martedì 20 luglio 2010

Uralita condannata, sentenza storica in Spagna

La lotta giudiziaria all'amianto continua, non solo in Italia. Dalla Spagna arriva notizia di una sentenza storica, che condanna la Uralita (dal 1959 partecipata Etrnit) a risarcire gli abitanti dei paesi di Cerdanyola e Ripollet, comuni vicino a Barcellona, tra i quali aveva sede la fabbrica. Asbestosi, mesoteliomi, danno morale: ecco l'articolo dal quotidiano iberico El País, del 14 luglio 2010

Il tribunale di Madrid ha condannato Uralita a indennizzare con 3.918.594,64 euro un gruppo di abitanti di Cerdanyola e Ripollet (Barcellona) per i danni derivati dall'esposizione alla polvere di amianto generata dalla fabbrica che l'azienda aveva tra le due località. I danneggiati da parte loro richiedevano 5.414.139,54 euro.

La sentenza è storica per la Spagna. E' la prima volta infatti che coloro che chiedono i danni non sono lavoratori della fabbrica, ma 47 abitanti che vivevano nei pressi e che, secondo la sentenza, soffrono di malattie prodotte dal contatto avuto direttamente con l'amianto che utilizzava la Uralita per fabbricare i suoi materiali. Di questi 47 abitanti, sono stati 45 coloro che hanno ottenuto sentenza favorevole.

Il Tribunale di Primo Grado numero 46 di Madrid ha considerato come "è chiaro" che la causa delle malattie dei richiedenti, o dei loro familiari morti, è l'attività industriale portata avanti dal 1907 nella fabbrica di Uralita, situata tra Cerdanyola e Ripollet, municipi dove i malati hanno risieduto per decenni.

Secondo la sentenza, i mezzi di trasmissione che hanno causato le malattie vanno dalle emissioni della fabbrica in forma di polvere di amianto, alla manipolazione dei vestiti dei lavoratori da parte dei familiari nelle rispettive case, alla contaminazione derivata dalla degradazione dei depositi dei residui derivati dalla stessa attività industriale.

"La sentenza è storica. Siamo molto contenti. Non si tratta dei soldi, ma del riconoscimento: la Uralita ha contaminato tutto quello che avevamo attorno a noi", ha commentato Jesús Ferrare, membro della Asociación de Afectados por el Amianto, che ha assistito al processo di Madrid in rappresentazione dei malati. I compensi economici, ha detto, spero che servano almeno "per far fare ai malati, che non si possono curare, la vita più comoda possibile considerando i loro problemi". Sulle due persone per cui la sentenza non è stata favorevole questa settimana si riuniranno con i propri avvocati, per studiare se presentare ricorso. "Sappiamo che Uralita farà ricorso. Però almeno abbiamo aperto una via. Speriamo che tutti i malati si rendano conto, grazie alla sentenza, che, per quanto grande sia Uralita, si può vincere". Per ora Uralita non rilascia dichiarazioni. L'impresa sta analizzando la sentenza.

La lista degli indennizzi è lunga. Sono 45 i malati a cui è stata riconosciuto che l'infermità è legata all'amianto e il giudice ha accordato compensi che vanno da 43mila euro a 470mila euro. I malati soffrono per lo più di placche pleuriche, che possono provocare problemi respiratori che limitano le attività del malato. Alla maggioranza è stato riconosciuto il danno morale, che gli avvocati hanno chiesto, trattandosi di malattie incurabili e che peggiorano nel tempo. I compensi economici più alti vanno a chi soffre di lesioni polmonari già in fase avanzata, e che obbligano i malati, per esempio, a usare bombole di ossigeno per respirare, così come a chi soffre dell'incurabile mesotelioma.

