venerdì 4 luglio 2008

Una lista infinita. I morti sul lavoro nei primi 6 mesi del 2008

Una lista macabra, per certi versi potrebbe sembrare cinica. Ma significativa. Numeri, luoghi e date. Più di una guerra. 185 persone, senza contare quelle che hanno perso la vita nei primi giorni di luglio

Giugno (33)
30 - 1 morto a Afragola (Na)
29 - 1 morto a Bellaccio (Como)
- 1 morto a Cesena
- 1 morto a Lugnano in Teverina (Viterbo)
28 - 1 morto a Massrosa (Lucca)
- 1 morto a L'Aquila
26 - 1 morto a a Scarlino (Grosseto)
25 - 1 morto a Cogne (Aosta)
- 1 morto a San Giovanni in Fiore (Cosenza)
24 - 1 morto a Bolzano
- 1 morto a Civitavecchia
23 - 1 morto a Tortoli (Nuoro)
21 - 1 morto a Menfi (Agrigento)
18 - 1 morto a Oggiona Santo Stefano (Varese)
- 1 morto a Trevigiano (Treviso)
15 - 1 morto a Costa Canile (Cuneo)
13 - 1 morto a Donori (Cagliari)
- 1 morto a Termini Imerese (Palermo)
- 1 morto a Settimo Milanese
11 - 6 morti a Mineo (Catania)
- 1 morto a Orani (Nuoro)
- 1 morto a San Salvatore Monferrato (Alessandria)
- 1 morto a Modena
10 - 1 morto a Imperia
9 - 1 morto a Campo Calabro (Reggio CAlabria)
7 - 1 morto a Prato
- 1 morto a Francavilla al Mare (Chieti)
4 - 1 morto a Jesi (Ancona)

Maggio (30)
29 - 1 morto a Vicenza
- 1 morto a San Marcello (Ancona)
- 1 morto a Bergamo
- 1 morto a Trento
- 1 morto a Sanremo
28 - 1 morto a Udine
27 - 1 morto a Tordanadrea di Assisi (Perugia)
- 1 morto a Ragusa
- 1 morto a Locorotondo (Bari)
23 - 1 morto a Chiaravalle Gubbio (Perugia)
- 1 morto a Ciaravalle (Ancona)
22 - 1 morto a Bolzano
21 - 1 morto a Ceprano (Frosinona)
20 - 1 morto a Casalmaggiore (Cremona)
19 - 1 morto a Oggiono (Lecco)
- 1 morto a San Lucido (Cosenza)
16 - 1 morto a Piombino
13 - 1 morto a Lamezia Terme
- 1 morto a Palermo
11 - 1 morto a Catania
10 - 1 morto a Cornedo Vicentino (Vicenza)
- 1 morto a Montecchio Maggiore (Vicenza)
- 1 morto a Monopoli (Bari)
- 1 morto a Ovada (Alessandria)
9 - 1 morto a Piacenza
7 - 1 morto a Cascina Risaie di Villareggia (Torino)
5 - 1 morto a Roma
- 1 morto ad Asti
3 - 1 morto a Catania
- 1 morto a Monopoli (Bari)

Aprile (31)
29 - 1 morto a Miglianico (Chieti(
- 1 morto a Reggio Emilia
24 - 1 morto a Lecco
23 - 1 morto a Roma
- 1 morto a Modena
- 1 morto a Sondrio
22 - 1 morto a Ferrara
- 2 morti a Padova
- 1 morto a Costa Masnaga (Lc)
- 1 morto a Taranto
- 1 morto a Villa Santo Stefano
19 - 1 morto ad Agrate Brianza (Monza)
18 - 1 morto a Legnano
17 - 1 morto a Custonaci (Trapani)
16 - 2 morti a Cornate d'Adda (Milano)
13 - 1 morto a Terni
12 - 1 morto a Basilicagoiano (Parma)
- 1 morto a Treviso
- 1 morto a Castelbelforte Mantova
10 - 1 morto a Ferrara
- 1 morto a Sant'Antonio Abate (NApoli)
9 - 1 morto a Busto Arsizio (Varese)
- 1 morto a Monselice (Padova)
- 1 morto a Portovesme (Cagliari)
8 - 1 morto a Cagliari
7 - 1 morto a Oristano
6 - 1 morto a Verona
2 - 1 morto a Roma
- 1 morto a Pietrabbondante (Isernia)

