mercoledì 16 giugno 2010

Eternit. A Bagnoli polvere e punizioni
A Verbania si ricomincia con il "Montefibre bis"

"Finestre non ce n'erano. Solo una porta di ingresso e una di uscita. Niente ricambio d'aria. E ogni volta che scaricavamo l'amianto veniva su un polverone irrespirabile. All'inizio ci davano una mascherina, che però non serviva a molto. Allora ci coprivamo la bocca e il naso con un fazzoletto, per ripararci dall'amianto".

Lunedì 14 giugno, quindicesima udienza del maxiprocesso Eternit. A parlare sono prima il curatore fallimentare della Eternit, Carlo Castelli, e poi due operai dello stabilimento di Bagnoli (Napoli), il più grande come estensione delle quattro fabbriche Eternit sul territorio italiano, preceduti da Elena Fizzotti, consulente del pm, che ha illustrato lo sviluppo negli anni dell'impianto campano.

I ricordi più duri sono stati quelli emersi dai racconti di Luigi Falco e Bruno Carlevalis, ex operai di Bagnoli, entrambi oggi affetti di asbestosi. Tutti e due hanno lavorato per anni alla sfilacciatrice, la macchina attraverso cui l'amianto blu veniva scompattato e, quindi, mandato alle tramogge per il peso. La fabbrica era grande e, come ricorda Falco, "se avevi qualche discussione con il caposquadra ti mandavano 15 giorni all'amianto, il reparto peggiore. Una specie di punizione". Alla sfilacciatrice Falco ha lavorato 3 o 4 anni, mentre Carlevalis ci ha passato una vita (dal 1969 al 1980), anche quando ha scoperto di essere malato. "All'inizio mi avevano detto che era bronchite, poi ho scoperto che era asbestosi".

In fabbrica si sapeva che di amianto si moriva. "Le voci erano che un operaio era morto 'con l'affanno', o per la bronchite", ha spiegato ancora Falco, "poi c'erano casi di malattie più gravi, mesotelioma, tumore alla vescica. Fino da quando sono entrato in fabbrica, negli anni '60, c'era chi diceva che le malattie erano collegate all'amianto, e chi no. Di certo la Eternit non ci ha mai dato informazioni su questo e i nostri sindacati... così così. L'idea era che comunque qualcuno doveva pur farlo quel tipo di rischio...". E, infondo, lui era stato assunto così. Il padre, operaio Eternit, si era ammalato. E quando il giovane Luigi lo accompagnò a prendere la liquidazione il capo del personale gli disse: "Mi dispiace, ma non fate 'confusione', appena c'è occasione ti assumiamo e ti diamo un posto di lavoro". Un modo dire, "non fate denuncia".

E così come a Casale Monferrato, anche a Bagnoli a respirare l'amianto non sono stati solo gli operai, ma anche le mogli che pulivano le tute di lavoro e gli abitanti della zona limitrofa. C'erano addirittura una serie di casette attaccate alla fabbrica dove vivevano alcuni dipendenti, ad esempio elettricisti che in caso di necessità sarebbero potuti intervenire rapidamente. Due piani con un po' di giardino davanti e dietro, dove i bambini giocavano senza alcuna precauzione. E dove la polvere arrivava. Dello stabilimento di Bagnoli si parlerà ancora nella prossima udienza, in cui sono stati a chiamati a testimoniare l'ex governatore della Regione Campania, Antonio Bassolino, e il sindaco di Napoli, Rosa Russo Iervolino. Ci saranno, inoltre, Vasco Errani, presidente della Regione Emilia Romagna, e il sindaco di Rubiera (Reggio Emilia).

