mercoledì 30 settembre 2009

Marlane, chiusa l'inchiesta della Procura di Paola: morti 40 operai a causa dei coloranti

Ne sono morti quaranta di cancro. Altri sessanta hanno lo stesso male e sono ancora vivi. Erano tutti operai, colleghi, per anni fianco a fianco nell'azienda tessile Marlane, in provincia di Cosenza, a Praia a Mare. La Procura di Paola ha concluso le indagini, durate anni, e ha ipotizzato i reati di omicidio colposo dei dipendenti, la cui morte è stata attribuita alle condizioni di lavoro, e inquinamento ambientale.

Sono stati anni difficili per i parenti delle vittime, difficili per gli ex operai che dopo anni di lavoro in fabbrica combattono contro tumori che hanno colpito la vescica, o i polmoni, l'utero o la mammella. Le fasi delle indagini sono, per il momento, concluse, si attende ora la decisione di rinvio a giudizio di una decina di indagati.

Ci sono voluti anni e anni di indagini, prima lungo un doppio percorso, poi riportate in un unico fascicolo, per dimostrare la connessione tra i decessi e l'uso di alcune sostanze usate nella fabbrica di coloranti azoici, che contengono "ammine aromatiche", indicate da una ampia letteratura scientifica come responsabili delle insorgenze tumorali.

Tre procedimenti - il primo iscritto nel '99, il secondo nel 2006 (con sette indagati) e il terzo nel 2007 (con quattro indagati) - che il Procuratore Capo Bruno Giordano ha fatto confluire in un unico fascicolo. Più di mille operai hanno lavorato nell'azienda fondata negli anni '50 dal conte Rivetti. Si producevano tessuti di vario tipo, per lo più divise militari. Fino alla metà degli anni Sessanta, nella Marlane esistevano dei muri divisori tra i reparti.

Poi l'azienda passò dal Lanificio Maratea, nel 1969, all'Eni - Lanerossi. In quell'anno i muri che dividevano i reparti furono abbattuti e così la fabbrica diventò un unico ambiente di lavoro: la tessitura e l'orditura, trasferite dal lanificio del vicino comune di Maratea, vennero inserite tra la filatura e la tintoria, senza alcuna divisione fisica. E così i fumi saturi di sostanze chimiche di coloritura, provenienti dalla tintoria si espandevano ovunque. Una nube permanente e densa sugli operai.

A chi lavorava su certe macchine, alla fine della giornata veniva donata una busta di latte per disintossicarsi. Era l'unica contromisura proposta, che evidentemente non poteva bastare. I coloranti - quelli che generalmente vengono contenuti nei bidoni con il simbolo del teschio - venivano buttati a mano dagli operai in vasche aperte, dove ribollivano riempiendo di fumi l'ambiente e le narici dei lavoratori.

Senza aspiratori funzionanti. Gli operai tossivano e i loro fazzoletti diventavano neri. E poi c'era l'amianto. L'azienda dice di non averlo usato, ma chi ha lavorato nello stabilimento sa bene che i telai avevano freni con le pastiglie d'amianto, che si consumavano spesso e dalle quali usciva polvere respirata da tutti.

Nel corso del 1987 il gruppo tessile Lanerossi - già appartenente al gruppo ENI, di cui faceva parte la Marlane di Praia a Mare - venne ceduto alla Marzotto di Valdagno, che ne detiene ancora la proprietà. Negli anni '90 la svolta: arrivarono le vasche a chiusura, dove i coloranti potevano ribollire senza riempire l'aria di vapori. Ma per molti operai fu troppo tardi, dopo decenni di inalazioni tossiche. Nel 96 la tintoria è stata chiusa. Oggi l'azienda è vuota. Dismessa.

"Le indagini sono praticamente chiuse - ha dichiarato il Procuratore Capo di Paola, Bruno Giordano - recentemente abbiamo richiesto un ultimo sequestro preventivo che il gip ha emesso relativo all'area circostante lo stabilimento e credo che sia stato l'ultimo passo istruttorio da parte nostra.

