lunedì 29 novembre 2010

L'amianto che uccide
A Milano continua la lotta per le "White"

Scende la prima neve a Milano quando lasciamo la casa di Elena, zona Famagosta, a sud della città. Lasciamo lei, i suoi figli, il suo compagno, gatti e cane. I racconti no, non li lasciamo, così come le lotte, ce le porteremo dietro a lungo, facendone tesoro. Scende la prima neve in questo freddo e povero 2010, neve bianca, come il colore di quell'incubo in cui Elena Ferrarese e la sua famiglia hanno vissuto dal 1984. Le White, le chiamavano. Le case bianche, "anche se dentro non c'era nessun presidente...". Bianche di amianto, con tutti quei pannelli a ricoprirne la superficie. Solo il tetto, al contrario di molti altri casi, non conteneva la sostanza killer.

"Quando ci hanno detto che quella diventava la nostra casa, avrebbe dovuto trattarsi di una situazione provvisoria, una sorta di casa parcheggio, per tre o quattro anni", racconta Elena. "Invece siamo stati lì fino a pochi mesi fa. La mia è stata l'ultima famiglia a uscirne, a luglio di quest'anno. Negli ultimi tempi era diventato qualcosa di invivibile: perdite d'acqua, allagamenti, crolli, topi... topi enormi".

Era il 1984 quando il Comune di Milano assegna quegli appartamenti di edilizia popolare, in via Feltrinelli 16, zona Rogoredo, a famiglie provenienti da case di piazzale Dateo e corso Lodi, oppure da sfratti esecutivi in varie zone della città. Ma ben presto gli abitanti si rendono conto della pericolosità della loro "gabbia bianca" e di quei pannelli, che in tutto all'interno contengono 3 tonnellate di amianto. "La prima volta che abbiamo visto quella casa, bianchissima, non sapevamo cosa pensare. Ci sembrava un ospedale o, meglio, un manicomio. Oppure un carcere...". Strano credere che nel 1984, quando il pericolo dell'amianto era già noto da tempo - e solo due anni prima della chiusura dell'Eternit in Italia - si potesse costruire una casa ricoprendola interamente di questa sostanza assassina.

Gli inquilini se ne sono resi presto conto. Nel 1986 hanno fondato un comitato per seguire il problema amianto. Quindi sono arrivate le prime morti, tante, troppe. Come quella di Giammarco, che se n'è andato nel 2003, a soli 26 anni, a causa di tre tumori che gli hanno consumato la vita. Una vita che l'ha abbandonato proprio nel giorno del compleanno della sua mamma. E poi gli impegni per la bonifica, mai rispettati. Doveva partire anni fa, l'ultima promessa era per l'estate del 2009, ma in realtà la casa è ancora lì, svuotata definitivamente dalle famiglie nel luglio scorso. E ora, che quei pannelli ormai grigi sono vuoti e silenziosi da quattro mesi, ancora nessun lavoro è iniziato. Qui in visita erano venute pure il sindaco Moratti e il ministro Prestigiacomo, seguite da grandi scorte. Tante promesse, ma nulla è stato fatto.

Quelle 152 famiglie, con i loro morti e le loro malattie, non hanno mai smesso di battersi. Perché la vita là dentro non era semplice, anzi, pericolosa, per via di questo spettro che ogni giorno le accompagnava. Eppure si era creata un'unione, una corrispondenza di intenti, una combattività difficile da smontare, anche se oggi quelle famiglie sono state divise, riassegnate in case sparse per la città. "Qui, nel complesso dove viviamo noi, avrebbero potuto metterci in molti", ci fa notare Elena, "ci sono un sacco di appartamenti vuoti, che non vengono assegnati".

Oggi c'è ancora molto da fare. C'è la lotta da portare avanti, c'è la via processuale difficile da intraprendere, c'è l'idea di ritrovarsi con altri comitati, altre situazioni simili e altrettanto dolorose, c'è la voglia di non mollare, anche se le forze a volte iniziano a mancare. Ci sono le malattie da sconfiggere e la paura per i figli. Il grido una madre che piange di terrore ogni volta che il suo ragazzo sente anche solo un lieve mal di testa. Ma Elena e la sua famiglia ci hanno insegnato molto. Ci hanno insegnato che, anche se la vita pubblica, e soprattutto chi la amministra, a volte sembra prenderti in giro, si può comunque guardare avanti, senza arrendersi.

Ilaria Leccardi

mercoledì 27 ottobre 2010

Solvay, il 14 dicembre al via il processo

Il 14 dicembre partirà il processo contro la Solvay Solexis/Arkema per l'inquinamento del polo chimico di Spinetta Marengo, emerso nel 2008 con la dispersione nella falda acquifera di cromo esavalente.

Gli imputati sono 38. I capi d'accusa sono avvelenamento doloso e dolosa mancata bonifica. L'associazione Medicina Democratica, insieme a un centinaio di residenti della Fraschetta ed ex dipendenti della Solvay che in questi anni hanno riportato danni fisici e psicologici, si costituirà parte civile, per ottenere risarcimenti.

Secondo l'associazione, la Solvay sarebbe stata sempre a conoscenza della presenza nel sottosuolo di sostanze inquinanti. Chi vuole presentarsi come parte civile al processo, può contattare Medicina Democratica al numero 3470182679. La Solvay non ha ritenuto necessario commentare l'iniziativa di Medicina Democratica.

dal sito di RadioGold

martedì 26 ottobre 2010

Le intimidazioni non piegano la lotta

Riportiamo il comunicato stampa dell'Associazione Voci della Memoria, in seguito al vile attacco intimidatorio a Marta, lavoratrice precaria del Teatro di Alessandria, in questi giorni al centro di una drammatica storia di contaminazione di amianto.

L’Associazione Culturale Voci della Memoria di Casale Monferrato deve suo malgrado occuparsi di cronaca nera, è la prima volta che capita ma non ci esimiamo dal farlo.

Venerdì 22 ottobre siamo stati ospiti di un interessante e partecipato dibattito pubblico presso il Laboratorio Sociale di via Piave 65 ad Alessandria, dibattito condotto da una lavoratrice precaria del Teatro Comunale di Alessandria coinvolto nella triste vicenda delle altissime concentrazioni di polveri d’amianto riscontrate dall’ASL che ha portato alla chiusura del Teatro stesso in attesa di bonifica, Marta, e che fra gli ospiti ha visto oltre a noi molti lavoratori del Teatro Comunale Alessandrino, Romana Blasotti Pavesi Presidente dell’Associazione Famigliari Vittime Amianto di Casale Monferrato e Bruno Pesce del Comitato Vertenza Amianto.

Nella serata si sono poste le basi per la costituzione di un Comitato Alessandrino Contro l’Amianto e molte persone presenti in sala hanno deciso di intervenire il giorno successivo alla fiera Ambiente e Ambienti che si teneva presso la Cittadella in Alessandria al fine di volantinare e sensibilizzare una volta di più l’opinione
pubblica.

Da quanto ci è dato sapere, purtroppo non dagli organi di stampa, all’arrivo dei pacifici manifestati alcuni individui li avrebbero prima provocati e poi aggrediti, in particolare Marta (la lavoratrice precaria sopraccitata) è dovuta ricorrere alle cure del pronto soccorso in Alessandria dove le sono stati dati quattro giorni di prognosi dai medici.

L’Associazione Voci della Memoria, fiduciosa nel lavoro della magistratura inquirente che ha raccolto stamane la denuncia effettuata dall’aggredita, vuole testimoniare a Marta e a tutti i manifestanti ieri presenti la propria solidarietà a fronte della vigliacca aggressione subita perché rei di chiedere Verità e Giustizia sui fatti del Teatro Comunale di Alessandria e di manifestare il proprio dissenso sulla gestione della vicenda, l’Associazione intende altresì ribadire la propria vicinanza a tutti i cittadini (4000!) che hanno frequentato le sale quando già erano contaminate ed ai lavoratori per più giorni esposti, mettendosi a loro disposizione per ogni eventuale iniziativa nelle prossime settimane.

La violenza non potrà fermare mai la sete di Giustizia e la ricerca di Verità dei cittadini, tantomeno di quelli che hanno buona Memoria e ogni giorno cercano di condividerla con più persone possibili.

Associazione Voci della Memoria, Casale Monferrato

martedì 19 ottobre 2010

La tragedia dell’amianto, da Casale Monferrato al Teatro di Alessandria

Da molti anni le strade e le case in cui viviamo tutti i giorni nascondono una pericolosa minaccia celata tra le tegole dei tetti, negli impianti di aereazione, nei tubi dell'acqua: l'amianto, materiale estremamente utile e polivalente utilizzato per differenti scopi, nonostante l'altissimo tasso di nocività per l'uomo e per l'ambiente riconosciuto in Italia dagli anni sessanta. Nel nostro Paese il problema dell'amianto è sempre stato affrontato con estrema superficialità e questo ha permesso che ditte come l'Eternit di Casale Monferrato proseguissero nella lavorazione e nella messa in commercio dell'asbesto fino al 1986, senza curarsi delle vittime che questo materiale ha provocato e continua tutt'ora a provocare tra ex lavoratori dell'azienda e cittadini (fino ad ora i decessi accertati causati dall'inalazione di polveri di amianto sono circa 1400, di cui 900 tra i dipendenti e 500 tra i cittadini).

La drammaticità della situazione in cui si trovano gli abitanti di Casale è tra le più gravi ed eclatanti in Italia, con una media di circa 50 morti all'anno per mesotelioma pleurico e asbestosi, centinaia di famiglie distrutte e un tasso di polveri di amianto presenti nell'aria ancora oggi sopra le norme; in più le malattie provocate dall'asbesto si manifestano solo dopo diversi anni dall'esposizione e questo significa che saranno ancora molte le vittime causate da questo materiale e dagli imprenditori che hanno deciso di continuare a utilizzarlo per gonfiare le proprie tasche, senza preoccuparsi della vita di migliaia di persone.
Ancora oggi le polveri di asbesto fanno parte della quotidianità della vita dei casalesi; i comitati e le associazioni che da anni lottano contro questa terribile piaga hanno più volte denunciato il fatto che solo il 50% dell'asbesto presente in città è stato bonificato correttamente e che sono ancora molte le abitazioni con tetti o altre parti di strutture in amianto, anche perché tuttora non esiste alcuna legge che impone ai privati di provvedere alla bonifica negli edifici di loro proprietà.

Evidentemente anni di lotta e di processi portati avanti dai comitati casalesi non sono bastati a far sì che le istituzioni e le ditte incaricate di bonificare e smaltire l'amianto si preoccupassero di farlo correttamente e senza rischi per le persone e questo è palesemente dimostrato da ciò che sta accadendo nelle ultime settimane nel Teatro Comunale di Alessandria.

Chiunque abbia seguito la questione sui giornali locali si sarà sicuramente reso conto dell'alone di mistero e di non detti che la dirigenza del teatro (in particolare nella figura della Presidente Elvira Mancuso), il Comune della città e la ditta Switch 1988, esecutrice della bonifica, hanno creato intorno alla faccenda, come se la verità non riguardasse i lavoratori, i 4000 cittadini che hanno attraversato il teatro durante il periodo a rischio e la cittadinanza tutta.
Cerchiamo di mettere un po’ di ordine anche se risulta particolarmente complicato.
La ditta Switch 1988 di proprietà del signor Maurizio Dufour ha eseguito i lavori di bonifica del teatro che gli sono stati affidati dal Consiglio di Amministrazione della Fondazione Teatro Regionale Alessandrino di cui fanno parte i signori Elvira Mancuso, Roberto Livraghi, Lorenzo Repetto (già Sindaco del Comune di Castelletto D’Orba e attuale Presidente dell’AMAG) e Gianluca Veronesi. Non è stata effettuata nessuna gara di appalto pubblica per l’esecuzione dei lavori, ma è stata direttamente scelta la ditta Switch 1988 con sede nella città di Genova e una sede operativa nella città di Castelletto D’orba in provincia di Alessandria.

I lavori non sono stati eseguiti regolarmente se è vero che attualmente il teatro è chiuso per la presenza di polveri di amianto. Le prime analisi fatte da un laboratorio privato (di cui ad oggi viene tenuto nascosto il nome ma che è sulla bocca di centinaia di cittadini) escludevano la presenza dell’amianto.

