afghanistan due volte. La prima a nove anni, quando i talebani al potere avevano chiuso le scuole. Allora i miei genitori hanno pensato di mandarmi in Pakistan, a vivere da un amico di famiglia». Ma anche in Pakistan Ahmed non riesce a studiare, non ha i documenti regolari e non può frequentare la scuola. Allora la famiglia sceglie per lui un’altra strada: provare a chiedere asilo politico in Australia. Ma in Australia Ahmed non ci arriverà mai.

«Con documenti falsi e insieme a un signore che si è finto mio padre sono andato in Malesia e poi in Indonesia. Lì però la polizia ci ha fermati, ci siamo divisi e io sono finito in carcere per sette mesi. Più volte ho chiesto aiuto a organizzazioni internazionali come Iom (Organizzazione Internazionale per la Migrazione) e Unhcr (Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati) per ottenere asilo, ma è stato inutile».

Una volta uscito dal carcere, Ahmed torna in patria. Gli mancano gli amici e la famiglia. Quando arriva in Afghanistan scopre la realtà del conflitto. «A Kabul ho visto le case distrutte dalle bombe e una volta nel mio paese non ho più trovato i miei genitori, erano scappati dalla guerra, in Iran o forse in Pakistan».

È così che inizia la seconda fuga di Ahmed dall’Afghanistan. «Sono tornato in Pakistan dall’amico di mio padre, ma neanche lui c’era più. Ho dormito qualche giorno in una moschea, poi ho trovato lavoro in un negozio. E il padrone mi dava anche da dormire. Sono stato lì più di due anni poi sono ripartito, volevo andare in Inghilterra per ricominciare a studiare».

Ahmed parte per l’Iran, poi va in Turchia attraversando il confine con una camminata lunga sei notti. Arriva a Istanbul su un camion e lì poco per volta si organizza con un gruppo di cinque persone per raggiungere un’isola greca. «Abbiamo comprato un gommone a remi, ma nessuno di noi conosceva il mare né sapeva remare, eravamo terrorizzati. Era notte, faceva freddo, le onde erano altissime».

Caricati vicino a riva da una nave più grande, Ahmed e compagni sono accolti allo sbarco dalla polizia greca che prende loro le impronte digitali e li porta in un centro di accoglienza. «Eravamo tanti, non c’erano servizi igienici. Siamo stati lì tre mesi, dopodiché ci hanno dato un foglio di via. Entro un mese saremmo dovuti tornare in patria». L’unico modo per proseguire il viaggio era andare a Patrasso e provare a imbarcarsi su una nave diretta in Italia sfruttando la presenza dei camion che trovano posto nelle grandi stive. «Ho provato come fanno in tanti ad attaccarmi sotto il camion, ma la polizia mi ha scoperto e mi ha anche picchiato. Alla fine, insieme a un altro ragazzo afghano, sono riuscito a farmi caricare nel rimorchio di un Tir, pagando l’autista. Ci siamo nascosti sotto un mucchio di cartoni e siamo partiti. Con noi avevamo solo una bottiglia d’acqua e un pacco di biscotti».

I ragazzi riescono a scendere dal camion solo dopo 54 ore di tragitto e non in Italia, bensì in Austria. Fermati dalla polizia vengono condotti al di qua del confine, a Udine, in un centro di accoglienza. «Siamo stati qualche mese. Ma non ci trovavamo bene, c’erano tanti altri stranieri che disturbavano. Allora siamo scappati e con un treno siamo arrivati a Roma, dove abbiamo dormito un paio di settimane in un parco vicino al Colosseo. Infine, dopo esserci divisi, io sono arrivato a Torino. Era l’agosto del 2005».

Oggi Ahmed è affidato a una famiglia e frequenta il secondo anno di un istituto professionale. Parla correntemente sei lingue, il dari (una lingua afgana), il pashtun, il persiano, un dialetto indiano, l’inglese e l’italiano. E intanto studia il francese e lo spagnolo. In Inghilterra non è mai arrivato, ma in Italia si trova bene e ha tanti amici. «In questi anni sono cambiato. Quando ero piccolo vedevo la gente che faceva la guerra e anch’io volevo prendere le armi in mano per combattere. Oggi non lo farei mai». E quando gli chiediamo che cosa hanno lasciato nella sua memoria le lunghe traversate, Ahmed risponde: «Credo che siano state utili, anche se a tratti si sono rivelate un disastro. Quando la gente mi dice che sono un bravo ragazzo mi vengono in mente i miei genitori. Li ringrazio per aver pensato al mio futuro».