Ora aspettiamo solo di chiudere formalmente le indagini". La Procura di Paola ha infatti sequestrato il terreno circostante l'azienda: sotto, tonnellate di rifiuti industriali. Sostanze che erano nocive ancora prima di diventar rifiuti e che per questo avrebbero dovuto seguire l'iter di smaltimento secondo legge. Ma evidentemente qualcuno ha preferito seppellirli lì. Per questo, all'indagine iniziale sulle morti bianche se ne è aggiunta una seconda: non si indaga solo sulle modalità del ciclo di produzione ma anche sull'interramento dei rifiuti. Così oggi la fabbrica, chiusa da cinque anni, non è sotto sequestro ma i terreni circostanti sì.

Secondo la Procura, gli operai deceduti potrebbero essere più di ottanta: non tutte le famiglie dei deceduti infatti hanno sporto denuncia. Per questo il dottor Giordano ha costituito un gruppo di lavoro per individuare tutte le eventuali parti offese. Per molti operai, tuttavia, sarà dificilissimo avere giustizia: tanti sono i casi caduti in prescrizione. Con la legge Cirielli, infatti, solo i decessi a partire dagli anni '90 possono rientrare nella vicenda giudiziaria in corso.

Le prime morti risalgono agli inizi degli anni '70. Tra i primi, nel '73, due trentenni che lavoravano con gli acidi. E così via. Qualcuno sostiene che i morti siano un centinaio, ma secondo l'azienda sarebbero "solo" una cinquantina. Dato, questo, che rivelerebbe un rischio pari a un caso su un totale di 1058 operai, nell'arco di 40 anni. Motivo per cui l'azienda non vuole riconoscere il nesso di causalità tra le morti e le sostanze lavorate in fabbrica per decenni.

Non è dello stesso avviso il prete del paese, che ha celebrato più di ottanta funerali di operai. E non lo sono neanche le vedove, gli orfani di padri morti dopo una vita trascorsa in fabbrica. E poi c'è la storia di un operaio ammalato di cancro, Luigi Pacchiano, che ha trovato il coraggio di far causa alla Marlene - e che ha denunciato di aver ricevuto minacce per la sua azione legale - ma a cui poi l'Inail ha riconosciuto la malattia professionale ed ha ottenuto dal tribunale di Paola un risarcimento di 220 mila euro.

Ma le questioni sulla Marlene non finiscono qui. Ci si interroga sui finanziamenti dall'Unione europea e dalla Regione, sulle storie di precariato e cassa integrazione, sui sindacati e sui partiti e persino, come si può leggere nei rapporti del Ministero della Sanità, sul mare non balneabile di fronte alla fabbrica, nonostante ci fosse un depuratore.

di carlo Ciavoni e Anna Maria De Luca
da Repubblica

venerdì 25 settembre 2009

Paz sin fronteras

Che piaccia o no, il megaconcerto di domenica 20 settembre, nella Plaza de la Revolución all'Avana, è stato un vero successo: 15 interpreti assai popolari, fra cui il nostro Jovanotti, Silvio Rodríguez, Miguel Bosé, la portoricana Olga Tañón, Víctor Manuel, gli Orishas (il gruppo cubano che lavora all'estero e che da anni non tornava a casa), Amaury Pérez, X Alfonso, il grande Juan Formell con i suoi Van Van ed altri, hanno animato le cinque ore di musica, sotto un sole implacabile, riuniti intorno all'iniziativa del colombiano Juanes che vuole fare della musica un potente strumento di pace.

Quando Juanes ha organizzato un concerto alla frontiera fra Venezuela e Colombia, una frontiera bruciante e rischiosa, e l'ha chiamato "Paz sin fronteras", gli elogi per l'iniziativa si sono sprecati. Questa volta, invece, l'idea di scegliere la Plaza de la Revolución, un luogo assai simbolico per l'America Latina, con il mural del Che in fondo, ha suscitato scandalo, rabbia, una battaglia dei mass media davvero massiccia e senza esclusione di colpi.