Dopo l’intervento dell’ASL si è chiarita la questione e conseguentemente si è optato per la chiusura del teatro e per una nuova e necessaria operazione di bonifica.
Si apprende stasera da fonti giornalistiche che per i nuovi lavori, il consiglio di amministrazione della fondazione teatro regionale alessandrino di cui fanno parte i signori Elvira Mancuso, Roberto Livraghi, Lorenzo Repetto (già Sindaco del Comune di Castelletto D’Orba e attuale Presidente dell’AMAG) e Gianluca Veronesi abbia scelto la ditta Switch 1988 con sede operativa nella città di Castelletto D’Orba.
In pratica la ditta, che ha eseguito i primi lavori di bonifica causando lo spargimento dell’amianto per tutto il teatro, viene nuovamente incaricata di rieseguire i lavori di bonifica vista la sua grande competenza nel settore.

I cittadini e i lavoratori hanno il diritto di sapere cosa sta accadendo nel Teatro di Alessandria e di capire come questa situazione estremamente grave e pericolosa venga gestita e affrontata dalla Giunta Comunale e dall'amministrazione del TRA.
Cittadini e lavoratori hanno il diritto di avere risposte ad alcune banali domande:
1) Per quale ragione non è stata eseguita una gara d’appalto per l’esecuzione dei lavori?
2) Per quale ragione il consiglio di amministrazione del TRA ha scelto la Switch 1988 con sede operativa a Castelletto D’Orba per eseguire i lavori?
3) Chi fra i membri del consiglio di amministrazione di cui fanno parte i signori Elvira Mancuso, Roberto Livraghi, Lorenzo Repetto (già Sindaco del Comune di Castelletto D’Orba e attuale Presidente dell’AMAG) e Gianluca Veronesi ha proposto che fosse la Switch 1988 con sede operativa a Castelletto D’Orba ad eseguire i lavori?
4) Chi doveva vigilare sull’esecuzione dei lavori?
5) Quale laboratorio ha detto che non c’era la presenza di amianto all’interno del Teatro?
6) Per quale ragione si sceglie nuovamente la ditta Switch 1988 con sede operativa a Castelletto D’Orba per eseguire i nuovi lavori?
7) Per quale ragione non si fa una gara d’appalto?
E molte altre domande che si potrebbero aggiungere.

Per queste ragioni, Venerdì 22 ottobre alle ore 21 presso il Laboratorio Sociale di via Piave 65 si terrà un dibattito pubblico.
Ad aiutarci ad affrontare la questione amianto parteciperanno:
Bruno Pesce (Comitato vertenza amianto Casale Monferrato)
Romana Blasotti Pavesi (Associazione famigliari vittime amianto Casale Monferrato)
Luca (Associazione Voci della Memoria)
Cittadini e Lavoratori contro l’amianto

da Alessandria in Movimento

lunedì 27 settembre 2010

Casale Chiama Ciriè. IPCA: storia d'una strage
Venerdì 1° ottobre a Casale Monferrato

Raccontare per non dimenticare. E' questo l'impegno dell'associazione casalese Voci della memoria, nata da pochi mesi, ma già molto attiva sul territorio per dare parola alle ingiustizie, quelle del lavoro, quelle di un'Italia che dimentica troppo spesso le sue vittime, protagoniste di storie ormai passate sotto silenzio. Come le vittime della tragedia della fabbrica IPCA di Ciriè. Si racconterà la loro storia venerdì 1° ottobre, al circolo Pantagruel di Casale Monferrato (via Lanza 28), alle ore 21.

A ricordare, spiegare e raccontare saranno Daniele Stella, figlio di Albino operaio Ipca, Cinzia Franza, figlia di Benito operaio Ipca, assessore al Comune di Ciriè, e Paolo Randi ex-operaio Ipca, un sopravvissuto di quella fabbrica che ha ucciso praticamente tutti i suoi dipendenti.

Fondata nel 1922 dai fratelli Sereno e Alfredo Ghiotti nel territorio della frazione Borche, l'Industria Piemontese dei Colori di Anilina(IPCA) è passata alla storia per una tragica vicenda di inquinamento ambientale e per i moltissimi lavoratori deceduti per cancro alla vescica. Oltre 200 le vittime di una strage silenziosa che è potuta emergere solo grazie alla strenua lotta di due operai, Albino Stella e Benito Franza, entrambi malati di un tumore alla vescica che li porterà alla morte, ma forti abbastanza per presentare denuncia nel 1972 contro la fabbrica assassina.

Si racconterà la loro storia venerdì a Casale Monferrato, la storia della famiglie, del duro lavoro in fabbrica, delle troppe scomparse una dopo l'altra. In platea una presenza importante: i membri dell'Associazione Famigliari e Vittime Amianto, testimoni e protagonisti della lotta più grande di Casale Monferrato, quella contro la Eternit.

Per contatti e informazioni: info@vocidellamemoria.org, luca@vocidellamemoria.org, diego@vocidellamemoria.org, pamela@vocidellamemoria.org. Tel: 392.7449176

giovedì 23 settembre 2010

Addio a Pietro Mirabelli. Un uomo intero.
Il ricordo di Idra e Medicina Democratica

Una spinta naturale e irresistibile alla giustizia sociale, alla dignità della persona, ai diritti del lavoratore: questo e tanta calda umanità nel DNA di quest’uomo, Pietro Mirabelli, uomo intero, bandiera di un Sud che dopo 150 anni di cosiddetta unità d’Italia l’emigrazione ancora dissangua.

Il 29 marzo 2001 “Pietro il minatore”, delegato sindacale CGIL, volle scrivere al presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, dal cantiere TAV del Carlone, una lettera aperta.

“Le ho stretto la mano quando, un mese fa, è venuto a “festeggiare” nella galleria di Vaglia dell’Alta Velocità ferroviaria l’abbattimento di un diaframma. L’ho chiamata con rispetto, Le ho stretto la mano e Le ho sussurrato: “Ci salvi Lei, Presidente!”. Ricorda? Mi ha guardato, ha avuto un moto di sorpresa forse: ero proprio io, quel rappresentante sindacale delegato alla sicurezza che Le aveva scritto poche ore prima per chiedere di poterLe parlare in occasione della sua visita. Avrei voluto raccontarLe i problemi che assillano ancora oggi la vita, e umiliano la dignità, di centinaia e centinaia di lavoratori aggiogati al ciclo continuo e a condizioni ambientali abbrutenti, qui nella civilissima Toscana, nelle viscere dell’Appennino, in mezzo all’acqua e al fumo, a mille chilometri da casa. Ma la Prefettura di Firenze mi informò che quel giorno Lei avrebbe avuto troppo poco tempo. E che tuttavia avrei potuto scriverLe, certo che Ella mi avrebbe letto.
Ecco dunque ciò che un delegato sindacale eletto dai minatori della TAV Le chiede con un ultimo (creda: ultimo) lumicino di speranza. Dopo che tutte le altre strade si sono mostrate sbarrate. E’ un appello con le valigie in mano, signor Presidente. E’ un appello a intervenire. A chi le scrive è rimasta solo la scelta di lasciare il proprio lavoro, la propria rappresentanza, le proprie speranze. Il proprio stesso Paese”.


E così si chiudeva, quella lettera che non passò certo inosservata, dopo che anche il cardinale di Firenze mons. Silvano Piovanelli aveva perorato in una omelia pasquale nella cattedrale di Santa Maria del Fiore la causa dei moderni ultimi:

“Le scrivo, Presidente, con un piede dentro e uno fuori da quel cantiere di Vaglia, in provincia di Firenze, in cui lavoro da due anni e che anche Lei ha visitato in un giorno molto, molto particolare. Non credo che potrò resistere a lungo nel clima di ostilità che si è costruito intorno a questa lotta giusta e condivisa. Temo proprio di dover gettare la spugna. Di dovermene andare.
Oso aspettarmi da Lei, Presidente, una risposta a questo ultimo grido di speranza, che Le indirizzo prima di essere costretto a cercare lavoro e dignità all’estero. Dove spero di trovare quel rispetto, quella civiltà, che la nostra Repubblica non sta dimostrando di saper garantire né a chi ha voce per protestare né ai mille protagonisti muti della costruzione di questa opera “pubblica” insieme alla quale si stanno distruggendo in realtà le loro vite, la loro dignità, le loro speranze. Ma in fondo anche i diritti di tutti.
Tutte le volte che ripasserò dalla Toscana, signor Presidente, mi farà male al cuore pensare che cosa c’è dietro l’immagine di questa regione, fino a ieri così positiva e progressiva, per tutti noi nel nostro povero Sud! Cosa c’è dietro questa mitica “terra delle libertà e dei diritti”!
Se non interverrà Lei, chi si potrà dire che la sta vincendo questa battaglia, signor Presidente? Lo Stato o la Prepotenza? Il Diritto o la Sopraffazione?”.


Da allora, è cambiato qualcosa?
Molti segni indicano che no, che in certi luoghi le condizioni di lavoro sono diventate addirittura peggiori.

Qualche mese fa, dopo aver perso l’impiego nei cantieri TAV, dopo mesi di inutile ricerca di un lavoro, l’alfiere dei diritti e della sicurezza ha dovuto abbandonare un nuovo impiego nei cantieri della Variante di valico, troppo umilianti per lui. Pietro è davvero partito, ha davvero lasciato non solo la Calabria e il suo paese di minatori da generazioni, ma anche l’Italia. Ed è andato a morire in Svizzera. Solo.
Di noi, era per molti versi il migliore. Di sicuro il più esposto, il più coraggioso. Ma alla fine non siamo stati in grado di trattenerlo. Non abbiamo saputo difendere fino in fondo chi difendeva l’umanità del lavoro. Un uomo che dalle autorità pubbliche avrebbe meritato attenzione, plauso e tutela, è morto solo, in terra straniera. Insieme a quei massi di galleria è precipitata su di lui la storia di un Sud che non cessa di soffrire e di emigrare, la storia di un Nord che non cessa di coltivare un’idea distorta ed egoistica di progresso, una storia che non sembra voler cambiare marcia e direzione. Ma noi non dimentichiamo, e anzi continuano a darci forza, il suo sorriso fraterno, il suo acuto intuito, il suo impegno intelligente, generoso e determinato.
Medicina Democratica onlus
Associazione di volontariato Idra

da Altra Città

martedì 20 luglio 2010

Uralita condannata, sentenza storica in Spagna

La lotta giudiziaria all'amianto continua, non solo in Italia. Dalla Spagna arriva notizia di una sentenza storica, che condanna la Uralita (dal 1959 partecipata Etrnit) a risarcire gli abitanti dei paesi di Cerdanyola e Ripollet, comuni vicino a Barcellona, tra i quali aveva sede la fabbrica. Asbestosi, mesoteliomi, danno morale: ecco l'articolo dal quotidiano iberico El País, del 14 luglio 2010

Il tribunale di Madrid ha condannato Uralita a indennizzare con 3.918.594,64 euro un gruppo di abitanti di Cerdanyola e Ripollet (Barcellona) per i danni derivati dall'esposizione alla polvere di amianto generata dalla fabbrica che l'azienda aveva tra le due località. I danneggiati da parte loro richiedevano 5.414.139,54 euro.

La sentenza è storica per la Spagna. E' la prima volta infatti che coloro che chiedono i danni non sono lavoratori della fabbrica, ma 47 abitanti che vivevano nei pressi e che, secondo la sentenza, soffrono di malattie prodotte dal contatto avuto direttamente con l'amianto che utilizzava la Uralita per fabbricare i suoi materiali. Di questi 47 abitanti, sono stati 45 coloro che hanno ottenuto sentenza favorevole.

Il Tribunale di Primo Grado numero 46 di Madrid ha considerato come "è chiaro" che la causa delle malattie dei richiedenti, o dei loro familiari morti, è l'attività industriale portata avanti dal 1907 nella fabbrica di Uralita, situata tra Cerdanyola e Ripollet, municipi dove i malati hanno risieduto per decenni.

Secondo la sentenza, i mezzi di trasmissione che hanno causato le malattie vanno dalle emissioni della fabbrica in forma di polvere di amianto, alla manipolazione dei vestiti dei lavoratori da parte dei familiari nelle rispettive case, alla contaminazione derivata dalla degradazione dei depositi dei residui derivati dalla stessa attività industriale.

"La sentenza è storica. Siamo molto contenti. Non si tratta dei soldi, ma del riconoscimento: la Uralita ha contaminato tutto quello che avevamo attorno a noi", ha commentato Jesús Ferrare, membro della Asociación de Afectados por el Amianto, che ha assistito al processo di Madrid in rappresentazione dei malati. I compensi economici, ha detto, spero che servano almeno "per far fare ai malati, che non si possono curare, la vita più comoda possibile considerando i loro problemi". Sulle due persone per cui la sentenza non è stata favorevole questa settimana si riuniranno con i propri avvocati, per studiare se presentare ricorso. "Sappiamo che Uralita farà ricorso. Però almeno abbiamo aperto una via. Speriamo che tutti i malati si rendano conto, grazie alla sentenza, che, per quanto grande sia Uralita, si può vincere". Per ora Uralita non rilascia dichiarazioni. L'impresa sta analizzando la sentenza.