da Futura
Ilaria Leccardi

venerdì 1 febbraio 2008

Basta alle morti sul lavoro

Sarà una marcia. Alcuni la chiamano carovana. Attraverserà l’Italia tra marzo aprile e si svilupperà in una ventina di tappe e diverse iniziative: manifestazioni, occupazioni simboliche, spettacoli teatrali, concerti. Toccherà fabbriche, città, luoghi simbolici della lotta operaia e si concluderà a giugno con un appuntamento nazionale. Lo scopo è dire “BASTA!” alle morti sul lavoro.
Tra le tappe già individuate Torino, Milano, Dalmine, Marghera, Ravenna, la regione Toscana, Terni, Roma, Napoli, Melfi, Potenza, Manfredonia, Brindisi, Taranto, Praia a Mare, Gela e Palermo.
L’iniziativa, nata da un’idea della rete per la sicurezza sui posti di lavoro, fondata dallo Slai Cobas di Taranto e dell’Associazione 12 giugno che riunisce i familiari delle vittime dell’Ilva di Taranto, ha trovato numerosi appoggi in tutta la Penisola e sarà presentata con una conferenza stampa a Roma il 29 febbraio. In quell’occasione la rete proporrà anche il lancio una legge di iniziativa popolare come alternativa al testo unico sulla sicurezza.

Ilaria Leccardi

martedì 29 gennaio 2008

Un esperimento di gestione operaia

Sessantadue operai che guidano una fabbrica tessile. Un sistema di gestione che non viene calato dall’alto ma sorge all’interno del luogo di lavoro, tra le macchine, grazie ad assemblee e riunioni di settore. Non siamo in Argentina, ma a Bollate, periferia nord ovest di Milano, dove il 6 marzo 2006 la ex Timavo & Tivene si è trasformata in Syntess, fabbrica autogestita.

«La decisione di tentare la strada dell’autogestione è nata in poche ore – spiega Paolo Castellano, responsabile del personale -. Dopo un weekend di fuoco in cui i vecchi proprietari ci hanno abbandonato, le alternative di fronte a cui ci siamo trovati erano accettare la cassa integrazione, oppure provarci. E noi abbiamo scelto la seconda». La Syntess non è una cooperativa, ma una società di capitali, nata grazie alla Provincia di Milano, che ha dato 200 mila euro destinati inizialmente ad un eventuale ricollocamento dei lavoratori, e al contributo degli stessi operai che hanno versato le loro quattordicesime, in tutto 30 mila euro.

La fabbrica nasce nel 1958 su un’area di 25 mila metri quadri, 15 mila dei quali coperti, proprio nel centro di Bollate. E’ impegnata nella cosiddetta nobilitazione tessile, il momento della lavorazione dei tessuti che precede il confezionamento dei capi. Lo stabile, comprende una parte di laboratorio chimico, e due di lavorazione: l’area tintoria e l’area finissaggio. Grandi macchine, alcune simili a lavatrici, altre a giganti ferri da stiro, che lavorano senza sosta. Si producono tessuti in cotone, materiale tessile per la biancheria intima, ma anche pail e tessuti felpati.

A partire dagli anni Ottanta, quando a Bollate i dipendenti sono circa 250, la Timavo & Tivene, proprietaria anche di uno stabilimento in provincia di Treviso e uno in provincia di Bologna, è coinvolta nelle ripetute crisi del settore tessile. Dopo quella pesante del 2002, nel novembre 2004 la situazione precipita. I proprietari decidono di chiudere gli stabilimenti di Bologna e Bollate. Ma gli operai lombardi non ci stanno e iniziano a battersi per mantenere il posto di lavoro.

Nel marzo 2005, grazie all’impegno di un vecchio socio, nasce la Tintoria di Bollate. I lavoratori, che dopo le ondate di diminuzione del personale negli anni sono rimasti una novantina, vengono assunti con contratti a termine di un anno e per alcuni mesi la nuova fabbrica mantiene un bilancio in attivo. Ma a novembre il nuovo crollo. Il vecchio socio, anziano e incerto sulle prospettive future, decide di abbandonare.

A inizio marzo 2006, in concomitanza con la scadenza dell’anno di contratto a termine, sembra che la vecchia ditta Timavo & Tivene possa riprendere l’attività, ma all’ultimo straccia l’accordo. E così i lavoratori decidono di prendere la fabbrica in mano. Il tutto si sviluppa anche grazie al sostegno fondamentale della Filtea-Cgil (Federazione Italiana Lavoratori Tessili) e del suo segretario generale di Milano, Giuseppe Augurusa, impegnato fin dall’inizio nelle trattative con la vecchia azienda e guida per gli operai nel momento della scelta.