E mentre il processo Eternit va avanti, novità arrivano dal fronte Montefibre, lo stabilimento chimico di Verbania dove si sono verificate diverse morti a causa dell'amianto. Se il 10 giugno la Cassazione aveva rinviato parte del fascicolo del processo "Montefibre uno" alla Corte di Apello di Torino (che in secondo grado aveva condannato gli imputati a pene tra gli 11 e i 20 mesi di reclusione), a Verbania si è aperto ieri il processo "Montefibre bis". Un procedimento per la morte di 17 ex dipendenti e la malattia professionale di altri 9, in cui sono imputati diversi ex dirigenti ed ex amministratori dell'azienda. L'udienza è stata caratterizzata da questioni preliminari, tra cui la richiesta di costituzione parte civile dei legali della Regione e dell'Aiea (Associazione italiana esposti amianto), esclusi in precedenza dal gup, e si aggiornerà il 16 luglio.

di Ilaria Leccardi

lunedì 7 giugno 2010

L'arabo è di casa

Maha Yakoub è seduta su un divano oppure in piedi, tra le mura di casa. Parla ai suoi studenti, come se fosse in classe. Se li immagina di fronte, penna in mano a prendere appunti, mentre lei spiega come in arabo si pronunciano e scrivono le lettere dell’alfabeto, poi i numeri, i giorni della settimana, i saluti. Eppure di fronte ha solo la webcam di un computer e un microfono. Strumenti che le permettono di arrivare virtualmente nelle case di migliaia di studenti. Lei che di anni non ne ha ancora 27 e da un po’ vive a Livorno con Luca, il marito italiano. In mano ha una laurea in Lingue e letterature straniere (inglese, arabo ed ebraico), presa a metà tra il suo Paese di origine (“che preferisco non dire qual è”) e l’università di Pisa. È bastato poco. Una buona inventiva, la capacità di spiegare con chiarezza le basi di una lingua straniera, la dimestichezza dell’utilizzo della rete e il viso accattivante di una ragazza dolce e dai modi familiari.

E così, nel novembre del 2008, Maha ha aperto un canale su Youtube, “Learn arabic with Maha”. Ha iniziato con lezioni dall’inglese all’arabo, con uno stile informale e preciso che ha colto nel segno: i contatti sono presto lievitati. “Ho scoperto -racconta- che sono tante le persone interessate a studiare l’arabo, specialmente nei Paesi anglosassoni. Anche musulmani che non lo conoscono. E ho il piacere di superare i soliti pregiudizi nei confronti degli arabi”. Poi, un giorno, un’altra svolta nella vita di Maha: “Diversi utenti italiani mi chiedevano lezioni nella loro lingua”. È la nuova sfida. Il 30 novembre 2009 ha pubblicato la prima lezione in italiano, sull’alfabeto arabo. Pochi giorni dopo ha confezionato il video che sarebbe diventato quello dei record, “Merry Christmas in arabic”, oltre 750mila contatti. Per realizzarlo, è bastata una piccola telecamera, una lavagna, luce favorevole e un buon programma di montaggio. “La maggior parte delle clip le faccio da sola, a volte mi riprende Luca”.

Negli ultimi mesi i suoi studenti online sono arrivati a quota 7.400 iscritti al canale: “Ho aperto un profilo Facebook, per avere un feedback con loro, facendomi conoscere anche nella vita privata. Mi mandano i compiti, scambiamo foto e musica”. Ma quello di Maha è davvero diventato un lavoro. Tanto che, oltre ai canali come Youtube e Facebook è possibile trovarla sulla piattaforma “eduFire”, social network di e-learning. Diffuso soprattutto negli States, mette in contatto studenti e tutor, permettendo lezioni private a costi modici. Come risulta dalla sua pagina personale nel network, le tariffe di Maha sono di 15 dollari per 30 minuti di lezione di arabo, 25 per un’ora di arabo ed ebraico. “È uno strumento usato per lo più da adulti che vogliono imparare nuove lingue senza spostarsi da casa”, spiega. E sono tante ormai e piattaforme che propongono questo tipo di scambio linguistico e culturale, come “Livemocha”, “Myngle” oppure “Guavatalk”, dedicato all’insegnamento del cinese. “Sono canali attraverso cui è facile trovare un madre lingua, vedere il suo volto, i commenti di altri studenti. In America ci sono tanti bambini che ormai studiano da casa, via internet, con piattaforme organizzate direttamente dalle scuole”.