La lista degli indennizzi è lunga. Sono 45 i malati a cui è stata riconosciuto che l'infermità è legata all'amianto e il giudice ha accordato compensi che vanno da 43mila euro a 470mila euro. I malati soffrono per lo più di placche pleuriche, che possono provocare problemi respiratori che limitano le attività del malato. Alla maggioranza è stato riconosciuto il danno morale, che gli avvocati hanno chiesto, trattandosi di malattie incurabili e che peggiorano nel tempo. I compensi economici più alti vanno a chi soffre di lesioni polmonari già in fase avanzata, e che obbligano i malati, per esempio, a usare bombole di ossigeno per respirare, così come a chi soffre dell'incurabile mesotelioma.

Durante il processo, la Uralita ha riconosciuto che negli anni Settanta spargeva residui di fabbricazione e tubi di fibrocemento per le strade non ancora asfaltate. Con la pioggia, il materiale si compattava per le strade. I malati hanno spiegato di non aver mai creduto che fosse pericoloso e per questo, essendo bambini, giocavano con i resti del materiale tossico.

domenica 18 luglio 2010

Guariniello invitato in Brasile
Là come a Casale 30 anni fa

articolo di Silvana Mossano, da La Stampa del 17 luglio 2010

C’è chi dice che si esagera a continuare a parlare di amianto. Che troppo si è detto e che l’argomento non "tira" più. Costoro sono sicuramente dei fortunati perché non hanno mai visto da vicino un loro amico o un famigliare soffrire, prima ancora che per gli effetti della malattia, per il terrore gelido nel momento in cui viene comunicata la diagnosi. E sono altresì degli invidiabili ottimisti perché sono certi che non ne verranno mai sfiorati. Costoro, ad esempio, ritengono che, grazie alla legge del ‘92 che vieta l’amianto in Italia, il problema sia stato cancellato dalla faccia della Terra. Invece, i suoi tentacoli mortali sono ancora in agguato e continueranno a tormentare cittadini ignari fino a quando dei ricercatori capaci, con il sostegno di adeguate risorse finanziarie, non troveranno una cura per "sfangarla".

Costoro forse si illudono che l’amianto sia confinato a Casale? In centinaia di città per 80 anni sono state vendute migliaia di tonnellate di tetti e tubi di "eternit" che, a dispetto del nome, non sono eterni, invecchiando si sfaldano. Costoro non vogliono credere che, come è scientificamente provato, il mesotelioma "ti piglia" anche se hai respirato una sola fibra e non serve prolungata esposizione (come è, invece, per l’asbestosi). Costoro pensano che, smettendo di parlarne, il problema si risolva da sé. Ma non è così.

Lo dimostra un filmato, girato un paio di settimane fa dal documentarista Niccolò Bruna, in Brasile, dove l’estrazione e la lavorazione di amianto è in vigore come in altri luoghi del mondo. Là, ora, prevalgono le identiche argomentazioni che, qui, 30-40 anni fa, erano il "vangelo" delle lobby amiantifere. Gli "ingegneri dell’immagine", quelli che sanno come far passare messaggi rassicuranti (consigliando anche di togliere i manifesti da morto fuori dallo stabilimento… meglio non vedere), continuano a fare con diligenza il loro mestiere celando i pericoli ed evidenziando i benefici. Così, non i produttori, ma i loro operai, i medici, i sindacalisti intervistati da Niccolò Bruna dichiarano l’orgoglio di lavorare per l’Eternit, di vivere nella città di Minaçu, nata nel ‘67 nel bacino di una cava di amianto a cielo aperto, 33 mila abitanti come Casale, di ricavare dalla fabbrica benessere e progresso tanto da desiderare, come massima aspirazione, che "mio figlio, da grande, scelga di lavorare qui". Sono tranquilli perché sono stati persuasi che "la lavorazione dell’amianto, adesso, è sicura; il pericolo c’era sì, ma in passato".

Uguale frase veniva dichiarata pubblicamente dai dirigenti Eternit 30 anni fa: i giornali lo documentano. I manuali, a uso interno dei vertici, e i verbali con le strategie di immagine predisposte dai professionisti di public relations, e che il pm Guariniello di Torino ha sequestrato, lo confermano. A instillare il dubbio nelle ferree convinzioni brasiliane proverà una delegazione di casalesi, tra cui Bruno Pesce e Nicola Pondrano, in un viaggio laggiù a fine agosto. E la Federazione nazionale dei procuratori della Repubblica del Brasile che si occupano di cause di lavoro ha invitato espressamente anche il pm Guariniello.

Non se n’è parlato troppo di amianto. Non abbastanza. È lodevolissimo, quindi, che una giovane casalese, Eleonora Cortello, nella tesi con cui si è laureata nei giorni scorsi in Giurisprudenza ad Alessandria, dal titolo "La sorveglianza sanitaria sul luogo di lavoro", abbia voluto dedicare un capitolo al "Caso Eternit. Un esempio emblematico". E si continuerà a parlarne, al processo di Torino. Lunedì, all’ultima udienza prima della pausa estiva, i testimoni chiamati dall’avvocato di parte civile Sergio Bonetto sono: Italo Busto, fratello di Piercarlo, morto a 33 anni di mesotelioma (atleta, correva alla pista attigua all’Eternit), Vittorio Giordano, di Legambiente che, insieme a Luisa Minazzi e altri ambientalisti, ha condotto strenue battaglie, Alberto Deambrogio, che interviene per conto dell’Associazione italiana esposti amianto.

martedì 6 luglio 2010

Processo Eternit: in aula Thomas Schmidheiny

Il settore amianto è sempre stato appannaggio di Stephan Schmidheiny. Lo ha confermato il fratello Thomas, sentito oggi al processo Eternit di Torino come persona informata sui fatti. La suddivisione dei compiti è stata un fatto naturale, perché i settori sono sempre stati distinti, ha spiegato, da circa un secolo.

Thomas, che si è sempre occupato di cemento, ha detto che alla fine degli anni Sessanta primi anni Settanta, i due fratelli iniziarono un periodo di formazione nella aziende di famiglia, lui in Perù nel settore del cemento, il fratello in Brasile e in Africa per il cemento-amianto. E da metà degli Anni Settanta entrambi assunsero responsabilità di vertice ognuno nel proprio campo, inizialmente insieme al padre Max poi in modo via via sempre più autonomo fino a quando – nel 1984 – il papà si ritira dal lavoro.

Altri importanti elementi sono emersi dalla deposizione di Leodegar Mittelholzer, ex manager Eternit che è entrato nel gruppo nel 1979 e ha gestito la fase conclusiva, quella della amministrazione controllata prima e del fallimento poi. Paradossalmente è proprio nel 1984, quando l'attività di Eternit è ormai residuale e si sta concludendo, che Eternit redige "Il manuale di sicurezza". Viene spontaneo chiedersi: perché si è atteso quando ormai Eternit era a un passo dal fallimento? Forse perché a quel punto era come un libro dei sogni?

Gli avvocati della difesa hanno poi sottolineato che negli ultimi dieci anni vi furono 10-15 miliardi di lire di investimenti sull'ambiente di lavoro, ma poi - a una domanda precisa della Procura - Mittelholzer ha risposto confermando quanto detto in un processo già concluso a Siracusa e cioè che gli investimenti riguardavano la sostituzione di filtri rotti. Quindici miliardi di lire – 7,5 milioni di euro – in filtri rotti? Ridicolo...

Dalla deposizione di Mittelholzer è comunque emerso che il "Numero 1", "il proprietario" della holding amianto, del settore asbesto, insomma, era proprio Stephan Schmidheiny. Altro fatto estremamente importante: nel 1979 quando fu assunto gli fu detto chiaramente che c'era un "rischio amianto" e che consisteva in tre patologie: asbestosi, tumore al polmone e mesotelioma. Informazioni, ha precisato, che erano a disposizione di tutti i manager di Eternit. E, inoltre, che fin dal 1976 Stephan Schmidheiny si mostrava consapevole del rischio e che mirava a sostituire l'amianto con fibre alternative non pericolose. Sostituzione che non avvenne però mai - sostanzialmente - per una questioni di costi e perché Eternit non avrebbe retto il confronto con la concorrenza.

Ultimo teste Luigi Antoniani, classe 1928, con l'asbestosi dal 1975, a lungo nel consiglio di fabbrica, che tra tante esperienze ha ricordato la visita di un azionista belga con il quale gli operai chiedevano un incontro da tempo. Li ricevette nel suo ufficio durante una riunione e li maltrattò, prima dicendo di attendere e poi cacciandoli senza dar loro modo di parlare. Poi andò ai magazzini e vendendo alcune lavoratrici in attesa di iniziare il proprio turno, probabilmente ritenendole fannullone perché in quel momento erano sedute le fece licenziare in tronco.

articolo di Massimiliano Francia, dal sito de Il Monferrato del 5 luglio 2010

sabato 3 luglio 2010

Mantova, morti del petrolchimico
Dodici manager a processo

Il giudice per le udienze preliminari di Mantova ha prosciolto solo tre dirigenti. La prima udienza è stata fissata per l11 gennaio 2011

Il giudice per le udienze preliminari di Mantova ha rinviato a giudizio 12 dei 15 imputati per le morti all'ex Montedison di Mantova. Prosciolti soltanto tre dirigenti, Gianfranco Antonioli, Giovanni Puerari e Alvise Conciato, che all'epoca dei fatti erano responsabili di società non collegate con la struttura produttiva di Mantova. La prima udienza del processo, che dovrà far chiarezza sulle morti di 71 operai avvenute nel petrolchimico tra gli anni '80 e '90 per l'esposizione a sostanze cancerogene come benzene e amianto, è stata fissata per l'11 gennaio 2011.

I dodici imputati dovranno rispondere di omicidio colposo e di omissione volontaria di cautele per prevenire infortuni sul lavoro. Compariranno in tribunale: Giorgio Porta, Amleto Cirocco, Gaetano Fabbri, Gianni Paglia, Francesco Ziglioli, Sergio Schena, Giorgio Mazzanti, Pier Giorgio Gatti, Paolo Morrione, Riccardo Rotti, Andrea Mattiussi e Gianluigi Diaz.

L'udienza preliminare davanti al Gup Dario De Luca ha coinvolto quindici tra manager e direttori di stabilimento del Petrolchimico di Mantova. L'accusa, formulata dai pm Giulio Tamburini e Marco Martani, dopo un'indagine durata nove anni, è di omicidio colposo, lesioni gravissime colpose e omissione dolosa di cautele sugli infortuni. Sarebbero i presunti responsabili della morte per tumore, dovuta all'esposizione ad amianto e benzene, di decine di lavoratori, tra il 1970 e il 1989 nello stabilimento di Mantova.

Si sono costituiti parte civile il Comune di Mantova, la Regione Lombardia, i sindacati e alcune organizzazioni ambientaliste, oltre ai famigliari delle vittime, che durante le udienze sono rimasti collegati in video conferenza con la Corte di Assise dall'aula magna dell'università.

UN'INCHIESTA DURATA NOVE ANNI
All'inizio sono state esaminate oltre 200 cartelle cliniche di operai mantovani morti per varie forme tumorali. Poi la Procura, sulla scorta delle consulenze mediche, ha ristretto l'attenzione su 71 casi, sui quali c'era un nesso tra l'esposizione ai veleni e la malattia. Operai uccisi da benzene, stirene, benzene e amianto, i veleni lavorati dallo stabilimento Montedison. Gli imputati del processo, vertici delle società che si sono alternate alla guida dello stabilimento del Frassino tra gli anni '70 e '80, dovranno rispondere della morte di 71 persone.

I lavoratori del petrolchimico sono morti di mesotelioma, tumore tipico da esposizione all'amianto, di leucemie, cancro al polmone e al pancreas, associabili invece a benzene e stirene. In otto anni di lavoro, sentiti decine di testimoni e vagliate migliaia di documenti, la Procura ha ricostruito minuziosamente la storia aziendale di ognuno dei lavoratori, gli spostamenti nei reparti e le lavorazioni con cui sono entrati a contatto.