In un anno e mezzo di attività la Syntess ha ridotto il personale, per alleggerire i costi di gestione. Ma senza licenziamenti. Alcuni lavoratori sono stati ricollocati in altre fabbriche della zona, i più anziani hanno usufruito della possibilità del prepensionamento. Ora sono rimasti in sessantadue, la metà donne. «Non è stato semplice e non è semplice tuttora – continua Castellano -. Abbiamo dovuto riaccendere i macchinari dopo alcuni mesi di inattività e ritrovare la fiducia dei vecchi clienti, che in parte si erano già rivolti ad altre aziende».

Il consiglio di amministrazione è composto da un amministratore esterno e da due lavoratori. Ma è tutto l’insieme degli operai-soci a partecipare alla gestione dell’azienda, tramite riunioni di settore a diverso livello. I primi mesi di attività i conti sono andati in positivo. Oggi la situazione è un po’ più critica, ma le difficoltà dipendono soprattutto dai brutti momenti che il settore tessile attraversa periodicamente. «Produciamo 5 mila chili di merce al giorno, a fronte di una potenzialità di 15 mila», dice un po’ preoccupato Castellano.

Ma gli operai della Syntess hanno un progetto ben chiaro in mente, che comprende anche l’abbattimento dei costi energetici. E’ per questo che hanno cercato un partner che li potesse aiutare, sia dal punto di vista della capitalizzazione che da quello del risparmio di energia. E lo hanno trovato in TeSI, società di servizi energetici che è entrata nel capitale sociale della Syntess e ha costruito una nuova centrale energetica funzionante con il sistema di cogenerazione del vapore. Questo permetterà un risparmio notevole alla fabbrica, ma soprattutto la possibilità di vendere energia alla città di Bollate.

«L’ostacolo più grande ora è far comprendere a tutti l’importanza di partecipare. Molti operai si sono responsabilizzati e lavorano bene. Ma ogni tanto capita che la produzione non sia fatta al meglio. E noi questo non ce lo possiamo permettere. A volte ci è toccato anche prendere dei provvedimenti disciplinari». Una visione che rende questi lavoratori, forse anche un po’ inconsapevolmente, esempi di un discorso sociale avanzato, fatto di responsabilità e partecipazione collettiva.

«Oltre a un po’ di follia e a molto coraggio – prosegue Castellano – è necessario un gruppo di persone che sappia trascinare la lotta. Un gruppo che sia credibile all’interno della fabbrica ma anche nelle relazioni con l’esterno. Abbiamo avuto una certa visibilità mediatica, ora però l’importante è che venga dato un quadro legislativo alla nostra situazione, che per ora in Italia è unica, ma non è detto che lo rimarrà».

Ilaria Leccardi da Cenerentola

Anoressia: a rischio anche i ragazzi


Evitare il cibo. Non dare sfogo al palato. Privarsi del piacere del gusto, nella ricerca tormentata del fisico perfetto. Digiunare. Consumarsi. Consumarsi fino a svanire, annullarsi. E poi scomparire. L’anoressia è una malattia che colpisce in prevalenza la popolazione femminile in età adolescenziale. Ma in realtà, ha anche un volto maschile, in crescita negli ultimi anni. Lo sostiene uno studio del Ministero per le Politiche Giovanili e le Attività Sportive e del Ministero della Salute, secondo cui la percentuale di maschi affetti da disturbi alimentari raggiunge oggi il 5% dei malati totali, un numero decuplicato in soli cinque anni.

«Le manifestazioni e i sintomi dell’anoressia maschile sono gli stessi che colpiscono le donne – spiega il professor Giuseppe Malfi, responsabile della struttura dietetica sui disturbi alimentari delle Molinette di Torino – voglia di perdere peso e timore di recuperarlo, iperattività fisica, incapacità di riconoscere la malattia. Ma mentre tra le ragazze si è affermato il concetto di magrezza come sinonimo di successo, tra gli uomini prevale la ricerca estetica del bel fisico. Questa ossessione prende la forma della cosiddetta vigoressia, una tendenza del ragazzo a svolgere molta attività fisica, passando un gran numero di ore in palestra, e a controllare in modo assillante il cibo che mangia».
Uno degli ultimi giovani che il professore ha visitato supera il metro e settanta ma pesa solo 48 chili. Dall’inizio della sua malattia di chili ne ha persi quasi 20. «In genere i ragazzi che cadono nell’anoressia sono normopeso, non tendono all’obesità – continua il professore –. Tra i primi alimenti che eliminano ci sono quelli contenenti carboidrati e grassi. C’è poi chi, per sopperire alla mancanza di cibo si riempie di liquidi, arrivando a bere anche 3 o 4 litri al giorno di acqua o altre bevande. Si chiama polidipsia, ossia necessità patologica di bere continuamente».