Durante il processo, la Uralita ha riconosciuto che negli anni Settanta spargeva residui di fabbricazione e tubi di fibrocemento per le strade non ancora asfaltate. Con la pioggia, il materiale si compattava per le strade. I malati hanno spiegato di non aver mai creduto che fosse pericoloso e per questo, essendo bambini, giocavano con i resti del materiale tossico.

domenica 18 luglio 2010

Guariniello invitato in Brasile
Là come a Casale 30 anni fa

articolo di Silvana Mossano, da La Stampa del 17 luglio 2010

C’è chi dice che si esagera a continuare a parlare di amianto. Che troppo si è detto e che l’argomento non "tira" più. Costoro sono sicuramente dei fortunati perché non hanno mai visto da vicino un loro amico o un famigliare soffrire, prima ancora che per gli effetti della malattia, per il terrore gelido nel momento in cui viene comunicata la diagnosi. E sono altresì degli invidiabili ottimisti perché sono certi che non ne verranno mai sfiorati. Costoro, ad esempio, ritengono che, grazie alla legge del ‘92 che vieta l’amianto in Italia, il problema sia stato cancellato dalla faccia della Terra. Invece, i suoi tentacoli mortali sono ancora in agguato e continueranno a tormentare cittadini ignari fino a quando dei ricercatori capaci, con il sostegno di adeguate risorse finanziarie, non troveranno una cura per "sfangarla".

Costoro forse si illudono che l’amianto sia confinato a Casale? In centinaia di città per 80 anni sono state vendute migliaia di tonnellate di tetti e tubi di "eternit" che, a dispetto del nome, non sono eterni, invecchiando si sfaldano. Costoro non vogliono credere che, come è scientificamente provato, il mesotelioma "ti piglia" anche se hai respirato una sola fibra e non serve prolungata esposizione (come è, invece, per l’asbestosi). Costoro pensano che, smettendo di parlarne, il problema si risolva da sé. Ma non è così.

Lo dimostra un filmato, girato un paio di settimane fa dal documentarista Niccolò Bruna, in Brasile, dove l’estrazione e la lavorazione di amianto è in vigore come in altri luoghi del mondo. Là, ora, prevalgono le identiche argomentazioni che, qui, 30-40 anni fa, erano il "vangelo" delle lobby amiantifere. Gli "ingegneri dell’immagine", quelli che sanno come far passare messaggi rassicuranti (consigliando anche di togliere i manifesti da morto fuori dallo stabilimento… meglio non vedere), continuano a fare con diligenza il loro mestiere celando i pericoli ed evidenziando i benefici. Così, non i produttori, ma i loro operai, i medici, i sindacalisti intervistati da Niccolò Bruna dichiarano l’orgoglio di lavorare per l’Eternit, di vivere nella città di Minaçu, nata nel ‘67 nel bacino di una cava di amianto a cielo aperto, 33 mila abitanti come Casale, di ricavare dalla fabbrica benessere e progresso tanto da desiderare, come massima aspirazione, che "mio figlio, da grande, scelga di lavorare qui". Sono tranquilli perché sono stati persuasi che "la lavorazione dell’amianto, adesso, è sicura; il pericolo c’era sì, ma in passato".

Uguale frase veniva dichiarata pubblicamente dai dirigenti Eternit 30 anni fa: i giornali lo documentano. I manuali, a uso interno dei vertici, e i verbali con le strategie di immagine predisposte dai professionisti di public relations, e che il pm Guariniello di Torino ha sequestrato, lo confermano. A instillare il dubbio nelle ferree convinzioni brasiliane proverà una delegazione di casalesi, tra cui Bruno Pesce e Nicola Pondrano, in un viaggio laggiù a fine agosto. E la Federazione nazionale dei procuratori della Repubblica del Brasile che si occupano di cause di lavoro ha invitato espressamente anche il pm Guariniello.