I dischi di Juanes sono stati fracassati nella pubblica via a Miami, dove il cantante colombiano vive e dove sua moglie, in attesa del terzo figlio, ha dovuto sostenere il peso di un ostracismo così violento. Neanche la grande popolarità dell'autore di "Camisa negra" è riuscita a sedare gli animi dell'esilio cubano a Madrid, a New York e dovunque si sia stabilita una comunità di transfughi dall'isola. I motivi di una rabbia così sfrenata appaiono evidenti: il concerto di ieri, davanti a un milione e centocinquantamila spettatori che hanno sopportato con allegria l'implacabile sole del pomeriggio, è stato un grande successo per la musica, per la gestione intelligente dei cubani e del ministro della Cultura Abel Prieto, per l'affiatamento dei musicisti provenienti da diverse parti del mondo ispanico.

L'evento è stato trasmesso in diretta dalla catena di televisione Cuatro e anche se il servizio d'ordine -come sempre a Cuba nelle grandi manifestazioni di massa- è stato severo, tutto si è svolto nel migliore dei modi.

I quindici artisti hanno cantato gratis e gli organizzatori, Juanes in testa, si sono accollati le spese per gli impianti mentre Cuba offriva alloggi e organizzazione. E proprio per risparmiare qualcosa, il concerto si è svolto di giorno, all'implacabile luce del sole che però non ha scoraggiato un pubblico enorme. Un malevolo commentatore, su El País, ha intitolato che "la montagna ha partorito un topolino", affermando che il pubblico era costituito tutto da militanti e lavoratori intruppati nei camion e portati per forza. Davvero confortante pensare che all'Avana ci sia ancora un milione e passa di militanti!

Nella grande piazza dominava il colore bianco, bianco della pace, e tutti i ritmi della musica caraibica e, per chiudere il concerto, tutte e quindici le star del mondo ispanico hanno lasciato il posto alla voce calda, allegra, sfottente del grande Compay Segundo e del suo "Chan chan". Dall'oltre tomba, fumando il suo interminabile sigaro, quel vecchio adorabile se la sarà goduta.

di Alessandra Riccio,
da Latinoamerica

giovedì 17 settembre 2009

Gaza, l'Onu condanna
i "crimini di guerra" di Israele

“Gravi violazioni del diritto internazionale”, “attacchi deliberatamente sproporzionati e volti a punire, umiliare e terrorizzare la popolazione civile”, “crimini di guerra e contro l’umanità”.

Sono alcune delle espressioni usate dalla commissione di inchiesta dalle Nazioni Unite per descrivere quanto avvenuto nel corso della cosiddetta operazione “Piombo fuso”, l’offensiva militare condotta da Tel Aviv nel gennaio scorso.

L’indagine – durata cinque mesi e presentata ieri a New York dal presidente della commissione, il magistrato sudafricano Richard Goldstone – mette sul banco degli imputati Israele, responsabile di avere preso di mira “l’intero popolo di Gaza”.

Accuse anche per i miliziani palestinesi, che nel lanciare razzi contro lo Strato ebraico “non hanno fatto distinzioni fra gli obiettivi militari e la popolazione civile”.

Crimini “provati”
Stando al rapporto, nelle tre settimane di offensiva a Gaza (dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009) Israele ha fatto deliberatamente "un uso della forza sproporzionato".

La commissione Onu afferma di aver trovato delle prove che "indicano che Israele durante il conflitto a Gaza ha commesso gravi violazioni del diritto internazionale e della legislazione sui diritti umani".

Le operazioni militari israeliane, costate la vita a oltre 1400 palestinesi, "sono state pianificate con attenzione in tutte le loro fasi come attacchi deliberatamente sproporzionati e volti a punire, umiliare e terrorizzare la popolazione civile".

Di fatto Tel Aviv ha "commesso azioni equivalenti a crimini di guerra e – talvolta - a crimini contro l’umanità", che hanno preso di mira “l’intero popolo di Gaza”.

Nel documento Onu non manca una condanna per il lancio di razzi in territorio israeliano da parte dei militanti palestinesi.

Il rapporto spiega che “lanciando missili e sparando colpi di mortaio sul sud di Israele, i gruppi armati palestinesi non hanno fatto distinzioni fra gli obiettivi militari e la popolazione civile” e “senza un obiettivo militare, essi costituiscono un deliberato attacco contro la popolazione civile”.