Ogni anno al centro pilota regionale delle Molinette per la cura dei disturbi alimentari entrano tra i 150 e i 200 nuovi pazienti anoressici. Un caso su venti riguarda maschi. E il professor Malfi conclude: «Se circa la metà delle adolescenti anoressiche riesce a uscire dalla malattia grazie alle cure, per i ragazzi spesso è più difficile venirne fuori». La malattia porta la persona a consumarsi poco per volta e i tassi di mortalità possono raggiungere anche il 20%. La metà dei decessi avviene per suicidio, ma sono anche molti i casi di morte per arresto cardiaco.
Il centro offre ai giovani in difficoltà linee telefoniche e mail dedicate all’ascolto.

I minorenni possono contattare il centro al numero 011.6307477, o all’indirizzo mail prato-18@centrodcapiemonte.com. I maggiorenni invece possono chiamare il numero 011.6336252/3 o scrivere a prato+18@centrodcapiemonte.com.
Ilaria Leccardi


di Ilaria Leccardi da Futura

lunedì 28 gennaio 2008

La Thyssen è vuota. La piazza no

Sono passati quasi due mesi dalla tragedia alla ThyssenKrupp. La fabbrica di corso Regina Margherita è chiusa, ferma, silenziosa. All’esterno però gli operai si muovono, discutono del proprio futuro, provano a restare uniti. E intanto, nascono diverse iniziative per non dimenticare quella notte e sostenere i centocinquanta lavoratori rimasti fuori dai cancelli.

«Ci incontriamo davanti alla fabbrica ogni tre o quattro giorni – racconta Ciro Argentino, delegato Fiom alla ThyssenKrupp –. Parliamo della nostra situazione lavorativa e del nostro futuro, anche se, dopo aver incontrato i rappresentanti dell’azienda negli ultimi giorni di dicembre, non abbiamo più avuto riunioni ufficiali e molti di noi ancora non sanno nulla di quello che sarà il loro ricollocamento. Inoltre stiamo raccogliendo testimonianze sulla situazione in fabbrica prima dell’incidente, per dimostrare che l’azienda è imputabile non solo per il rogo, ma anche per aver sempre ignorato le misure in tema di sicurezza. Ci siamo affidati a due studi legali vicini al sindacato, mentre le famiglie delle vittime hanno preferito agire da sole, scegliendo dei propri avvocati».

In questo cammino i lavoratori non sono soli. C’è chi alla Thyssen ha pensato di dedicare un concerto, come quello del 19 gennaio scorso al circolo Arci Evadamo di Torino, a cui hanno partecipato più di settecento persone e molti lavoratori. C’è chi, come i giovani dell’associazione Monkeys Evolution, ha deciso di lanciare una raccolta firme per chiedere al Comune di Torino la realizzazione di un murales grande e colorato in ricordo delle vittime. I delegati della fabbrica hanno anche pensato ad una Partita del Cuore con la nazionale cantanti per mantenere alta l’attenzione sull’emergenza delle morti sul lavoro, e per ognuna delle famiglie delle vittime sono già stati raccolti più di 500 mila euro, grazie alle sottoscrizioni organizzate da sindacati, quotidiani, associazioni, enti locali.
Non è mancata la solidarietà di molti operai italiani, che hanno deciso di devolvere il guadagno di alcune giornate di lavoro.

E sull’intera vicenda “vigilano” ora le telecamere di Rai3. Dall’otto dicembre scorso, infatti, su idea di Simona Ercolani, autrice televisiva, e del marito Fabrizio Rondolino, tre giovani registi – Gigi Roccati, Sara Ristori e Paolo Fattori – sono al lavoro per realizzare un documentario sulla tragedia dell’acciaieria di corso Regina, che verrà trasmesso in primavera da Rai3. «Contiamo di finire il lavoro ad aprile per poterlo mandare in onda il primo maggio – racconta Roccati – Per ora abbiamo oltre cento ore di girato, speriamo di farcela».

Ma il documentario non affronterà solo i fatti della notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007: «Abbiamo pensato di costruirlo su tre livelli. Innanzitutto racconteremo la storia della tragedia e le sue conseguenze. Poi daremo spazio alle famiglie delle vittime, al loro dolore e alle loro reazioni, e alle singole storie degli operai in lotta. Infine parleremo dell’inchiesta giudiziaria in corso». Per più di un mese i tre registi hanno vissuto con gli operai Thyssen: «Abbiamo trascorso con loro Natale, Capodanno, il giorno della Befana, le domeniche, intere notti. Non è stato facile, ma abbiamo cercato di essere il più discreti possibile».

Ilaria Leccardi e Gabriella Colarusso