Di qui il fiume di accuse ai responsabili di stabilimento e ai presidenti e amministratori delle società che lo dirigevano. Tutti responsabili, secondo i magistrati, di conoscere la pericolosità delle lavorazioni e di non aver fatto interventi per evitare le tragiche conseguenze sui lavoratori. Il giudice delle udienze preliminari ha ritenuto fondate le accuse ha deciso di rinviare a giudizio dodici dei quindici imputati. Dovranno rispondere di omicidio colposo e omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro.

dal sito de La Gazzetta di Mantova

mercoledì 16 giugno 2010

Eternit. A Bagnoli polvere e punizioni
A Verbania si ricomincia con il "Montefibre bis"

"Finestre non ce n'erano. Solo una porta di ingresso e una di uscita. Niente ricambio d'aria. E ogni volta che scaricavamo l'amianto veniva su un polverone irrespirabile. All'inizio ci davano una mascherina, che però non serviva a molto. Allora ci coprivamo la bocca e il naso con un fazzoletto, per ripararci dall'amianto".

Lunedì 14 giugno, quindicesima udienza del maxiprocesso Eternit. A parlare sono prima il curatore fallimentare della Eternit, Carlo Castelli, e poi due operai dello stabilimento di Bagnoli (Napoli), il più grande come estensione delle quattro fabbriche Eternit sul territorio italiano, preceduti da Elena Fizzotti, consulente del pm, che ha illustrato lo sviluppo negli anni dell'impianto campano.

I ricordi più duri sono stati quelli emersi dai racconti di Luigi Falco e Bruno Carlevalis, ex operai di Bagnoli, entrambi oggi affetti di asbestosi. Tutti e due hanno lavorato per anni alla sfilacciatrice, la macchina attraverso cui l'amianto blu veniva scompattato e, quindi, mandato alle tramogge per il peso. La fabbrica era grande e, come ricorda Falco, "se avevi qualche discussione con il caposquadra ti mandavano 15 giorni all'amianto, il reparto peggiore. Una specie di punizione". Alla sfilacciatrice Falco ha lavorato 3 o 4 anni, mentre Carlevalis ci ha passato una vita (dal 1969 al 1980), anche quando ha scoperto di essere malato. "All'inizio mi avevano detto che era bronchite, poi ho scoperto che era asbestosi".

In fabbrica si sapeva che di amianto si moriva. "Le voci erano che un operaio era morto 'con l'affanno', o per la bronchite", ha spiegato ancora Falco, "poi c'erano casi di malattie più gravi, mesotelioma, tumore alla vescica. Fino da quando sono entrato in fabbrica, negli anni '60, c'era chi diceva che le malattie erano collegate all'amianto, e chi no. Di certo la Eternit non ci ha mai dato informazioni su questo e i nostri sindacati... così così. L'idea era che comunque qualcuno doveva pur farlo quel tipo di rischio...". E, infondo, lui era stato assunto così. Il padre, operaio Eternit, si era ammalato. E quando il giovane Luigi lo accompagnò a prendere la liquidazione il capo del personale gli disse: "Mi dispiace, ma non fate 'confusione', appena c'è occasione ti assumiamo e ti diamo un posto di lavoro". Un modo dire, "non fate denuncia".

E così come a Casale Monferrato, anche a Bagnoli a respirare l'amianto non sono stati solo gli operai, ma anche le mogli che pulivano le tute di lavoro e gli abitanti della zona limitrofa. C'erano addirittura una serie di casette attaccate alla fabbrica dove vivevano alcuni dipendenti, ad esempio elettricisti che in caso di necessità sarebbero potuti intervenire rapidamente. Due piani con un po' di giardino davanti e dietro, dove i bambini giocavano senza alcuna precauzione. E dove la polvere arrivava. Dello stabilimento di Bagnoli si parlerà ancora nella prossima udienza, in cui sono stati a chiamati a testimoniare l'ex governatore della Regione Campania, Antonio Bassolino, e il sindaco di Napoli, Rosa Russo Iervolino. Ci saranno, inoltre, Vasco Errani, presidente della Regione Emilia Romagna, e il sindaco di Rubiera (Reggio Emilia).

E mentre il processo Eternit va avanti, novità arrivano dal fronte Montefibre, lo stabilimento chimico di Verbania dove si sono verificate diverse morti a causa dell'amianto. Se il 10 giugno la Cassazione aveva rinviato parte del fascicolo del processo "Montefibre uno" alla Corte di Apello di Torino (che in secondo grado aveva condannato gli imputati a pene tra gli 11 e i 20 mesi di reclusione), a Verbania si è aperto ieri il processo "Montefibre bis". Un procedimento per la morte di 17 ex dipendenti e la malattia professionale di altri 9, in cui sono imputati diversi ex dirigenti ed ex amministratori dell'azienda. L'udienza è stata caratterizzata da questioni preliminari, tra cui la richiesta di costituzione parte civile dei legali della Regione e dell'Aiea (Associazione italiana esposti amianto), esclusi in precedenza dal gup, e si aggiornerà il 16 luglio.

di Ilaria Leccardi

lunedì 7 giugno 2010

L'arabo è di casa

Maha Yakoub è seduta su un divano oppure in piedi, tra le mura di casa. Parla ai suoi studenti, come se fosse in classe. Se li immagina di fronte, penna in mano a prendere appunti, mentre lei spiega come in arabo si pronunciano e scrivono le lettere dell’alfabeto, poi i numeri, i giorni della settimana, i saluti. Eppure di fronte ha solo la webcam di un computer e un microfono. Strumenti che le permettono di arrivare virtualmente nelle case di migliaia di studenti. Lei che di anni non ne ha ancora 27 e da un po’ vive a Livorno con Luca, il marito italiano. In mano ha una laurea in Lingue e letterature straniere (inglese, arabo ed ebraico), presa a metà tra il suo Paese di origine (“che preferisco non dire qual è”) e l’università di Pisa. È bastato poco. Una buona inventiva, la capacità di spiegare con chiarezza le basi di una lingua straniera, la dimestichezza dell’utilizzo della rete e il viso accattivante di una ragazza dolce e dai modi familiari.

E così, nel novembre del 2008, Maha ha aperto un canale su Youtube, “Learn arabic with Maha”. Ha iniziato con lezioni dall’inglese all’arabo, con uno stile informale e preciso che ha colto nel segno: i contatti sono presto lievitati. “Ho scoperto -racconta- che sono tante le persone interessate a studiare l’arabo, specialmente nei Paesi anglosassoni. Anche musulmani che non lo conoscono. E ho il piacere di superare i soliti pregiudizi nei confronti degli arabi”. Poi, un giorno, un’altra svolta nella vita di Maha: “Diversi utenti italiani mi chiedevano lezioni nella loro lingua”. È la nuova sfida. Il 30 novembre 2009 ha pubblicato la prima lezione in italiano, sull’alfabeto arabo. Pochi giorni dopo ha confezionato il video che sarebbe diventato quello dei record, “Merry Christmas in arabic”, oltre 750mila contatti. Per realizzarlo, è bastata una piccola telecamera, una lavagna, luce favorevole e un buon programma di montaggio. “La maggior parte delle clip le faccio da sola, a volte mi riprende Luca”.

Negli ultimi mesi i suoi studenti online sono arrivati a quota 7.400 iscritti al canale: “Ho aperto un profilo Facebook, per avere un feedback con loro, facendomi conoscere anche nella vita privata. Mi mandano i compiti, scambiamo foto e musica”. Ma quello di Maha è davvero diventato un lavoro. Tanto che, oltre ai canali come Youtube e Facebook è possibile trovarla sulla piattaforma “eduFire”, social network di e-learning. Diffuso soprattutto negli States, mette in contatto studenti e tutor, permettendo lezioni private a costi modici. Come risulta dalla sua pagina personale nel network, le tariffe di Maha sono di 15 dollari per 30 minuti di lezione di arabo, 25 per un’ora di arabo ed ebraico. “È uno strumento usato per lo più da adulti che vogliono imparare nuove lingue senza spostarsi da casa”, spiega. E sono tante ormai e piattaforme che propongono questo tipo di scambio linguistico e culturale, come “Livemocha”, “Myngle” oppure “Guavatalk”, dedicato all’insegnamento del cinese. “Sono canali attraverso cui è facile trovare un madre lingua, vedere il suo volto, i commenti di altri studenti. In America ci sono tanti bambini che ormai studiano da casa, via internet, con piattaforme organizzate direttamente dalle scuole”.


Maha è contenta del suo progetto, lavora, si aggiorna. Sogna di imparare dieci lingue. E magari magari condividere saperi sul web. “Credo che l’e-learning e internet in generale siano uno strumento ideale per lo scambio culturale-linguistico. Sono il futuro. E la cosa più bella è che puoi contemporaneamente insegnare a Geoffrey, un bambino americano di 9 anni, e a Corrado, un signore italiano di 70 anni”.

di Ilaria Leccardi e Mauro Ravarino, da Terre di Mezzo di giugno

sabato 5 giugno 2010

Casalbagliano: il castello perduto

È lì, alle porte della città, un rudere inascoltato. Il grande parco qualche anno fa è stato ripulito e recintato, per impedire l’accesso. Le sue mura si consumano di anno in anno e nessuno sa quale potrà essere il futuro. Una sola certezza: se riuscirà a sopravvivere di certo non sarà semplice.

Il Castello di Casalbagliano, frazione a sud di Alessandria, ha una lunga storia che qualche cittadino ancora porta nella memoria. “Mia suocera è nata qui, proprio nella casa di fianco al Castello”, spiega un abitante del paese. “Ora ha più di novant’anni, ma quando era giovane ha visto cosa c’era all’interno di questa residenza. Statue, dipinti. E poi si facevano feste e balli. Addirittura si dice che ci fosse un tunnel che dal Castello portava fino al paese successivo, Villa del Foro. Oggi invece non c’è più nulla. È stato tutto lasciato andare...”.

La struttura è imponente, la si può ammirare percorrendo la strada che dal quartiere Cristo porta fuori città. Impossibile non vederlo, non stupirsi del suo stato di abbandono. L’elemento più evidente, e anche il più antico, è l’alta torre duecentesca, sulla quale è cresciuto un albero, e attorno a cui nei secoli successivi sono state costruite le mura merlate. “Proprio per quel caratteristico albero c’è anche stato chi, come l’architetto alessandrino Mario Mantelli, ha definito quella di Casalbagliano “torre chiomata”, come la Torre Guinigi di Lucca”. Il professor Egidio Lapenta, docente di lettere all’Istituto Saluzzo Plana di Alessandria, è quasi commosso nel ricordo. È una delle persone che alla fine degli anni Novanta cercarono di riportare l’attenzione della città sul monumento. “Il mio interesse è legato a ricordi di adolescenza. Nella mia classe studiava una ragazza che abitava a Casalbagliano e già allora il Castello non era in buone condizioni, ma adesso è tutto peggiorato”.

Abitata fino all’inizio dell’Ottocento dai Bagliani, la dimora passa poi agli Inviziati, quindi ai Petitti di Roreto e infine ai Paravicini, che vi risiedono fino agli inizi del Novecento. Divenuta ospedale militare durante la prima guerra mondiale, negli anni Trenta la villa è sede del comando fascista. All’inizio degli anni Settanta è acquistata dal Comune di Alessandria, per un restauro che non avverrà mai.

Negli anni ci sono stati lenti logoramenti e crolli, come quello del 1°
febbraio 1998 alle 18: un boato e la caduta di una parte della facciata. “Proprio pochi giorni dopo, il 14 febbraio, nacque il Comitato Amici del Castello, che fondai assieme a Don Nicola, il parroco del paese, a uno dei discenti della famiglia Bagliani e al geometra Giancarlo Guazzotti, oggi scomparso, che diede anima e corpo per questa vicenda”, ricorda ancora Lapenta. “Il Comitato di per sé non ha mai funzionato veramente, ma grazie al supporto tecnico dell’associazione Città Nuova ha
attuato iniziative di sensibilizzazione: una cartolina con l’immagine del Castello, assemblee con la cittadinanza e una mostra inaugurata dall’allora assessore alla Cultura. In quegli anni eravamo convinti di riuscire a fare qualcosa per il recupero
di questo bene. La Regione si disse disponibile a offrire un sostegno a condizione che ci fosse ad Alessandria la volontà politica di portare avanti il progetto. Volontà che evidentemente non esisteva”.

Antonio Tortorici, oggi come nel 1998 presidente della Circoscrizione Sud di Alessandria, ha seguito a lungo la vicenda. “Ci siamo confrontati più volte per cercare di sensibilizzare la cittadinanza. Lo stesso Guazzotti aveva fatto una ricerca che nel 2001 sfociò in un opuscolo sul Castello e nella proposta di un intervento che prevedeva la realizzazione di un osservatorio astronomico sulla torre e avrebbe dovuto attingere ai fondi europei”. Ma nulla se ne fece. Anzi, tra il 2002 e il 2003 la Soprintendenza ai Beni Culturali dichiarò “rudere” il complesso, rendendolo di fatto irrecuperabile, e considerando solo la torre bene di interesse storico-artistico.