Rapporto “di parte”
Sia Israele che Hamas hanno criticato duramente le conclusioni della commissione guidata da Goldstone. Con una nota ufficiale, lo Stato ebraico ha accusato il magistrato di avere “scritto un capitolo vergognoso nella storia del diritto internazionale e del diritto dei popoli sull'autodifesa”, limitandosi “a raccogliere testimonianze false o unilaterali contro Israele”.

Successivamente, il portavoce del ministero degli Esteri Yigal Palmor ha definito il rapporto “scandaloso, estremista e del tutto sganciato dalla realtà”.

Toni duri anche da parte del movimento islamico che controlla Gaza. Il dirigente del partito, Ismail Radwan, ha parlato di “un rapporto politico, parziale e disonesto, perché mette sullo stesso piano coloro che commettono crimini di guerra e coloro che resistono”.

A difendere il documento, tuttavia, ci ha pensato lo stesso Goldstone, che in una conferenza stampa ha respinto le accuse antisemitismo mossegli dagli ambienti ebraici più radicali e ha sottolineato invece la sua “indipendenza”.

L’affidabilità del rapporto Onu, del resto, è stata ribadita da più parti. Secondo Tim Franks, analista della Bbc e corrispondente da Gerusalemme, quello presentato ieri è il documento più approfondito sui fatti di Gaza (575 pagine basate su 188 interviste, oltre 10mila pagine di documenti e 1.200 fotografie) e gode della garanzia fornita dall’autorevolezza dello stesso Goldstone.

Corte internazionale e Consiglio di sicurezza
Il rapporto della commissione Onu adesso potrebbe finire sul tavolo della Corte penale internazionale (Cpi) e del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Nella conferenza di ieri Goldstone ha chiesto che il pubblico ministero del tribunale dell’Aja, l'argentino Luis Moreno-Ocampo, esamini il dossier “il più rapidamente possibile”.

L’organizzazioni per i diritti umani Amnesty International (Ai) ha sollecitato invece il coinvolgimento del massimo organo decisionale delle Nazioni Unite. “Il Consiglio per i diritti umani dovrebbe approvare questo rapporto e le sue raccomandazioni e chiedere al segretario generale dell'Onu di trasmetterlo al Consiglio di sicurezza”, ha detto Donatella Rovera, responsabile di Ai e autrice a sua volta di un'inchiesta sull'offensiva di Gaza.

di Carlo M. Miele
Osservatorio Iraq
(fonte: Bbc News, Ansa, Agence France Presse)

giovedì 10 settembre 2009

Zitti. Non recitate

A Chivasso il sindaco Bruno Matola (Pdl, ex An) censura l’anteprima nazionale dello spettacolo A Ferro e fuoco della compagnia Teatro a Canone diretta dal regista Simone Capula. Il lavoro è ispirato al libro di Stefania Podda Nome di Battaglia Mara. Vita e morte di Margherita Cagol il primo capo delle Br. Il Sindaco dopo aver concesso in un primo tempo l’uso del Teatro comunale l’ha revocato 6 giorni dalla prima.

Motivo? «La tutela della morale pubblica». Matola, senza mai aver visto lo spettacolo, fa riferimento a «espressioni che possano essere ritenute offensive della dignità e della morale pubblica e pertanto potenzialmente lesive dei sentimenti e degli interessi pubblici collettivi che questa Amministrazione è tenuta a tutelare». La stessa sensibilità, però, non l’aveva avuta nel caso di discutibili invitati di estrema destra o di serate sul fascismo. E qualcuno si chiede: l’Italia dovrebbre essere uno Stato di diritto, non uno «Stato etico»?