Maha è contenta del suo progetto, lavora, si aggiorna. Sogna di imparare dieci lingue. E magari magari condividere saperi sul web. “Credo che l’e-learning e internet in generale siano uno strumento ideale per lo scambio culturale-linguistico. Sono il futuro. E la cosa più bella è che puoi contemporaneamente insegnare a Geoffrey, un bambino americano di 9 anni, e a Corrado, un signore italiano di 70 anni”.

di Ilaria Leccardi e Mauro Ravarino, da Terre di Mezzo di giugno

sabato 5 giugno 2010

Casalbagliano: il castello perduto

È lì, alle porte della città, un rudere inascoltato. Il grande parco qualche anno fa è stato ripulito e recintato, per impedire l’accesso. Le sue mura si consumano di anno in anno e nessuno sa quale potrà essere il futuro. Una sola certezza: se riuscirà a sopravvivere di certo non sarà semplice.

Il Castello di Casalbagliano, frazione a sud di Alessandria, ha una lunga storia che qualche cittadino ancora porta nella memoria. “Mia suocera è nata qui, proprio nella casa di fianco al Castello”, spiega un abitante del paese. “Ora ha più di novant’anni, ma quando era giovane ha visto cosa c’era all’interno di questa residenza. Statue, dipinti. E poi si facevano feste e balli. Addirittura si dice che ci fosse un tunnel che dal Castello portava fino al paese successivo, Villa del Foro. Oggi invece non c’è più nulla. È stato tutto lasciato andare...”.

La struttura è imponente, la si può ammirare percorrendo la strada che dal quartiere Cristo porta fuori città. Impossibile non vederlo, non stupirsi del suo stato di abbandono. L’elemento più evidente, e anche il più antico, è l’alta torre duecentesca, sulla quale è cresciuto un albero, e attorno a cui nei secoli successivi sono state costruite le mura merlate. “Proprio per quel caratteristico albero c’è anche stato chi, come l’architetto alessandrino Mario Mantelli, ha definito quella di Casalbagliano “torre chiomata”, come la Torre Guinigi di Lucca”. Il professor Egidio Lapenta, docente di lettere all’Istituto Saluzzo Plana di Alessandria, è quasi commosso nel ricordo. È una delle persone che alla fine degli anni Novanta cercarono di riportare l’attenzione della città sul monumento. “Il mio interesse è legato a ricordi di adolescenza. Nella mia classe studiava una ragazza che abitava a Casalbagliano e già allora il Castello non era in buone condizioni, ma adesso è tutto peggiorato”.

Abitata fino all’inizio dell’Ottocento dai Bagliani, la dimora passa poi agli Inviziati, quindi ai Petitti di Roreto e infine ai Paravicini, che vi risiedono fino agli inizi del Novecento. Divenuta ospedale militare durante la prima guerra mondiale, negli anni Trenta la villa è sede del comando fascista. All’inizio degli anni Settanta è acquistata dal Comune di Alessandria, per un restauro che non avverrà mai.

Negli anni ci sono stati lenti logoramenti e crolli, come quello del 1°
febbraio 1998 alle 18: un boato e la caduta di una parte della facciata. “Proprio pochi giorni dopo, il 14 febbraio, nacque il Comitato Amici del Castello, che fondai assieme a Don Nicola, il parroco del paese, a uno dei discenti della famiglia Bagliani e al geometra Giancarlo Guazzotti, oggi scomparso, che diede anima e corpo per questa vicenda”, ricorda ancora Lapenta. “Il Comitato di per sé non ha mai funzionato veramente, ma grazie al supporto tecnico dell’associazione Città Nuova ha
attuato iniziative di sensibilizzazione: una cartolina con l’immagine del Castello, assemblee con la cittadinanza e una mostra inaugurata dall’allora assessore alla Cultura. In quegli anni eravamo convinti di riuscire a fare qualcosa per il recupero
di questo bene. La Regione si disse disponibile a offrire un sostegno a condizione che ci fosse ad Alessandria la volontà politica di portare avanti il progetto. Volontà che evidentemente non esisteva”.