“È incredibile come Alessandria si dimentichi delle sue bellezze”, commenta ancora Lapenta. “Si narra che nel parco del castello crescessero oltre 400 tipi di rose. E al suo interno erano conservate opere di artisti locali come il pittore Francesco Mensi e lo scultore Carlo Caniggia. Tutte scomparse, saccheggiate”. Eppure è notevole il valore storico della struttura. Della torre innanzitutto che, come quella di Masio o quella di Teodolinda a Marengo, fa parte del complesso di torri di avvistamento costruite nel XIII secolo; e che fu al centro di episodi storici.

“L’unico risultato che finora abbiamo ottenuto è stata l’illuminazione del Castello”, continua Tortorici. “In Comune giace da tempo il progetto per il recupero del piazzale antistante, ma non ci sono i fondi. Il primo passo dovrebbe proprio essere l’intervento sul piazzale, quindi si potrebbe pensare al recupero almeno della torre, cercando di coinvolgere vari enti pubblici. Personalmente sono sempre stato molto legato a questa testimonianza della storia alessandrina e non voglio che scompaia”.

Proprio al presidente della Circoscrizione Sud la sezione alessandrina di Italia Nostra fa appello per provare a riaprire il caso Casalbagliano. “Siamo sicuramente disponibili a partecipare a un incontro”, spiega Enzio Notti, responsabile di Italia Nostra Alessandria, che era assessore negli anni in cui il Castello fu acquisito dal Comune. “Pensiamo che si possa recuperare per attività culturali sul territorio. È una risorsa per il quartiere Cristo e tutta la zona sud di Alessandria”.

Difficilmente invece si farà coinvolgere in qualche nuova iniziativa il professor Lapenta, che ammette di aver distrutto gran parte del materiale raccolto negli anni. “Spero che si riesca a fare qualcosa, ma è già tanto se si riuscirà a salvare la torre. E io preferisco non essere più coinvolto personalmente. Purtroppo Alessandria non è una città che meriti qualcosa. Credo che l’ostacolo più grande che il recupero del Castello ha trovato sia stata l’insensibilità dei cittadini. In politici e istituzioni a volte si riscontrano interesse e attenzione. Ma la cittadinanza spesso non si accorge dei patrimoni della la nostra città, oppure non è interessata a tenerli in vita”.

di Ilaria Leccardi da Piemonte Mese di giugno

venerdì 4 giugno 2010

Angela Lano racconta la vergogna di Israele

La nostra Angela è tornata! Allo sbarco di Malpensa ha dovuto subire l'assalto dei numerosissimi giornalisti. Stanchezza, rabbia, dolore, angoscia non hanno bloccato la grande giornalista, bensì l'hanno rafforzata.

Il momento più terribile è stato l'assalto: "Erano decine e decine di mostri che, dai canotti, salivano a frotte sulla nave. Sparavano, urlavano, si sono lanciati contro tutti noi. Abbiamo cercato di proteggere il capitano, ma i loro taser ci hanno bloccato. Avevano i volti coperti, le teste protette dai caschi e con questi colpivano le fronti di chi si avvicinava loro. A bordo abbiamo avuto molti feriti. I cameraman sono stati aggrediti durante le riprese. In quel momento hanno sequestrato tutte le telecamere e le macchine fotografiche. Vedevano sulla Marmara un immenso fumo, sentivamo le urla e quegli spari terrificanti, incessanti, mentre gli elicotteri squarciavano i cieli" Angela ha voglia di parlare, si concede a tutti. Ciò che prova è il bisogno di denunciare, lei è semplicemente giornalista dentro.
Non ha padroni, né veline passate sotto banco. Prosegue: "dopo questo inferno ci hanno lasciato sotto il sole per 8 ore, tutti prigionieri sul ponte, per portarci ad Ashdod. Uno per uno ci hanno fatto sbarcare trattandoci come terroristi, come i peggiori delinquenti. Accompagnati in una tenda hanno ordinato di spogliarci, poi ci hanno rubato tutto: carte di credito, denaro, cellulari, il mio tesserino di giornalista, la patente. Subito dopo avremmo dovuto firmare una dichiarazione con la quale ci assumevamo la colpa d'aver infranto le loro leggi. A quel punto, tutti noi abbiamo loro urlato con quanto fiato avevamo che loro erano i delinquenti, che loro ci avevano attaccato in acque internazionali, che loro erano bugiardi. La risposta è stata che ci avrebbero imprigionato. Che lo facessero dunque!".

Non prende fiato Angela, a ogni domanda risponde con precisione, non un attimo di esitazione: "Ci hanno trasportato nel carcere israeliano di Beer Sheva, in pieno deserto Negev, luogo ben noto ai prigionieri politici. Alle nostre richieste di telefonare a casa o all'ambasciata, ci hanno risposto che le loro linee erano fuori uso. C'era un solo telefono, ma dovevamo pagare (!) Crudeltà efferata. E' stato questo il dolore più profondo: le nostre famiglie non sapevano se eravamo vivi morti... Per il resto solo rabbia, tanta. Non sono mai stata picchiata, ma i miei connazionali maschi si. Non ero sola in cella, come qualcuno ha scritto, io, cristiana, ero insieme a due donne splendide, una musulmana e un'ebrea americana, unite da un solo obiettivo: il campo di concentramento di Gaza deve finire. Dalle donne, passeggere sulla Marmara, ho potuto capire la disumana mattanza avvenuta sulla nave turca. Hanno visto uomini con buchi in fronte e trivellati di colpi, hanno riferito -e vi prego di indagare su questo- uomini ammanettati gettati in mare. La violenza israeliana non ha risparmiato donne, anziani e bambini. Non c'erano armi a bordo! Conosco chi ha caricato quella nave (l'uomo era accanto a lei ndr). C'erano circa 100 case prefabbricate, depuratori d'acqua, mattoni, utensili da carpenteria, tende per gli sfollati." Ad Angela preme sottolineare: "di quei mostri incappucciati, ho poi avuto modo di vedere i loro volti. Erano tutti poco più che ventenni, è sconvolgente. Mi sono rivolta a loro chiedendo perché questa disumanità, perché questo calpestare i più naturali diritti umani? Sembrano tutti ipnotizzati, hanno subito un pesante lavaggio del cervello, solo così si può spiegare. Perché non si ribellano, come invece tantissimi loro coetanei ebrei, persone straordinarie che sfidano il carcere per protestare fermamente contro quel governo?"

A chi le chiede come ha reagito sentendo che l'Italia ha votato contro l'inchiesta internazionale, Angela stringe i denti. E' un gesto sconsiderato, è umiliazione di fronte al mondo intero che si sta attivando, questa volta seriamente, contro gli atti criminali perpetrati da Israele, in spregio a tutte le convenzioni, le risoluzioni, i patti, la carta dei diritti umani planetari. Il mondo ora non è più disposto a soprassedere su questa vergogna. "Sono sconfortata -prosegue- per non dire peggio". Ringrazia inoltre la cortesia della Turchia che si è prodigata straordinariamente per mettere a loro disposizione tre aerei dotati di tutti i confort. Sorride pensando che è stata la prima volta che viaggiava in prima classe, servita e riverita come una regina. A Tel Aviv hanno dovuto attendere 12 ore a bordo, per subire l'ultima vessazione israeliana che imbarcava i prigionieri uno a uno con tempi lunghissimi. Per dieci anni il poliziotto le ha detto che non potrà più mettere piede in Israele. Gli ha riso in faccia. Presto tornerà in Palestina, ma passando da qualunque altra parte. Quella terra, ora, le può ricordare solo il male.

Ci saluta sorridente, sventolando la sua sportina del supermercato: l'unica borsetta che per ora possiede. Invita caldamente a non considerarla eroe che non le calza proprio. Ha solo fatto il suo mestiere e oggi, più che mai, è convinta d'averlo fatto nell'unico modo possibile. Concordiamo.

di Nadia Redoglia da Nuovasocietà

martedì 1 giugno 2010

Spedizione Freedom Flotilla: è massacro

E' ormai chiaro a tutto il mondo che Israele può agire impunemente, ignorando la carta universale dei diritti umani e qualunque trattato internazionale.

E' la nona volta che il movimento Free Gaza cerca di portare aiuti umanitari, via mare. La prima spedizione ad agosto 2008. Quella in corso, "Freedom Flotilla" per numeri e contenuti (partecipano 40 paesi), è la più massiccia. In un primo tempo Israele promise che dopo le perquisizioni del caso, avrebbe permesso tramite i corridoi da lei predisposti, l'accesso alla striscia per consegnare gli aiuti. Le sei navi, 700 partecipanti, hanno imbarcato almeno 10mila tonnellate tra cibo, medicinali, utensili di prima necessità, cemento, ma anche sedie a rotelle. Per il cemento, riferiva Israele, sarebbe stato permesso solo se subordinato a specifica utilità.

Invece nulla di tutto questo. Alla stregua del peggior atto di pirateria, la marina israeliana, stanotte verso le 4, ha attaccato. A bordo della Marmara, battente bandiera turca ha massacrato e ferito decine di occupanti. Altri feriti si contano a bordo delle altre imbarcazioni. Solo verso le 6 di stamani le notizie sono cominciate a filtrare, in un primo tempo negate da Israele che ha operato, come sua abitudine, con una vera e propria censura stampa. Da fonti militari le vittime potrebbero essere 19 o più. Dopo di che ha abbordato le altre navi, tra queste la "8000", a bordo della quale ci sono anche italiani (Angela Lano, torinese, direttrice agenzia stampa Infopal.it ,e che ha collaborato anche con il nostro giornale, Joe Fallisi, Manolo Luppichini, regista e reporter, Manuel Zani, freelance, Fernando Rossi, ex senatore della Repubblica, Monia Benini, presidente Per il Bene Comune). Gli israeliani hanno poi assunto il comando di tutte le navi, isolando tutti gli strumenti di comunicazione. In questo momento possiamo considerare, non avendo più informazioni d'alcun genere, tutti gli occupanti della spedizione, in stato di sequestro. Le ambasciate stesse non sono in grado di fornire aggiornamenti. L'ultimo contatto satellitare di Angela Lano coi familiari, è stato questa notte intorno alle 2, ora italiana. Dopo di che più nulla. Il comandante della "8000" pare sia ferito, si spera non gravemente, ma non intende essere trasportato in ospedale israeliano.

Su questo ennesimo crimine contro l'umanità a opera israeliana, per ora si sono espressi solo Grecia Turchia e Spagna. Gli altri paesi tacciono. La comunità europea butta là una timida proposta di indire una commissione.

La "Freedom Flotilla" ci dimostra cos'è un'autentica "missione di pace", ma di questa i media, disumanamente, se ne fregano. Anche questa volta, come per lo sterminio palestinese "piombo fuso", troveremo il modo per assolvere Israele in quanto ha solo agito per difesa legittima?

un articolo di Nadia Redoglia da Nuovasocietà

venerdì 28 maggio 2010

Il maggio del maledetto amianto Eternit

Dopo l’audizione dei primi due testimoni chiave, Nicola Pondrano e Carlo Pesce, figure simbolo della lotta all’amianto di Casale Monferrato, il maxi processo Eternit è entrato nel vivo. Maggio è stato un mese denso di racconti e testimonianze, che hanno posto i primi tasselli di un complesso mosaico che vede alla sbarra i due massimi dirigenti della multinazionale dell’amianto, lo svizzero Stephan Schmidheiny, e il belga Jean Louis de Cartier de Marchienne. Quattro udienze, quelle celebrate nell’ultimo mese, che hanno avuto protagonisti differenti, a partire dall’attuale e dall’ex-presidente della Regione Piemonte, rispettivamente Roberto Cota e Mercedes
Bresso, passando per le mogli di lavoratori morti di mesotelioma.

Udienze che hanno messo in luce la sofferenza degli operai di Casale Monferrato, Cavagnolo e Rubiera, costretti a lavorare in mezzo alle polveri di amianto. E poi la sofferenza degli abitanti di Casale che hanno presto iniziato a morire anche se nulla avevano a che fare con la fabbrica Eternit: semplicemente vivevano lì o lavoravano nei dintorni. Il 10 maggio Giovanna Patrucco, figlia di una coppia di panettieri che avevano il negozio a 200 metri dallo stabilimento ha raccontato: la mamma è morta di mesotelioma, dopo che per anni i lavoratori dell’industria di amianto si sono recati nel suo negozio per comprare da mangiare con le tute ancora sporche di quella polvere bianca.