Scrivono Frediano Dutto e Piero Meaglia, del Centro di Documentazione Paolo Otelli di Chivasso: «E’ evidente la scorrettezza di una revoca così tardiva, e il danno economico e professionale che implica per la compagnia: ma non è su questo aspetto che vogliamo soffermarci qui. Ciò che indigna è la motivazione prodotta dal sindaco: lo spettacolo sarebbe offensivo “della dignità e della morale pubblica”, e “potenzialmente lesivo dei sentimenti e degli interessi pubblici collettivi”. Una censura di fatto, esplicita, neppure mascherata da un pretesto (quale potrebbe essere, ad esempio, un impedimento tecnico all’uso della struttura). Per tutelare non si sa bene quali sentimenti che il sindaco ritiene di incarnare, egli procura certamente un danno a noi tutti come cittadini mediante la lesione del nostro diritto costituzionale alla libertà di espressione del pensiero “con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” (Articolo 21). Non vale la pena contestare qui punto per punto questa motivazione ridicola e pericolosa come questa destra di cui il sindaco è espressione. Possiamo solo aggiungere che lo spettacolo – pur affrontando un tema scabroso: la vicenda umana e politica della BR Mara Cagol – rappresenta un utile momento di riflessione critica, mai apologetica, sulla lotta armata e sul terrorismo che, ci piaccia o no, fanno parte della storia del nostro paese. Noi, che abbiamo visto le prove dello spettacolo, lo possiamo affermare serenamente. In ogni caso, per essere criticato, anche duramente, lo spettacolo avrebbe dovuto aver luogo. Voltaire avrebbe detto: “Non condivido nulla di quello che dici, ma mi batterò affinché tu possa farlo liberamente”. Voltaire viveva sotto una monarchia assoluta. Per i cittadini di una democrazia compiuta, questa lotta non dovrebbe più essere necessaria. Ma purtroppo non è così. Per queste ragioni, vi invitiamo a venire lo stesso, come se lo spettacolo avesse luogo, davanti al Teatrino civico alle 21 di questa sera, per riaffermare la volontà di difendere i nostri diritti costituzionali».

di Mauro Ravarino da r/umori fuori fuoco

Su Chavez la disinformazione italiana
un articolo di Gianni Minà

La riflessione più evidente che nasce dalla lettura dei media italiani dopo il trionfale passaggio a Venezia del presidente venezuelano Ugo Chavez, per la prima del film-documentario "South of the Border" a lui dedicato da Oliver Stone, è che da noi proprio non ne vogliono sapere di dire la verità su quello che sta accadendo nel mondo e perchè.

La nostra informazione, pateticamente impantanata nel suo stupido gioco di gossip, insulti e contro insulti locali, sembra ormai malata di autismo nelle sue certezze, anche quando queste certezze sono smentite dai fatti, come è accaduto nel recente crollo del muro del capitalismo.

Questa informazione è, infatti, così abituata ad essere bugiarda, superficiale, ridicola nel raccontare le persone e riferire i fatti che non sente nemmeno più il bisogno di chiedersi, per esempio, perchè il regista Oliver Stone, quello di Salvador, Platoon, JFK, Wall Street, cioè un regista aduso a dire la verità fuori dai denti e a riflettere sul mondo che lo circonda, abbia sentito il bisogno di raccontare l’America latina oggi, usando il meccanismo del documentario, incontrando i presidenti del continente a sud del Texas, da Ugo Chavez, appunto, al brasiliano Lula da Silva, all’argerntina Cristina Kirchner con suo marito Nestor (che l’ha preceduta nella presidenza), all’ecuadoriano Rafael Correa, al paraguaiano Fernando Lugo, al cubano Raul Castro, tutti in qualche modo protagonisti del vento di attenzione sociale e civile che sta cambiando e rendendo più giusta quella parte del mondo. Un vento che, secondo tutti gli indicatori internazionali, sta spingendo l’America latina verso un riscatto, storicamente atteso dal tempo delle conquiste coloniali di Spagna e Portogallo, e non gradito agli interessi delle nazioni del nord del mondo.

Oliver Stone compie questa traversata di un continente che sta recuperando diritti democratici, mentre in Europa si perdono ogni giorno brandelli di conquiste civili e sociali, inframezzando le incursioni nella vita di questi leaders a frammenti di telegiornali nordamericani che hanno il merito di sbriciolare la fama usurpata della tante volte esaltata capacità giornalistica dei media d’oltreoceano.

Non a caso proprio a Venezia, nella cena organizzata dalla produzione, dove c’era anche Chavez, Stone mi ha ribadito “Molti dei paesi latinoamericani che hanno recentemente conquistato un’indipendenza reale sono scorrettamente indicati da settori del nostro governo e da parte della stampa miserevolmente asservita come “non democratici”, perchè le loro nuove scelte economiche e politiche nuociono ai nostri interessi. Tutto questo è insopportabile e bisogna avere la froza di denunciarlo”.