Antonio Tortorici, oggi come nel 1998 presidente della Circoscrizione Sud di Alessandria, ha seguito a lungo la vicenda. “Ci siamo confrontati più volte per cercare di sensibilizzare la cittadinanza. Lo stesso Guazzotti aveva fatto una ricerca che nel 2001 sfociò in un opuscolo sul Castello e nella proposta di un intervento che prevedeva la realizzazione di un osservatorio astronomico sulla torre e avrebbe dovuto attingere ai fondi europei”. Ma nulla se ne fece. Anzi, tra il 2002 e il 2003 la Soprintendenza ai Beni Culturali dichiarò “rudere” il complesso, rendendolo di fatto irrecuperabile, e considerando solo la torre bene di interesse storico-artistico.

“È incredibile come Alessandria si dimentichi delle sue bellezze”, commenta ancora Lapenta. “Si narra che nel parco del castello crescessero oltre 400 tipi di rose. E al suo interno erano conservate opere di artisti locali come il pittore Francesco Mensi e lo scultore Carlo Caniggia. Tutte scomparse, saccheggiate”. Eppure è notevole il valore storico della struttura. Della torre innanzitutto che, come quella di Masio o quella di Teodolinda a Marengo, fa parte del complesso di torri di avvistamento costruite nel XIII secolo; e che fu al centro di episodi storici.

“L’unico risultato che finora abbiamo ottenuto è stata l’illuminazione del Castello”, continua Tortorici. “In Comune giace da tempo il progetto per il recupero del piazzale antistante, ma non ci sono i fondi. Il primo passo dovrebbe proprio essere l’intervento sul piazzale, quindi si potrebbe pensare al recupero almeno della torre, cercando di coinvolgere vari enti pubblici. Personalmente sono sempre stato molto legato a questa testimonianza della storia alessandrina e non voglio che scompaia”.

Proprio al presidente della Circoscrizione Sud la sezione alessandrina di Italia Nostra fa appello per provare a riaprire il caso Casalbagliano. “Siamo sicuramente disponibili a partecipare a un incontro”, spiega Enzio Notti, responsabile di Italia Nostra Alessandria, che era assessore negli anni in cui il Castello fu acquisito dal Comune. “Pensiamo che si possa recuperare per attività culturali sul territorio. È una risorsa per il quartiere Cristo e tutta la zona sud di Alessandria”.

Difficilmente invece si farà coinvolgere in qualche nuova iniziativa il professor Lapenta, che ammette di aver distrutto gran parte del materiale raccolto negli anni. “Spero che si riesca a fare qualcosa, ma è già tanto se si riuscirà a salvare la torre. E io preferisco non essere più coinvolto personalmente. Purtroppo Alessandria non è una città che meriti qualcosa. Credo che l’ostacolo più grande che il recupero del Castello ha trovato sia stata l’insensibilità dei cittadini. In politici e istituzioni a volte si riscontrano interesse e attenzione. Ma la cittadinanza spesso non si accorge dei patrimoni della la nostra città, oppure non è interessata a tenerli in vita”.

di Ilaria Leccardi da Piemonte Mese di giugno

venerdì 4 giugno 2010

Angela Lano racconta la vergogna di Israele

La nostra Angela è tornata! Allo sbarco di Malpensa ha dovuto subire l'assalto dei numerosissimi giornalisti. Stanchezza, rabbia, dolore, angoscia non hanno bloccato la grande giornalista, bensì l'hanno rafforzata.