La geologa Laura Turconi il 4 maggio ha spiegato le sofferenze del grande fiume, il Po, utilizzato per anni come vera e propria discarica; ha descritto i cambiamenti morfologici del fiume, a causa delle tonnellate (20 a settimana) di detriti di amianto riversati sulle sue rive. Quanto avvenuto è stato ribadito, un paio di settimane più tardi con la presenza in aula di Enrico Bagna, titolare della ditta che, dal 1972, si è occupata dello “smaltimento” dei rifiuti di amianto, ossia l’abbandono a cielo aperto lungo gli argini del fiume degli scarti di produzione. Una testimonianza controversa e delicata, per un uomo che già in passato aveva dovuto affrontare la contestazione di reati ambientali, e che si è difeso così: "All’epoca le norma lo permettevano, non c’erano restrizioni". Almeno fino al 1983, quando
furono modificate le regole e Bagna attivò una discarica in un luogo differente, chiusa però poco dopo.

E infine la sofferenza di una città, Casale Monferrato, sulla quale sono stati chiamati a testimoniare l’attuale primo cittadino, Giorgio Demezzi, e i suoi predecessori, Paolo Mascarino (dal 1999 al 2009) e Riccardo Coppo (dal 1984 al 1988 e dal 1995 al 1999). Quest’ultimo, sindaco quando l’Eternit ancora funzionava, ha ricordato la preoccupazione per le condizioni di lavoro degli operai: nel 1985 scrisse una lettera indirizzata direttamente a Schmidheiny, ma non ricevette mai risposta. Nel lungo e difficile lavoro di bonifica gli ex dirigenti mai sono intervenuti: in totale è costato oltre 10 milioni di euro.

A partire dall’ultima udienza, quella di lunedì scorso, l’attenzione ha iniziato a spostarsi sulla dimensione internazionale della vicenda Eternit, grazie alla testimonianza fornita da Francois Iselin, membro dello svizzero Caova (Comitato aiuto e orientamento per le vittime dell’amianto). Architetto, ex professore al Politecnico di Losanna, Iselin, che da decenni si occupa di amianto, ha spiegato come la consapevolezza che questa sostanza fosse cancerogena si avesse già almeno dal 1962. In Svizzera ne venne vietato l’uso nel 1990, eppure la Eternit ebbe una proroga per altri quattro anni fino al 1994, per le fabbriche di Payerne e Niederurnen. Iselin, però, si è spinto anche più in là, raccontando come fosse usanza della multinazionale riversare gli scarti di produzione in fiumi, boschi, creando talvolta vere e proprie montagne di rifiuti: avvenne nel terzo mondo, in Nicaragua.

E poi si è parlato di Svizzera e Germania, grazie all’intervento di Silvano Benitti, ingegnere, che dal 1975 al 1979 ha lavorato per la Eternit, prima un anno a Casale, per seguire un periodo di formazione, quindi all’estero e nel sud Italia, alla Cemater di Ferrandina, azienda partecipata Eternit. Benitti ha sottolineato come, alla fine degli anni Settanta, il pericolo per la multinazionale era proprio la possibilità che iniziasse a diffondersi la consapevolezza del pericolo. Dicevano: "La diffamazione sull’amianto rischia di mettere a rischio la nostra attività". Non le persone, non l’ambiente. Ma l’attività e il profitto. E anche qui, un ricordo, una certezza, l’inesorabile frase, ripetuta dai vertici aziendali fin dal 1975: "Sappiamo che l’amianto è potenzialmente pericoloso, ma per evitare problemi basta adottare le adeguate misure di controllo". Il processo riprenderà lunedì 7 giugno.

di Ilaria Leccardi da Terra Comune del 28 maggio 2010

mercoledì 19 maggio 2010

I cubani che scoprirono il terrorismo Usa

articolo di Gianni Minà, apparso domenica 16 maggio su Il fatto quotidiano

Caro Direttore,
questa volta ti chiedo spazio per raccontare una storia emblematica che spiega quanto sia crudele l'embargo Usa nella vita di Cuba.
Alla metà degli anni ’90 le attività terroristiche dei gruppi che dalla Florida e dal New Jersey organizzavano attentati e provocazioni lungo le coste di Cuba, con la complicità della famigerata Fondazione cubano-americana di Miami, erano diventate così numerose e pericolose che il governo de l’Avana fu costretto a prendere due decisioni fondamentali.

La prima fu quella di infiltrare, nelle maglie della società nordamericana, cinque agenti dell’intelligence che, rinunciando per un lungo lasso di tempo alla loro vita personale e rompendo ufficialmente con le loro famiglie e il loro paese, cercassero di scoprire dove nasceva l’eversione per poterla neutralizzare.
La seconda decisione impegnò invece in prima persona Fidel Castro che chiese al premio Nobel della letteratura Gabriel García Márquez se poteva essere latore di un messaggio informale a Bill Clinton.
L’allora presidente degli Stati Uniti aveva, infatti, più volte dichiarato di essere un lettore fedele delle opere del grande scrittore colombiano, tanto da tenere i suoi romanzi sul comodino e di non addormentarsi senza leggerne una pagina.
A queste dichiarazioni erano seguiti diversi inviti a Márquez, che aveva trascorso perfino un week end ospite dei Clinton, con il collega messicano Carlos Fuentes, all’isola Martha’s Vineyard.
Márquez in quegli incontri aveva spiegato Cuba al Presidente e aveva espresso le aspettative che i popoli a sud del Texas nutrivano, dopo gli anni crudeli dell’Operación Cóndor, l’annientamento delle opposizioni latinoamericane benedetto da Nixon e Kissinger, e dopo la stagione del “reaganismo”.
Ma Clinton, che (come il premier spagnolo Aznar) aveva avuto un consistente contributo elettorale proprio dalla Fondazione cubana-americana, non aveva potuto mantenere le sue promesse di un cambio di rapporto con l’isola della Revolución e nemmeno di una reale apertura nelle politiche con l’America latina.
Così non per caso, quella volta, nella primavera del ‘98, il Gabo, alla fine dei suoi seminari all’Università di Princeton, non riuscì' a incontrare, come al solito, il suo amico Presidente e dovette accontentarsi di consegnare il delicato messaggio di Fidel Castro allo staff della Casa Bianca.

Nel frattempo, Gerardo Hernandez, René Gonzales, Fernando Gonzales, Antonio Guerrero e Ramon Labañino, i cinque agenti dell’intelligence cubana, avevano portato a termine la loro pericolosa missione. Le risultanze della loro ricerca erano apparse subito così delicate anche per la plateale connivenza di alcuni organi federali Usa, che il governo cubano si era visto costretto, attraverso la diplomazia sotterranea che non ha mai cessato di funzionare fra i due Paesi, a chiedere un incontro fra le parti. Una delegazione dell’Fbi volò all’Avana per ricevere una copia dei dossier raccolti. Ma dopo che questa documentazione fu esaminata, il governo di Washington, invece di catturare Luis Posada Carriles, Orlando Bosch, Santiago Alvares, Rodolfo Frometa o i Fratelli del Riscatto (Brothers to the Rescue) di José Basulto, veri Bin Laden latinoamericani, decise l’arresto dei cinque cubani che avevano individuato le centrali terroristiche attive in Florida.

La loro odissea era appena cominciata. Dovettero aspettare 33 mesi, 17 dei quali in isolamento e 4 settimane nell’hueco (il buco, una cella di 2 metri x 2 dove la luce è sempre accesa) prima di essere rinviati a giudizio per spionaggio. Il loro ritorno in una cella normale fu possibile solo grazie a una campagna internazionale alla quale parteciparono un centinaio di deputati laburisti inglesi e Nadine Gordimer, scrittrice sudafricana, anch’essa Nobel per la Letteratura.
Non mosse un dito invece Freedom House, uno degli organismi sovvenzionati dal NED, l'agenzia di propaganda della Cia, che ha la presunzione, ogni anno, di dare le pagelle sulla democrazia e la libertà di informazione nei vari paesi. Tacquero anche i Reporters sans frontières, sempre latitanti nelle battaglie per le violazioni dei diritti umani commessi dagli Usa.
Il processo fu una vera farsa con esplicite minacce e aggressioni ad alcuni giurati e condanne inaudite a vari ergastoli per i Cinque.
L’avvocato Leonard Weinglass, difensore di Antonio Guerrero e vecchio combattente per i diritti civili (è stato il difensore di Mumia, di Angela Davis, dei cinque di Chicago) affermò che erano stati violati il 5° e il 6° emendamento della Costituzione del Paese.

Non era una esagerazione. Nell’agosto del 2005, infatti, tre giudici della Corte d’Appello federale di Atlanta che ha giurisdizione sulla Florida (e che potevano intervenire solo se avessero accertato, come è avvenuto, errori legali e di diritto commessi nel primo giudizio) revocarono la sentenza espressa dal Tribunale di Miami nella primavera del 2003, chiedendo un nuovo dibattimento in una città diversa e meno condizionata dall’odio. Sottolinearono, infatti, che non c’era stata diffusione di informazioni militari segrete e che non era stata messa in pericolo la sicurezza degli Stati Uniti.

I cinque cubani, in attesa di un nuovo giudizio, non furono però liberati. Un anno dopo, ancora la Corte d’Appello di Atlanta, allargata a nove membri per le pressioni del ministro della Giustizia Alberto Gonzales, grande propugnatore del “diritto a praticare la tortura” delle forze armate Usa, revocò a sua volta la decisione presa dai giudici Stanley Birch, Phyllis Kravitch e James Oakes che, dodici mesi prima, “nell’interesse dell’etica e della giustizia” avevano dichiarato nulla la condanna per spionaggio emessa contro i Cinque a Miami.
Di fatto, il caso fu congelato e spedito alla Corte Suprema con un’istanza per la revisione del processo accompagnata da interventi di “amici della Corte” (amicus curiae brief), firmati da dieci premi Nobel e dalla ex commissaria per i Diritti Umani delle Nazioni Unite.
Ma tutto questo non è servito a nulla. Il 5 giugno 2009 la Corte Suprema degli Stati Uniti ha infatti annunciato, senza motivazioni, la sua decisione di non riesaminare il caso dei Cinque.
L’avvocato Weinglass ha denunciato ancora una volta la latitanza, fin dall’inizio, dei mezzi di informazione in un caso che pure toccava importanti questioni di politica estera e di terrorismo internazionale.

Non a caso, il 3 marzo 2004, il più prestigioso intellettuale degli Stati Uniti Noam Chomsky, l’ex ministro della Giustizia Ramsey Clark, il vescovo protestante di Detroit Thomas Gumbleton, il Nobel della Pace Rigoberta Menchú ed altre personalità, avevano dovuto comprare, per sessanta mila dollari, una pagina pubblicitaria del New York Times, per far conoscere finalmente questa storia nascosta fin dall'inizio all'opinione pubblica.
Nella pagina ci si chiedeva: “E’ possibile essere imprigionati negli Stati Uniti per aver lottato contro il terrorismo?”. E la risposta sotto era: “Si, se combatti il terrorismo di Miami”.
Negli ultimi sei anni non è cambiato nulla. Ma Obama ha vinto in Florida, e persino a Miami, senza l’aiuto, come fu per Bush jr., della Corte Suprema e senza l’appoggio dei gruppi della destra eversiva della Florida.
Sarebbe semplice per lui dimostrare che la politica estera del suo governo non è condizionata dai terroristi legati alla Fondazione cubano–americana di Miami, autori, in questi anni, di 681 attentati , che hanno assassinato 3478 persone, e ferito altre 2000.
Per ora, Obama, ha incontrato solo i “duri” di Miami. Sarebbe utopistico sperare in un cambio di politica?

Gianni Minà, da Latinoamerica

venerdì 7 maggio 2010

Alessandria. Taekwondo e arte di vivere
per una polisportiva antirazzista

Domenica 2 maggio 2010. Palestra del Laboratorio Sociale. Esibizione del corso di Taekwondo. Dagli spalti vediamo il cuore pulsante della Polisportiva Antirazzista Uppercut. È un cuore meticcio, solidale, degno come le atlete e gli atleti che si stanno esibendo davanti a uno dei pubblici più eterogenei e nutriti che ricordiamo. Un cuore che ci rappresenta così tanto da lasciarci quasi a bocca aperta. Più di un anno fa, quando le attività dell’Uppercut si sono spostate al Laboratorio Sociale, avevamo semplicemente la speranza di costruire quello che invece oggi si materializza ai nostri occhi.