Marzo (19)
31 - 1 morto a Napoli
- 1 morto a Vestenanova (verona)
- 1 morto a Teramo
- 1 morto a Caserta
26 - 1 morto a Melfi (Po)
20 - 1 morto a Sesto SAn Giovanni (MIlano)
- 1 morto a Tronto (Ascoli Piceno)
12 - 1 morto a Lentini (Belluno)
11 - 1 morto a Chiavasso (Torino)
10 - 1 morto a Verona
- 1 morto a None (Torino)
8 - 1 morto a Lizzanello (Lecce)
6 - 1 morto a Cerano (Novara)
- 1 morto a Milano
4 - 5 morti a Molfetta

Febbraio (38)
28 - 1 morto a Nocera Umbra (Perugia)
- 1 morto a Genova
27 - 1 morto a Migliara (Latina)
- 1 morto a Candelo (Biella)
25 - 1 morto a Siderno (Reggio Calabria)
23 - 1 morto a Borgoricco /Padova)
21 - 1 morto a Cupello (Chieti)
20 - 1 morto a Cesio MAggiore (Belluno)
- 1 morto a Misano (Rimini)
19 - 1 morto a Catania
- 1 morto a Biella
17 - 1 morto a Busano (torino)
- 1 morto a Sant'Agata dei Goti (Benevento)
16 - 1 morto a Travagliato (Brescia)
- 1 morto a Campobello di Mazara (Trapani)
14 - 1 morto a Enna
- 1 morto a Spinadesco (Cremona)
- 1 morto a Firenze
13 - 1 morto a Lutrano di Fontanelle (Treviso)
- 1 morto a Reda (Faenza)
- 1 morto a Raffadali (Agrigento)
12 - 1 morto a Torino
- 1 morto a Guidonia
11 - 1 morto a Salemi (Trapani)
- 1 morto a Falettis di Bicinicco (Udine)
- 1 morto a Orte (Viterbo)
10 - 1 morto a None (Torino)
9 - 1 morto a Roma
7 - 1 morto a Pratola Serra (Avellino)
- 1 morto a San Martino di Lupari (Padova)
6 - 4 morti a Castiglione in Teverina (Terni)
5 - 1 morto a Genova
- 1 morto a Ferrara
2 - 1 morto a Novafeltria (pesaro)
2 - 1 morto a San Giacomi di Guastalla (Reggio Emilia)

Gennaio (34)
31 - 1 morto a Messina
28 - 1 morto a Toscanella di Dozza (Bologna)
- 1 morto a Napoli
26 - 1 morto a Torbole Casaglia (Brescia)
25 - 1 morto a Venezia
24 - 1 morto a Val Bormida (Savona)
- 1 morto a Sommariva del Bosco (Cuneo)
- 1 morto a Vazzola (Treviso)
23 - 1 morto a Custonaci (Trapani)
- 1 morto a Ragusa
22 - 1 morto a Bolzano
21 - 1 morto a Contrada Terrepupi Ragusa)
20 - 1 morto a Castel Bolognese (Ravenna)
18 - 2 morti a Venezia
17 - 1 morto a Cosenza
16 - 1 morto a San Guovanni in Marignano (Rimini)
- 1 morto a Rosolini (Ragusa)
- 1 morto a Castelgomberto (Vicenza)
15 - 1 morto a Firenze
14 - 1 morto a Sassari
11 - 1 morto a San Giorgio di Nagaro (Udine)
- 1 morto a Cuneo
9 - 1 morto a Catania
8 - 1 morto a Leverano (Lecce)
7 - 1 morto a Peschiera Borromeo (Milano)
- 1 morto a Massa Marittima (Grosseto)
- 1 morto a Varese (Milano)
5 - 1 morto a Porzano di Leno (Brescia)
4 - 1 morto a Gissi (Chieti)
- 1 morto a Treviso
3 - 1 morto a Tito (Potenza)
2 - 1 morto a Torino
1 - 1 morto a Treviso

sabato 28 giugno 2008

Morti sul lavoro: una marcia senza fine

La marcia non si ferma. Il primo viaggio per l’Italia della Rete per la sicurezza nei posti di lavoro è arrivato a Roma, ma è già pronto a ripartire. A settembre, la Rete lancerà, infatti, uno sciopero rivolto a tutte le categorie. In piazza Barberini, venerdì 20 giugno, si è ritrovato un mondo che si batte per un lavoro più sicuro: operai e migranti insieme per una battaglia di diritti e giustizia.