Il momento più terribile è stato l'assalto: "Erano decine e decine di mostri che, dai canotti, salivano a frotte sulla nave. Sparavano, urlavano, si sono lanciati contro tutti noi. Abbiamo cercato di proteggere il capitano, ma i loro taser ci hanno bloccato. Avevano i volti coperti, le teste protette dai caschi e con questi colpivano le fronti di chi si avvicinava loro. A bordo abbiamo avuto molti feriti. I cameraman sono stati aggrediti durante le riprese. In quel momento hanno sequestrato tutte le telecamere e le macchine fotografiche. Vedevano sulla Marmara un immenso fumo, sentivamo le urla e quegli spari terrificanti, incessanti, mentre gli elicotteri squarciavano i cieli" Angela ha voglia di parlare, si concede a tutti. Ciò che prova è il bisogno di denunciare, lei è semplicemente giornalista dentro.
Non ha padroni, né veline passate sotto banco. Prosegue: "dopo questo inferno ci hanno lasciato sotto il sole per 8 ore, tutti prigionieri sul ponte, per portarci ad Ashdod. Uno per uno ci hanno fatto sbarcare trattandoci come terroristi, come i peggiori delinquenti. Accompagnati in una tenda hanno ordinato di spogliarci, poi ci hanno rubato tutto: carte di credito, denaro, cellulari, il mio tesserino di giornalista, la patente. Subito dopo avremmo dovuto firmare una dichiarazione con la quale ci assumevamo la colpa d'aver infranto le loro leggi. A quel punto, tutti noi abbiamo loro urlato con quanto fiato avevamo che loro erano i delinquenti, che loro ci avevano attaccato in acque internazionali, che loro erano bugiardi. La risposta è stata che ci avrebbero imprigionato. Che lo facessero dunque!".

Non prende fiato Angela, a ogni domanda risponde con precisione, non un attimo di esitazione: "Ci hanno trasportato nel carcere israeliano di Beer Sheva, in pieno deserto Negev, luogo ben noto ai prigionieri politici. Alle nostre richieste di telefonare a casa o all'ambasciata, ci hanno risposto che le loro linee erano fuori uso. C'era un solo telefono, ma dovevamo pagare (!) Crudeltà efferata. E' stato questo il dolore più profondo: le nostre famiglie non sapevano se eravamo vivi morti... Per il resto solo rabbia, tanta. Non sono mai stata picchiata, ma i miei connazionali maschi si. Non ero sola in cella, come qualcuno ha scritto, io, cristiana, ero insieme a due donne splendide, una musulmana e un'ebrea americana, unite da un solo obiettivo: il campo di concentramento di Gaza deve finire. Dalle donne, passeggere sulla Marmara, ho potuto capire la disumana mattanza avvenuta sulla nave turca. Hanno visto uomini con buchi in fronte e trivellati di colpi, hanno riferito -e vi prego di indagare su questo- uomini ammanettati gettati in mare. La violenza israeliana non ha risparmiato donne, anziani e bambini. Non c'erano armi a bordo! Conosco chi ha caricato quella nave (l'uomo era accanto a lei ndr). C'erano circa 100 case prefabbricate, depuratori d'acqua, mattoni, utensili da carpenteria, tende per gli sfollati." Ad Angela preme sottolineare: "di quei mostri incappucciati, ho poi avuto modo di vedere i loro volti. Erano tutti poco più che ventenni, è sconvolgente. Mi sono rivolta a loro chiedendo perché questa disumanità, perché questo calpestare i più naturali diritti umani? Sembrano tutti ipnotizzati, hanno subito un pesante lavaggio del cervello, solo così si può spiegare. Perché non si ribellano, come invece tantissimi loro coetanei ebrei, persone straordinarie che sfidano il carcere per protestare fermamente contro quel governo?"

A chi le chiede come ha reagito sentendo che l'Italia ha votato contro l'inchiesta internazionale, Angela stringe i denti. E' un gesto sconsiderato, è umiliazione di fronte al mondo intero che si sta attivando, questa volta seriamente, contro gli atti criminali perpetrati da Israele, in spregio a tutte le convenzioni, le risoluzioni, i patti, la carta dei diritti umani planetari. Il mondo ora non è più disposto a soprassedere su questa vergogna. "Sono sconfortata -prosegue- per non dire peggio". Ringrazia inoltre la cortesia della Turchia che si è prodigata straordinariamente per mettere a loro disposizione tre aerei dotati di tutti i confort. Sorride pensando che è stata la prima volta che viaggiava in prima classe, servita e riverita come una regina. A Tel Aviv hanno dovuto attendere 12 ore a bordo, per subire l'ultima vessazione israeliana che imbarcava i prigionieri uno a uno con tempi lunghissimi. Per dieci anni il poliziotto le ha detto che non potrà più mettere piede in Israele. Gli ha riso in faccia. Presto tornerà in Palestina, ma passando da qualunque altra parte. Quella terra, ora, le può ricordare solo il male.