Questo è l’ultimo evento sportivo “casalingo” della stagione. Gli atleti sono più di venti, tra bambini e adulti. Disposti su più file stanno mostrando le forme, le tecniche principali e le acrobazie di un’arte affascinante che, come spiega il Maestro Naceur Atia, è una vera e propria filosofia centrata sull’etica della pace (simboleggiata dal colore bianco del dobok, la divisa) e della giustizia, in un insieme di forza spirituale, di autocontrollo, di rispetto per sé e per gli altri. Come molte delle arti orientali, anche il Taekwondo è un modo di vivere più che una disciplina sportiva pura e semplice. Un modo di vivere che, con le dovute proporzioni, non si discosta poi così tanto dal nostro. Lo sport in quanto tale è ciò che ci permette di costruire una modalità nuova di vivere tra tanti e diversi, nella valorizzazione delle differenze e nel reciproco rispetto. Trascende la semplice cura del corpo e alimenta lo spirito nella ricostruzione del senso più umano e fraterno dell’esistenza, così distante dalle logiche utilitaristiche della società di oggi. È la ricerca di nuove pratiche di condivisione, orientate alla pacifica convivenza dei popoli e tese al raggiungimento di un’eguaglianza universale tra tutti gli esseri umani. È uno strumento di socializzazione che, supportato da una filosofia comune e condivisa, non esclude nessuno e dà ad ognuno la possibilità di misurarsi con sé e con il mondo in maniera costruttiva.

E quindi eccolo il cuore dell’Uppercut: bambini e adulti, atleti e famiglie di ogni provenienza e con alle spalle le storie più diverse che si esibiscono, simulano combattimenti o semplicemente osservano e filmano lo spettacolo da qui, dagli spalti su cui sediamo anche noi che alla polisportiva abbiamo dato formalmente vita. Negli sguardi di ciascuno si esplicita in tutta la sua potenza il senso di appartenenza ad una comunità allargata, che è sì quella sportiva ma è anche quella delle piccole emozioni quotidiane che ci legano e ci fanno crescere giorno dopo giorno. Jospeh, Elion, Lucrezia, Ivo, Lorenzo, Luca, Mohamed, Soufiane, Angelica sono solo alcuni dei nomi dei piccoli e grandi atleti che ci incantano, ci fanno sorridere e ci ripagano di ogni sforzo fatto fino ad ora. Sono arrivati in palestra alle 14 per le prove generali e intorno alle 18, quando l’esibizione sta volgendo al termine, sono stremati ma hanno ancora voglia di raccontare e raccontarsi attraverso lo sport.

Il 22 maggio 2010 alcuni di loro gareggeranno a Losanna per la competizione internazionale degli “Open 2010” e ci rappresenteranno di fronte a circa 600 atleti di ogni parte del Mondo, tra le nostre gioia e incredulità per essere arrivati così tanto lontano con le nostre sole risorse.

Più di un anno fa, quando speravamo in qualche cosa di grande, non avevamo che la presunzione di immaginare tutto questo. Oggi sappiamo che osare la speranza non è, sempre, una follia. Nel nostro caso corrisponde ad un’unione sapiente tra forza interiore, autocontrollo, rispetto e voglia un po’ ribelle di rivendicare diritti per tutti, capace di generare spazi fisici e mentali liberi e solidali, al di là di qualsiasi barriera o confine.

Polisportiva Antirazzista Uppercut, da globalproject

Uppercut. Un pugno al razzismo

Naceur ha i capelli scuri, con qualche lieve sfumatura grigia. Nel corpo una forza esplosiva, la voce tonante, gli occhi profondi. È tunisino, cintura nera, quarto dan di Taekwondo. Ha fatto parte della Nazionale del suo Paese, partecipando alle selezioni per Seul 1988. Oggi insegna la sua arte nella palestra della Polisportiva Antirazzista Uppercut. Una realtà nata ad Alessandria nel 2007 nel Centro Sociale Crocevia, e che dall’aprile 2009 ha trovato una sede ufficiale in via Piave 65, nell’ex caserma dei Vigili del Fuoco, riuscendo a dare il via a diverse nuove attività.

Le grida degli allievi impegnati nell’allenamento si sentono fin dalla strada. Una popolazione mista di italiani e migranti, da bambini di 4-5 anni riuniti con altri giovanissimi in un corso specifico ai trentenni del corso per adulti. Si stanno preparando per una gara e per l’esame di cintura. Alcuni la indossano bianca, alcuni gialla, poi blu e rossa. Nera solo Naceur, almeno per ora. “Questo corso è il nostro fi ore all’occhiello”, sorridono soddisfatti Federica e Andrea, due dei ragazzi che hanno dato via al laboratorio sportivo e sociale di via Piave, diventato ormai un cuore pulsante della città. Non solo per le attività sportive che al suo interno si svolgono, ma per tutta una serie di iniziative rivolte alla popolazione italiana e migrante. Impegno politico e sociale, partecipazione attiva, condivisione.

Tutto inizia nell’ottobre 2008, quando un gruppo di ragazzi appartenenti a varie realtà alessandrine come il Centro Sociale Crocevia, il Movimento Studentesco, la Rete Sociale per la Casa e la stessa Uppercut, ancora agli inizi del suo percorso, affiancati dalla Comunità di San Benedetto di Genova (quella di Don Gallo, per intenderci), occupano lo stabile di via Piave, dismesso ormai da due anni, dopo il trasferimento dei Vigili del Fuoco in una nuova sede. La caserma è grande, costituita da diverse palazzine e da un corpo centrale che un tempo al piano terra ospitava uffi ci e al primo piano una palestra, non tanto grande e nemmeno nuova, ma in buono stato. Fino ad alcuni anni fa vi si allenavano i vigili del fuoco e gli atleti della storica Società Ginnastica Scapolan di Alessandria, costretti ad abbandonare l’impianto nel 1995. L’occupazione dura due settimane, poi i ragazzi indicono un’assemblea pubblica, il 17 ottobre. Un appello alla cittadinanza, al motto di “Abbiamo liberato uno spazio, ora liberiamo le idee!”, e una richiesta all’amministrazione provinciale, proprietaria dell’immobile.

“L’obiettivo era recuperare un luogo dismesso da troppo tempo e restituirlo alla città”, spiega Federica. “Volevamo uno spazio che fosse antirazzista, antifascista, antisessista e antiproibizionista. Insomma, uno spazio aperto a tutti. E così ci siamo dati una sorta di regolamentazione, per cui abbiamo deciso, ad esempio, di non bere e non fumare all’interno dello stabile. Un modo per dimostrare il rispetto verso culture e sensibilità diverse, e per permettere a tutti di avere accesso a questo nuovo ambiente e di viverlo nel migliore dei modi”.

In seguito all’assemblea, la Provincia concede lo spazio in comodato d’uso gratuito ai ragazzi e da quel momento partono i lunghi mesi di ristrutturazione. L’inaugurazione, il 24 aprile 2009, dà il via a tante attività: dai corsi di alfabetizzazione e lingua italiana per bambini, ragazzi e adulti stranieri, ai corsi di lingua araba e spagnola; dallo sportello legale a quello per la raccolta e distribuzione di vestiti; dalle attività della Rete Sociale per la Casa e dell’Associazione “Migranti Senza Frontiere” all’idea di dar vita a un laboratorio teatrale multietnico. Ma, soprattutto, la dinamica e vitale palestra, che, come le altre realtà, ha avuto un ruolo importante anche in occasione dello sciopero nazionale dei migranti, tenutosi in tutta Italia il 1° marzo e organizzato ad Alessandria a suon di assemblee che hanno visto protagonisti, oltre ai rappresentanti di tante associazioni di migranti del territorio, anche i ragazzi dei corsi, i genitori, gli insegnanti. In vista di quell’appuntamento la palestra era stata teatro di un incontro pubblico, il 13 febbraio, in cui è stato presentato l’evento ai cittadini e proiettato un video sui fatti di Rosarno. Quel giorno la palestra era affollata, ma in realtà è popolata tutti i giorni. Ogni settimana, dal lunedì al giovedì, a partire dalle 18, quel grande spazio dalle pareti bianche e in qualche punto un po’ ammuffi te, si riempie di bambini e ragazzi che partecipano ai corsi. Alle pareti campeggiano striscioni e manifesti che riportano scritte del tipo: “Nello sport come nella vita. Nella vita come nella lotta. Solidali”. E lo spirito che si respira al suo interno è davvero questo.

Finora le discipline che sono state attivate sono quattro. Il già citato Taekwondo, arte marziale coreana il cui nome significa letteralmente “arte dei calci volanti e dei pugni”; la boxe, come testimoniano i sacchi appesi a una delle pareti lunghe della palestra, attività in cui l’Uppercut collabora con l’Associazione Pugilistica
Valenzana; il calcio a cinque, sezione in cui si sono già formate diverse squadre maschili e femminili, che hanno partecipato a tornei antirazzisti e puntano per il futuro a un ingresso nei tornei Uisp, di cui l’intera Polisportiva fa parte. Infine, l’ultima arrivata, il minibasket, i cui corsi sono organizzati dalla associazione senegalese Diaspora.

Prezzi popolari per le iscrizioni, le cui quote finiscono completamente in cassa comune. Allievi e sportivi provenienti da tutte le parti del mondo, dal Nordafrica all’America Latina, dai Paesi dell’Est europeo all’Africa nera. In questa palestra tutti i giorni lo sport diventa veicolo di unione e socializzazione, il tentativo di costruire qualcosa senza grandi risorse economiche ma con grandi risorse umane, passione e serietà. Lo dimostra l’impegno di Naceur, che è anche coordinatore regionale della Fita (Federazione Italiana di Taekwondo), e nei prossimi mesi ha già programmato una serie di competizioni a livello regionale e non solo. Per una gara se ne andrà addirittura in Svizzera con i suoi allievi, a cui chiede puntualità, impegno, partecipazione. “Ogni calcio e ogni pugno preso o dato qui dentro, spiegano i ragazzi della Polisportiva, è contro il razzismo e punta alla partecipazione di tutti, senza barriere, per costruire un percorso comune di lotta contro le discriminazioni e di valorizzazione delle differenze”.

Un percorso che parte dalla strada, dalle esperienze condivise, dalle difficoltà: lo dice il nome stesso della Polisportiva, “Uppercut”, un pugno che parte dal basso.

di Ilaria Leccardi, da Piemonte Mese di maggio 2010

martedì 4 maggio 2010

Stefano Cucchi: falsità ed omissioni per nascondere il pestaggio

Sarebbe bastato un semplice cucchiaino di zucchero sciolto in un bicchiere di acqua a salvare la vita di Stefano Cucchi. E’ quanto i pubblici ministeri Barba e Loy scrivono nell’atto di fine indagine appena depositato che contesta “le mancate cure” al giovane da parte del primario dell’ospedale Sandro Pertini di Roma, dei quattro medici e dei tre infermieri. Le accuse sono precise: favoreggiamento e abbandono di incapace con l’aggravante di averne provocato la morte, abuso di ufficio e falso ideologico. Tredici le persone coinvolte che finiranno sotto processo tra personale medico e paramedico, secondini e un dirigente dell’amministrazione penitenziaria.

Ma ripercorriamo insieme le tappe:
15 ottobre 2009, ore 23,30: Stefano Cucchi viene arrestato per possesso di modesta quantità di sostanze stupefacenti. E’ sano, la mattina era stato in palestra ad allenarsi.
16 ottobre, sotterranei del tribunale di Roma: al processo Cucchi arriva con il volto gonfio e con delle ecchimosi sotto gli occhi.
22 ottobre ore 03,00: Stefano Cucchi muore per disidratazione nel padiglione carcerario dell’ospedale Pertini di Roma; è denutrito, ha il corpo ricoperto di ematomi, fratture e altre lesioni.
La procura avvia un’indagine per omicidio preterintenzionale, la salma del giovane romano viene riesumata per ulteriori accertamenti, il 13 novembre arrivano i primi avvisi di garanzia ai tre agenti della polizia penitenziaria e ai tre medici del Pertini.
Il DAP, dipartimento di amministrazione penitenziaria, dispone un’inchiesta interna e assolve gli agenti; i medici vengono rimossi dalla Asl ma, in seguito alle proteste dei colleghi e dell’ordine dei medici, vengono reintegrati.

Oggi cade l’accusa di omicidio, la posizione degli agenti della penitenziaria si attenua, è vero, ma quella dei medici fa venire la pelle d’oca, rischiano otto anni di carcere.
Hanno abbandonato Stefano, hanno aggiustato la cartella clinica, hanno “orientato” la destinazione in un reparto, quello carcerario, non adatto alle condizioni del paziente e infine hanno mentito sulle “buone condizioni di salute”. Scrivono i pm:“ intenzionalmente gli procuravano un danno ingiusto di rilevante gravità nel ricoverarlo in un centro inidoneo”.