Sotto la sede del ministero del Welfare si è svolta un’assemblea pubblica a cui hanno partecipato lavoratori provenienti da tutta Italia: dalla Thyssen di Torino all’Ilva di Taranto, dal petrolchimico di Marghera ai cantieri navali di Palermo, passando per il porto di Ravenna e la Dalmine di Bergamo. Tutte realtà in “emergenza”, che ormai quasi da un anno hanno dato vita alla Rete. Nel suo viaggio per la penisola, iniziato lo scorso marzo, la carovana per la sicurezza ha raccolto diverse proposte per integrare il testo unico, «che non va toccato come vuole fare Berlusconi, ma migliorato e applicato». Ed è sulle sanzioni che gli organizzatori premono di più: «I gravi incidenti non sono “contravvenzioni” ma devono essere qualificati come “delitti” – sottolinea Giuseppe Gaglio dell’Istituto Tumori di Milano – e devono essere estesi i reati di omicidio colposo e volontario, così come Guariniello ha ipotizzato per la Thyssen».

Una delegazione è stata ricevuta dal ministro Sacconi, tra le richieste: maggiori risorse per gli ispettorati del lavoro, riconoscimento degli infortuni invalidanti, diritto di cittadinanza per i migranti e più tutele per le donne, che più di altri patiscono gli stress della precarietà. La questione di genere è, infatti, uno dei temi più sentiti dal movimento: «Le donne – spiega Donatella Anello dello Slai Cobas di Palermo - sono tra le principali vittime della precarietà, che talvolta porta a gravi conseguenze sull’apparato riproduttivo, con disturbi mestruali e rischi per la maternità”.

In piazza Barberini c’erano anche le donne migranti che lo scorso 8 marzo con Action “A” hanno dato vita all’occupazione di uno stabile in via Lucio Sestio a Roma. Ventuno donne e 13 bambini che stanno recuperando la struttura dove abitano e dove si tengono corsi di ceramica e di italiano. Tutte hanno lunghe esperienze di lavoro non regolare: «E’ una presa in giro - racconta Milly dal Perù - sembra che oltre al “nero” non ci sia altro e, quindi, non si hanno molte scelte quando alla fine del mese uno deve pagare l’affitto». Serkalem, etiope, dopo anni di «nero» finalmente è stata assunta in una ditta. Infine, Rita, peruviana con due bambini di 6 e 7 anni, fa un paragone con la Spagna: «Vi ho vissuto e lì non c’era questa disuguaglianza tra uno stipendio di una donna e quello di un uomo, in Italia noi prendiamo la metà».

Mauro Ravarino

giovedì 12 giugno 2008

Lavoro, dove osa il Venezuela


Mentre in Italia si fatica ad arrivare alla fine del mese in Venezuela il Presidente Hugo Chavez firma un decreto per l'aumento dei salari minimi del 30%. Il Venezuela sale così al primo posto tra i Paesi dell'America indiolatina er salari minimi, con 372 dollari, anche ai pensionati. Inoltre, come già annuncia in passato, dal 1° maggio del 2010 la giornata lavorativa venezuelana passerà da 8 a 6 ore. E questo anche grazie ai processi di nazionalizazione delle maggiori fonti economiche del Paese come la Banca centrale, i pozzi di petrolio e l'azienda metallurgica SIDOR. Al contrario in Italia il 1° maggio non sappiamo neanche più cosa sia e torniamo indietro, cercando di eliminare il tetto massimo di 48 ore di lavoro settimanali.

Guarda il video del discorso di Chavez

mercoledì 11 giugno 2008

Nuova strage sul lavoro, questa volta in Sicilia.
I morti sono 6, ma 9 oggi in tutta Italia