Ci saluta sorridente, sventolando la sua sportina del supermercato: l'unica borsetta che per ora possiede. Invita caldamente a non considerarla eroe che non le calza proprio. Ha solo fatto il suo mestiere e oggi, più che mai, è convinta d'averlo fatto nell'unico modo possibile. Concordiamo.

di Nadia Redoglia da Nuovasocietà

martedì 1 giugno 2010

Spedizione Freedom Flotilla: è massacro

E' ormai chiaro a tutto il mondo che Israele può agire impunemente, ignorando la carta universale dei diritti umani e qualunque trattato internazionale.

E' la nona volta che il movimento Free Gaza cerca di portare aiuti umanitari, via mare. La prima spedizione ad agosto 2008. Quella in corso, "Freedom Flotilla" per numeri e contenuti (partecipano 40 paesi), è la più massiccia. In un primo tempo Israele promise che dopo le perquisizioni del caso, avrebbe permesso tramite i corridoi da lei predisposti, l'accesso alla striscia per consegnare gli aiuti. Le sei navi, 700 partecipanti, hanno imbarcato almeno 10mila tonnellate tra cibo, medicinali, utensili di prima necessità, cemento, ma anche sedie a rotelle. Per il cemento, riferiva Israele, sarebbe stato permesso solo se subordinato a specifica utilità.

Invece nulla di tutto questo. Alla stregua del peggior atto di pirateria, la marina israeliana, stanotte verso le 4, ha attaccato. A bordo della Marmara, battente bandiera turca ha massacrato e ferito decine di occupanti. Altri feriti si contano a bordo delle altre imbarcazioni. Solo verso le 6 di stamani le notizie sono cominciate a filtrare, in un primo tempo negate da Israele che ha operato, come sua abitudine, con una vera e propria censura stampa. Da fonti militari le vittime potrebbero essere 19 o più. Dopo di che ha abbordato le altre navi, tra queste la "8000", a bordo della quale ci sono anche italiani (Angela Lano, torinese, direttrice agenzia stampa Infopal.it ,e che ha collaborato anche con il nostro giornale, Joe Fallisi, Manolo Luppichini, regista e reporter, Manuel Zani, freelance, Fernando Rossi, ex senatore della Repubblica, Monia Benini, presidente Per il Bene Comune). Gli israeliani hanno poi assunto il comando di tutte le navi, isolando tutti gli strumenti di comunicazione. In questo momento possiamo considerare, non avendo più informazioni d'alcun genere, tutti gli occupanti della spedizione, in stato di sequestro. Le ambasciate stesse non sono in grado di fornire aggiornamenti. L'ultimo contatto satellitare di Angela Lano coi familiari, è stato questa notte intorno alle 2, ora italiana. Dopo di che più nulla. Il comandante della "8000" pare sia ferito, si spera non gravemente, ma non intende essere trasportato in ospedale israeliano.

Su questo ennesimo crimine contro l'umanità a opera israeliana, per ora si sono espressi solo Grecia Turchia e Spagna. Gli altri paesi tacciono. La comunità europea butta là una timida proposta di indire una commissione.

La "Freedom Flotilla" ci dimostra cos'è un'autentica "missione di pace", ma di questa i media, disumanamente, se ne fregano. Anche questa volta, come per lo sterminio palestinese "piombo fuso", troveremo il modo per assolvere Israele in quanto ha solo agito per difesa legittima?

un articolo di Nadia Redoglia da Nuovasocietà