Ma ancora una volta non si riesce a dare una risposta alla domanda: come un ragazzo arrestato in buone condizioni di salute si è ritrovato morto in un letto d’ospedale dopo soli sei giorni? I medici lo avrebbero potuto salvare ma chi lo ha ridotto in quello stato?
E’ quanto si cercherà di capire nel dibattimento. Negli atti depositati qualche altro frammento di verità viene fuori: si riconosce, intanto, che all’origine del decesso c’è stata un’aggressione e forse più d’una; c’è l’ipotesi che “in concorso tra loro alcuni agenti, abusando della loro autorità, spingendo e colpendo con calci Stefano Cucchi, lo facevano cadere in terra causandogli politraumatismo, lesioni e fratture alla IV vertebra sacrale” e perchè si sarebbero così accaniti contro il detenuto? “per farlo desistere dalla richiesta di farmaci e dalle continue lamentele”.
Gli agenti non sopportavano i lamenti di dolore del geometra romano, non volevano sentirlo, dava loro fastidio dunque bisognava punirlo.

La famiglia di Stefano Cucchi non si arrende, la sorella Ilaria parla di ricostruzione “allucinante” di quei momenti. “Ora so che mio fratello è stato ucciso -ha detto- questa cosa è stata chiarita, Stefano è stato letteralmente abbandonato dai medici che si sarebbero dovuti prendere cura di lui” ha aggiunto Ilaria. La sorella e tutta la famiglia di Stefano ora sperano che nei prossimi giorni si faccia chiarezza e si scopra la verità sulle prime ore dopo l’arresto del ragazzo, partendo dal pestaggio potrebbe nuovamente cambiare la posizione degli agenti della penitenziaria che lo tennero in custodia.

Ma bisognerà attendere il processo per avere una risposta alle centinaia di domande che tutti noi ci siamo posti in questi interminabili 200 giorni. Appare chiaro però l’impulso sadico che ha invaso corpo e mente di questi 13 uomini, una violenza gratuita, una cattiveria difficilmente raccontabile forse dettata dalla paura di essere scoperti e additati come torturatori che prima ha fatto marcire, nelle celle di sicurezza del tribunale, un giovane romano arrestato per 20 grammi di hashish e due di cocaina e poi lo ha lasciato morire sapendo che si sarebbe potuto salvare con un semplice bicchiere di acqua e zucchero.

di Roberta Serdoz, da Articolo21, 2 maggio 2010

sabato 1 maggio 2010

Eternit: le menzogne, l'irrisione, le spie

"La politica dell’Eternit era di negare, quasi ridicolizzare, coloro che prendevano posizione sulla pericolosità dell’amianto. L’azienda escludeva la possibilità di rischi. Anche contro questo abbiamo dovuto batterci, per recuperare una coscienza collettiva". Lunedì 26 aprile, al maxiprocesso contro i dirigenti della multinazionale dell’amianto, è stato il giorno di Bruno Pesce, il secondo teste chiamato dal pm. Segretario della Camera del Lavoro di Casale Monferrato dal 1979 e referente dell’Associazione Famigliari delle Vittime, Pesce ha ripercorso gli ultimi anni di vita dello stabilimento casalese, chiuso nel 1986, e la lotta mai cessata contro l’amianto. E ha raccontato come, proprio negli anni in cui operai e cittadini iniziavano a comprendere la correlazione tra polveri di amianto e morti, la multinazionale lavorava per smentire ogni preoccupazione.

"Ricordo appelli della Eternit, anche sui giornali, che invitavano i cittadini a visitare la fabbrica. L’azienda negava i pericoli, lo ha fatto in Italia, ma anche all’estero, in Francia, in Svizzera, per non parlare del Brasile. Addirittura il dottor Costa, un dirigente dell’area commerciale, in un convegno del 1979 affermò che l’amianto blu non era cancerogeno. Ma non era vero e da noi quell’amianto si usava, soprattutto per la lavorazione dei tubi". Poi un giorno l’Inail smise di pagare il premio supplementare per chi lavorava in Eternit, prendendo per buoni i dati dell’azienda secondo cui il pericolo in fabbrica non esisteva più. Una decisione contro cui sindacato e lavoratori si batterono, intraprendendo nel 1981 una vertenza collettiva e portando l’Inail in tribunale, con una causa vinta nell’89.

Le attività del sindacato stavano diventando pericolose per i vertici aziendali, tanto che alle calcagna di Pesce e compagni fu messa addirittura una spia. "Si chiamava Cristina Bruno, una giornalista freelance che aveva scritto articoli sui giornali locali, come Il Piccolo e La Vita Casalese. Veniva ai nostri incontri, era insistente e petulante. Voleva partecipare alle riunioni private e noi non ci preoccupavamo". Solo dopo si scoprì che era pagata da una società di Milano incaricata di informare i vertici Eternit sulle mosse del sindacato. Un interesse costante della multinazionale che però non si traduceva nella volontà di fare qualcosa per rimediare al disastro ambientale sul territorio, come dimostra lo stato di abbandono in cui furono lasciati gli stabilimenti dopo il 1986, anno di chiusura della Eternit in Italia. "La bonifica è stata fatta a partire dal 2000, ma solo con fondi pubblici, senza alcun contributo dell’impresa".

L’azienda, che ancora oggi sostiene di lavorare l’amianto in modo sicuro, ad esempio in Canada, durante gli anni di attività in Italia nemmeno si preoccupava del problema. Lo ha detto anche Ezio Buffa, l’ultimo testimone chiamato ieri a parlare in tribunale. Assunto nel 1954 e pensionato dal 1978, perché malato di asbestosi (oggi al 76%), Buffa ha raccontato la sua realtà, quella dei lavoratori: le macchine che perdevano polveri, i pavimenti puliti a colpi scopa, gli scarti industriali rotti nel piazzale con un caterpillar cingolato e il polverino regalato alle famiglie da usare in casa come isolante o pavimentazione. E poi la conferma: dall’azienda nessuna protezione, nessun avvertimento e nemmeno la possibilità di parlare del problema amianto durante le ore di lavoro.

A margine del processo una notizia di cronaca sportiva. E’ morto Sergio Castelletti, terzino sinistro della Nazionale e della Fiorentina negli anni sessanta. Era nato a Casale il 30 dicembre del 1937, e sul campo dove le buche venivano colmate con il polverino si era allenato fin da ragazzino. Il mesotelioma ha ucciso anche lui.

di Ilaria Leccardi, da Terra Comune del 30 aprile 2010

giovedì 15 aprile 2010

Eternit. Nicola Pondrano, il primo testimone, commuove il tribunale

"Alberto aveva 47 anni, Mario ne aveva 53, Franca 58, come Evasio. Lo chiama­vamo “il palombaro”, perché andava in giro ricoperto di sacchetti di plastica dicendo: “Ho una bella moglie giovane, un figlio piccolo, non voglio morire”. Se n’è andato anche lui. Erano i miei compagni, lavoravano con me. Persone con cui ho diviso il panino, tutti i giorni, e anche i momenti di allegria. Morivano, i miei amici moriva­no. Era la quotidianità di questi addii che rendeva la situazione insopportabile".

Le parole di Nicola Pondrano hanno ammuto­lito l’aula 1 del Tribunale di Torino, durante l’ottava udienza del maxiprocesso Eternit. La prima deposizione, lunga, sofferta, per un uomo, operaio, delegato e poi dirigente sindacale della Cgil di Casale, che ha pas­sato oltre 30 anni a battersi contro l’amian­to e i suoi effetti. È iniziata così la lunga serie di audizioni al maxiprocesso Eternit, respinta dalla Corte la richiesta della di­fesa di chiamare a testimoniare tutte le parti lese e ammessi solo due consulenti per parte e due testimoni per ogni titolo di prova. Quattro ore di testimonianza in cui l’uomo, assunto nello stabilimento di Ca­sale nel 1974 a poco più di vent’anni, ha raccontato il modo di lavorare in fabbrica, le prime prese di coscienza di una trage­dia già in corso da tempo, ma allora an­cora senza volto e senza nome.

"Hanno iniziato a insospettirmi i tanti, troppi, ma­nifesti che in campagna si definiscono “da morto” appesi all’esterno della fabbrica. Riportavano nome, cognome ed età. Tutti giovani, 50, 48 anni. Io e gli altri lavoratori ci interrogavamo sulle polveri, evidenti in quello stabilimento vetusto. Si vedevano a occhio nudo, sulle tute blu che portava­mo a lavare a casa a fine settimana. Si vedevano nei reparti". Così come per le strade, quando camionette scoperte trasportavano in città gli scarti di produzione frantumati. "Bastava un soffio di vento e le polveri si spargevano ovunque".

Che in Eternit si morisse di amianto si sape­va da qualche tempo. Aveva iniziato ad occuparsene il prete operaio Bernardino Zanella che ispirò l’impegno di Pondrano nei primi anni di lavoro in fabbrica, e dise­gnò una prima mappa grezza delle fonti di rischio dell’Eternit. Ma lo sapeva anche la coscienza collettiva dei lavoratori. "Mi ri­cordo Piero Marengo. Stava seduto su un sacco di amianto, dimostrava ottant’anni anche se ne aveva molti meno. Era uno degli ultimi facchini della Eternit ad aver lavorato l’amianto con le mani e averlo spostato con il forcone. Si trovava in un reparto in cui io, giovane operaio e delegato sindacale, un giorno ero andato a curiosa­re. Mi ha visto giovane, forse più giovane degli anni che avevo, e mi ha detto: “Cosa sei venuto a fare qui dentro. Sei venuto a morire anche te?”".

Ma la questione inizia presto ad emergere anche nei documenti, nei volantini diffusi dal consiglio di fabbri­ca. Da una parte Pondrano, membro della commissione ambiente di quel consiglio, che si batte assieme agli altri sindacalisti, si arrabbia, rivendica, cerca una conferma scientifica, che trova quando si comincia a parlare di un tumore specifico legato a questo tipo di lavorazioni, il mesotelioma. Dall’altra parte l’azienda, che sminuisce, e parla addirittura in difesa dell’amianto blu. Nel 1978 il Sil (Servizio Igiene Lavoro), strumento tecnico della Eternit addetto alle rilevazioni in fabbrica, con cui i sindacalisti hanno frequenti colloqui, emette un docu­mento in cui sostiene che i dati sull’am­biente nello stabilimento siano sotto i limiti imposti dalla legge, e chiude "… ricorda­tevi che il fumo di sigaretta è nocivo e pro­voca il cancro".

Il botta e risposta tra il pm Gianfranco Colace e Nicola Pondrano, anche attraverso l’utilizzo di filmati storici, ricostruisce passo dopo passo quali fos­sero le modalità di lavoro, l’utilizzo e il trat­tamento dei materiali di scarto delle produzioni, dove e come si mangiava, dallo scaldavivande portato da casa alla mensa istituita nel 1978. Poi i reparti. Quelli dove si lavorava a mano, e quelli più “balordi”, in cui Pondrano, cassa integrato e vittima come molti altri della crisi che colpì l’azien­da alla fine degli anni ‘70, viene mandato a lavorare saltuariamente. Qualche volta a pulire i filtri delle polveri, protetto solo da una tuta di carta, oppure per due mesi a insaccare il materiale macinato dal mulino Hazemag.

"Nel 1976 avevo 26 anni. An­davo lì con un sacco in mano, la polvere cadeva pesantemente dentro e si alzava. Avevo tanti capelli e quando arrivavo a casa mia figlia mi chiedeva se poteva farmi cadere dalla testa quella polvere bianca. E io, pur occupandomi di temi ambienta­li, non ho avuto l’intelligenza o la maturità per dirle no. Adesso mi porto dietro questa paura, la paura che capiti qualcosa a lei". Ma a morire di amianto non erano solo gli operai dei reparti peggiori. Erano anche il capo della manutenzione, gli impiegati, coloro che lavoravano nel reparto plasti­ca. La Eternit era tutta “contaminata”, come attestato da una causa avanzata in quegli anni da lavoratori e sindacato. Una “morbigenità ambientale” provocata an­che da eventi detti “straordinari”, ma in realtà molto frequenti, come l’intasamen­to delle tubazioni. "Bisognava sbloccarle a mano e si alzavano nuvole di polveri". Un delegato sindacale fu anche licenziato dopo una reazione forte, in seguito a un evento simile. E le pulizie straordinarie, fatte a forza di scopa e paletta, avveniva­no quando si sapeva che sarebbero "… arrivati gli svizzeri".

Ilaria Leccardi da Terra Comune del 14 aprile 2010