Non se n’è parlato troppo di amianto. Non abbastanza. È lodevolissimo, quindi, che una giovane casalese, Eleonora Cortello, nella tesi con cui si è laureata nei giorni scorsi in Giurisprudenza ad Alessandria, dal titolo "La sorveglianza sanitaria sul luogo di lavoro", abbia voluto dedicare un capitolo al "Caso Eternit. Un esempio emblematico". E si continuerà a parlarne, al processo di Torino. Lunedì, all’ultima udienza prima della pausa estiva, i testimoni chiamati dall’avvocato di parte civile Sergio Bonetto sono: Italo Busto, fratello di Piercarlo, morto a 33 anni di mesotelioma (atleta, correva alla pista attigua all’Eternit), Vittorio Giordano, di Legambiente che, insieme a Luisa Minazzi e altri ambientalisti, ha condotto strenue battaglie, Alberto Deambrogio, che interviene per conto dell’Associazione italiana esposti amianto.

martedì 6 luglio 2010

Processo Eternit: in aula Thomas Schmidheiny

Il settore amianto è sempre stato appannaggio di Stephan Schmidheiny. Lo ha confermato il fratello Thomas, sentito oggi al processo Eternit di Torino come persona informata sui fatti. La suddivisione dei compiti è stata un fatto naturale, perché i settori sono sempre stati distinti, ha spiegato, da circa un secolo.

Thomas, che si è sempre occupato di cemento, ha detto che alla fine degli anni Sessanta primi anni Settanta, i due fratelli iniziarono un periodo di formazione nella aziende di famiglia, lui in Perù nel settore del cemento, il fratello in Brasile e in Africa per il cemento-amianto. E da metà degli Anni Settanta entrambi assunsero responsabilità di vertice ognuno nel proprio campo, inizialmente insieme al padre Max poi in modo via via sempre più autonomo fino a quando – nel 1984 – il papà si ritira dal lavoro.

Altri importanti elementi sono emersi dalla deposizione di Leodegar Mittelholzer, ex manager Eternit che è entrato nel gruppo nel 1979 e ha gestito la fase conclusiva, quella della amministrazione controllata prima e del fallimento poi. Paradossalmente è proprio nel 1984, quando l'attività di Eternit è ormai residuale e si sta concludendo, che Eternit redige "Il manuale di sicurezza". Viene spontaneo chiedersi: perché si è atteso quando ormai Eternit era a un passo dal fallimento? Forse perché a quel punto era come un libro dei sogni?

Gli avvocati della difesa hanno poi sottolineato che negli ultimi dieci anni vi furono 10-15 miliardi di lire di investimenti sull'ambiente di lavoro, ma poi - a una domanda precisa della Procura - Mittelholzer ha risposto confermando quanto detto in un processo già concluso a Siracusa e cioè che gli investimenti riguardavano la sostituzione di filtri rotti. Quindici miliardi di lire – 7,5 milioni di euro – in filtri rotti? Ridicolo...

Dalla deposizione di Mittelholzer è comunque emerso che il "Numero 1", "il proprietario" della holding amianto, del settore asbesto, insomma, era proprio Stephan Schmidheiny. Altro fatto estremamente importante: nel 1979 quando fu assunto gli fu detto chiaramente che c'era un "rischio amianto" e che consisteva in tre patologie: asbestosi, tumore al polmone e mesotelioma. Informazioni, ha precisato, che erano a disposizione di tutti i manager di Eternit. E, inoltre, che fin dal 1976 Stephan Schmidheiny si mostrava consapevole del rischio e che mirava a sostituire l'amianto con fibre alternative non pericolose. Sostituzione che non avvenne però mai - sostanzialmente - per una questioni di costi e perché Eternit non avrebbe retto il confronto con la concorrenza.