Insomma, il regista di Nato il quattro luglio e di Assassini nati fa il lavoro che una volta facevano i giornalisti, i saggisti, e che, da qualche tempo, fanno i registi come lui, come Sean Penn, George Clooney, perfino come Soderbergh (nella rigorosa ricostruzione della vita e dell’epopea di Che Guevara, che smentisce tutte le invenzioni montate contro lui e contro Cuba), o come Michael Moore, l’iniziatore di questo genere, premiato da un pubblico che evidentemente vuole sfuggire le mistificazioni e le menzogne della televisione.

Non è quindi sorprendente che, salvo Il manifesto, i media italiani non abbiano sentito il bisogno di raccontare ai propri lettori il contenuto di South of the Border (A sud del confine), che sarebbe stato doveroso per aiutare il pubblico a capire, ma abbiano sguinzagliato, invece, presunti cronisti d’assalto alla ricerca del pettegolezzo, della battuta, insomma del niente.

Ero a Venezia, nel mio ruolo di giornalista e documentarista, eppure ne sono stato sfiorato io stesso. In caso contrario questi cacciatori di panzane avrebbero dovuto ricordare, per esempio, che i leaders progressisti latino americani, protagonisti del film di Stone e che sono sembrati tutti dialetticamente più preparati dei nostri saccenti politici, hanno potuto affermarsi democraticamente solo dall’inizio del nuovo secolo, in particolare dopo l’11 settembre 2001, quando gli Stati Uniti, distratti da due guerre inventante in Oriente, hanno perso di vista il “cortile di casa”. Prima avrebbero potuto far solo la fine di quei leaders democratici del continete, dal guatemalteco Arbenz al cileno Allende, eletti dal popolo e deposti da criminali giunte militari sostenute dai governi degli Stati Uniti.
Ma il nostro attuale giornalismo parolaio ha paura di confrontarsi con la storia e con la verità.

Così sceglie sempre la via del cabaret o della plateale mistificazione.
Il Giornale di Berlusconi aveva per esempio un sommario, nell’articolo di Michele Anselmi, che recitava:”Il feroce caudillo venezuelano, ospite del regista Oliver Stone, che lo celebra in un film e dimentica la ferocia del regime”. Una simile dizione che richiamava personaggi inquietanti sostenuti dall’occidente, come Bokassa o Idi Amin, o il dittatore haitiano Duvalier o i componenti della giunta militare argentina o cilena, responsabili, con l’appoggio degli Stati Uniti, della tragedia dei desaparecidos, è, infatti, fondata sul niente. Purtroppo per il giornalismo italiano, se fosse stato chiesto a chi ha costruito quella pagina se fosse in grado di enumerare anche solo un atto di ferocia del presidente venezuelano, non avrebbe saputo rispondere, perchè, oltretutto, Chavez , come sa chi fa un giornalismo onesto, è il protagonista di un percorso politico che lo ha visto prevalere dodici volte in altrettante consultazioni elettorali o referendarie negli ultimi undici anni. E’ un dato, questo, che per chiarezza dovrebbe tenere in conto anche una parte della sinistra italiana, prevenuta sulla politica del presidente venezuelano, malgrado i successi sociali che gli organismi internazionali gli riconoscono. Una volta Gad Lerner ha detto in tv “Chavez non ci piace”. Giudizio legittimo, che però suggerisce una domanda: il voto è forse uno strumento che vale solo quando vince il candidato che ci piace?

A controllare, recentemente, le elezioni in Venezuela c’era pure l’ex presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter con la sua Fondazione per i diritti umani. Non ebbe dubbi sulla correttezza della consultazione in corso.