Ultimo teste Luigi Antoniani, classe 1928, con l'asbestosi dal 1975, a lungo nel consiglio di fabbrica, che tra tante esperienze ha ricordato la visita di un azionista belga con il quale gli operai chiedevano un incontro da tempo. Li ricevette nel suo ufficio durante una riunione e li maltrattò, prima dicendo di attendere e poi cacciandoli senza dar loro modo di parlare. Poi andò ai magazzini e vendendo alcune lavoratrici in attesa di iniziare il proprio turno, probabilmente ritenendole fannullone perché in quel momento erano sedute le fece licenziare in tronco.

articolo di Massimiliano Francia, dal sito de Il Monferrato del 5 luglio 2010

sabato 3 luglio 2010

Mantova, morti del petrolchimico
Dodici manager a processo

Il giudice per le udienze preliminari di Mantova ha prosciolto solo tre dirigenti. La prima udienza è stata fissata per l11 gennaio 2011

Il giudice per le udienze preliminari di Mantova ha rinviato a giudizio 12 dei 15 imputati per le morti all'ex Montedison di Mantova. Prosciolti soltanto tre dirigenti, Gianfranco Antonioli, Giovanni Puerari e Alvise Conciato, che all'epoca dei fatti erano responsabili di società non collegate con la struttura produttiva di Mantova. La prima udienza del processo, che dovrà far chiarezza sulle morti di 71 operai avvenute nel petrolchimico tra gli anni '80 e '90 per l'esposizione a sostanze cancerogene come benzene e amianto, è stata fissata per l'11 gennaio 2011.

I dodici imputati dovranno rispondere di omicidio colposo e di omissione volontaria di cautele per prevenire infortuni sul lavoro. Compariranno in tribunale: Giorgio Porta, Amleto Cirocco, Gaetano Fabbri, Gianni Paglia, Francesco Ziglioli, Sergio Schena, Giorgio Mazzanti, Pier Giorgio Gatti, Paolo Morrione, Riccardo Rotti, Andrea Mattiussi e Gianluigi Diaz.

L'udienza preliminare davanti al Gup Dario De Luca ha coinvolto quindici tra manager e direttori di stabilimento del Petrolchimico di Mantova. L'accusa, formulata dai pm Giulio Tamburini e Marco Martani, dopo un'indagine durata nove anni, è di omicidio colposo, lesioni gravissime colpose e omissione dolosa di cautele sugli infortuni. Sarebbero i presunti responsabili della morte per tumore, dovuta all'esposizione ad amianto e benzene, di decine di lavoratori, tra il 1970 e il 1989 nello stabilimento di Mantova.

Si sono costituiti parte civile il Comune di Mantova, la Regione Lombardia, i sindacati e alcune organizzazioni ambientaliste, oltre ai famigliari delle vittime, che durante le udienze sono rimasti collegati in video conferenza con la Corte di Assise dall'aula magna dell'università.

UN'INCHIESTA DURATA NOVE ANNI
All'inizio sono state esaminate oltre 200 cartelle cliniche di operai mantovani morti per varie forme tumorali. Poi la Procura, sulla scorta delle consulenze mediche, ha ristretto l'attenzione su 71 casi, sui quali c'era un nesso tra l'esposizione ai veleni e la malattia. Operai uccisi da benzene, stirene, benzene e amianto, i veleni lavorati dallo stabilimento Montedison. Gli imputati del processo, vertici delle società che si sono alternate alla guida dello stabilimento del Frassino tra gli anni '70 e '80, dovranno rispondere della morte di 71 persone.

I lavoratori del petrolchimico sono morti di mesotelioma, tumore tipico da esposizione all'amianto, di leucemie, cancro al polmone e al pancreas, associabili invece a benzene e stirene. In otto anni di lavoro, sentiti decine di testimoni e vagliate migliaia di documenti, la Procura ha ricostruito minuziosamente la storia aziendale di ognuno dei lavoratori, gli spostamenti nei reparti e le lavorazioni con cui sono entrati a contatto.

Di qui il fiume di accuse ai responsabili di stabilimento e ai presidenti e amministratori delle società che lo dirigevano. Tutti responsabili, secondo i magistrati, di conoscere la pericolosità delle lavorazioni e di non aver fatto interventi per evitare le tragiche conseguenze sui lavoratori. Il giudice delle udienze preliminari ha ritenuto fondate le accuse ha deciso di rinviare a giudizio dodici dei quindici imputati. Dovranno rispondere di omicidio colposo e omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro.

dal sito de La Gazzetta di Mantova