A parte della nostra sinistra non piacciono nemmeno le frequentazioni di Chavez. A Venezia, per esempio, veniva, dopo un giro in Iran, in Siria e in Libia e l’indomani sarebbe andato in Bielorussia e Russia. “Faccio il presidente di un paese che è il quarto produttore modiale di petrolio - ha spiegato a me e a Tariq Ali, sceneggiatore di South of the Border, nella cena della produzione - Che faccio, ignoro questa realtà o tengo vive, periodicamente, le relazioni con le nazioni produttrici di petrolio e riunite nell’OPEC, che non a caso ha ripreso vitalità da quando il segretario generale è stato un venezuelano? Insomma, devo fare gli interessi del mio paese o quelli delle multinazionali degli Stati Uniti?”.

Non mi azzardo a chiedere che i giornalisti, ignari di quello che succede nel mondo, si addentrino su questi argomenti quando incrociano Chavez, ma mi aspetterei più correttezza almeno quando si affrontano problemi come quello dell’informazione in Venezuela.

Quando, nell’aprile del 2002, con l’appoggio del governo Bush e della Spagna di Aznar, l’oligarchia locale e perfino parte della Chiesa tentò il colpo di stato contro il suo governo democraticamente eletto, nelle ore drammatiche di quell’accadimento, le TV, per il 95% in mano all’imprenditoria privata, ostile a Chavez, incitavano all’eversione o, nel migliore dei casi, con nessun rispetto per i cittadini, trasmettevano cartoni animati.

Poi, nel tempo, le licenze di molte emittenti televisive e radiofoniche sono scadute e, come sarebbe successo negli Stati Uniti e ovunque, a quelle che incitavano all’eversione e all’assassinio del presidente, il permesso non è stato rinnovato.
Più recentemente è stata fatta una nuova legge che favorisce cooperative, gruppi di base e sociali. Essendo cittadino di un paese come l’Italia, sono prevenuto su ogni legge sulla televisione. So però una cosa: il 90% delle emittenti è rimasto, in Venezuela, in mano all’opposizione.

Non penso possa essere una legge più liberticida della nostra.

Gianni Minà da il manifesto

martedì 8 settembre 2009

Facciamo… "la festa" all’Amianto
giornata di studio a San Daniele Po

"Cittadini contro l’amianto", con il patrocinio del Comune di San Daniele Po e la collaborazione del circolo Rive Gauche, del gruppo ecologico El Muroon e dell’associazione SU LA TESTA-L’altra Lombardia, organizza per il 13 settembre una giornata di convegni e dibattiti contro le megadiscariche di amianto in provincia di Cremona e ovunque, e per l’utilizzo di metodi alternativi all'interramento in discarica dei rifiuti contenenti amianto.

ECCO IL PROGRAMMA DELLA GIORNATA
CONVEGNO "Smaltimento amianto: discariche o inertizzazione?"
Presso sala G. Tortini
10.00 Apertura dei lavori:
dott. Davide Persico - sindaco di San Daniele Po;
d.ssa Mariella Megna - Cittadini contro l’amianto;
10.30 "Stato dell'arte sui metodi alternativi all'interramento in discarica dei rifiuti contenenti amianto" prof. Alessandro Gualtieri – Università di Modena e Reggio Emilia;
11.30 Coffee break;
11.45 Dibattito;
13.00 Pranzo presso il Parco comunale della Mela Verde
14.30 Incontro dei comitati contro le megadiscariche di amianto che si sono formati in varie parti d’Italia, dal Veneto alla Sicilia.
16.30 Apertura tavola rotonda sul tema dello smaltimento dell’amianto.
Coordina Giampaolo Dusi consigliere provinciale del PRC e Giorgio Riboldi, associazione SU LA TESTA–L’altra Lombardia. Sono invitati istituzioni locali e provinciali, partiti, associazioni, sindacati e movimenti.
18.00 Conclusione dei lavori

A seguire proiezione del video "Anno 2018: verrà la morte. L ’amianto in corpo. Tutti lo sapevano. Tranne loro: i lavoratori" di Giuliano Bugani

Musica con canti popolari di Marco Chiavistrelli
"L'UNICA FIBRA DI AMIANTO INNOCUA E' QUELLA CHE NOI NON RESPIRIAMO"

Cittadini contro l'amianto della provincia di Cremona
per informazioni scrivere a nodiscaricadiamianto@yahoo.it o telefonare a: 3355328761-3389875898
visita il blog: cittadinicontroamianto.blogspot.com