Come per la Thyssen di Torino, come la Truck Center di Molfetta. Oggi succede ancora, in Sicilia, precisamente a Mineo, paesino di 5700 anime in provincia di Catania. Sei lavoratori morti, mentre stavano ripulendo il filtro di un impianto di depurazione. Quattro erano dipendenti comunali, i loro nomi: Giuseppe Zaccaria, Giovanni Sofia, Giuseppe Palermo e Salvatore Pulici, quest'ultimo lavoratore precario ex art. 23. Gli altri due erano dipendenti di una ditta privata impegnata nei lavori di manutenzione del depuratore, la Carfì di Ragusa.
Ai morti di Mineo se ne devono aggiungere altri 3, vittime del lavoro in diverse parti d'Italia, e un grave incidente occorso ieri sera alla Mercegaglia di Ravenna, dove un operaio di una ditta esterna è rimasto schiacciato da un rotolo di lamiera al centro servizi. Le sue condizioni sono gravi. Gli operai si sono fermati fino alla conclusione del 2° turno in segno di protesta per la mancata osservanza delle norme antinfortunistiche all'interno della fabbrica.
Non ci sono più parole per questo massacro continuo.

venerdì 16 maggio 2008

Lavorare al porto di Ravenna


Il 13 marzo 1987 l’Italia assisteva al più grave incidente sul lavoro del dopoguerra: la strage del cantiere Mecnavi, al porto di Ravenna. Tredici vittime, morte per aver respirato sostanze tossiche sprigionate da un incendio durante i lavori di pulizia nella stiva della nave Elisabetta Montanari. Il Paese scopriva così, incredulo, l’inferno del lavoro portuale, fatto di mansioni logoranti, contratti irregolari e subappalti. Delle tredici vittime otto lavoravano in nero, alcuni erano ragazzi ai primi giorni di servizio.

È partita proprio il 13 marzo di quest’anno, da Ravenna, la carovana contro le morti bianche. Un’idea della Rete per la sicurezza sui posti di lavoro, fondata dallo Slai Cobas di Taranto e dall’associazione 12 giugno che riunisce i familiari delle vittime dell’Ilva. La carovana fino a oggi ha toccato anche altre città, tra cui Bergamo, Palermo, Napoli, Molfetta, ma la scelta di partire da Ravenna non è casuale: luogo simbolo del lavoro assassino, è sede di uno dei maggiori porti commerciali d’Italia, dove gli incidenti colpiscono per lo più giovani senza esperienza.

«Abbiamo iniziato la nostra attività nel settembre 2006, subito dopo la morte di Luca Vertullo –, racconta Enzo Diano, dello Slai Cobas di Ravenna – e quest’anno, in occasione della carovana, abbiamo occupato la sede locale dell’agenzia interinale Intempo». Luca è morto a 22 anni al primo giorno di lavoro. Si trovava sul traghetto Ravenna-Catania, quando è rimasto schiacciato tra due rimorchi. Aveva trovato lavoro proprio tramite la Intempo, «leader in Italia nella somministrazione di lavoro in ambito portuale», come recita il suo sito internet.

Dopo la morte del giovane qualcosa sembra essersi mosso. Al porto è stata reintrodotta la “pesa” per controllare che i carichi non siano in eccesso, anche se qualcuno ha fatto notare che il rispetto dei limiti di carico avrebbe reso il porto ravennate “meno competitivo”. Nei mesi scorsi, inoltre, enti locali, sindacati confederali e Autorità Portuale, hanno firmato due importanti protocolli: il primo per favorire il miglioramento della qualità dell’aria nel porto, il secondo per la pianificazione degli interventi sulla sicurezza nell’area e che prevede la formazione di tre coordinamenti: uno dei lavoratori, uno delle imprese operanti nel porto e uno delle amministrazioni pubbliche con competenze in materia. Infine è stato firmato un contratto per realizzare un sistema di monitoraggio degli accessi al porto, che dovrebbe fornire un quadro delle presenze nell’area e vietare l’ingresso di personale non autorizzato.

Eppure tra le banchine di Ravenna decessi e infortuni non si sono fermati. Nell’ottobre del 2006 un incendio alla Polimeri Europa (ex Enichem) ha ustionato nove persone; nel luglio 2007 un dipendente della Donelli Eos è stato schiacciato dopo la rottura della catena di una gru; a settembre Marco Zanfanti, 19 anni, al secondo giorno di lavoro, è stato investito da un muletto all’Euro Docks, rimanendo gravemente ferito; a ottobre Filippo Rossano, ormeggiatore a pochi giorni dalla pensione, è morto cadendo in mare; infine a gennaio di quest’anno un operaio nigeriano è rimasto ferito a gambe e bacino, spostando del materiale.

Cos’è cambiato, quindi, dal 1987? «Nulla –, risponde Ermanno Bigi, del sindacato Federmar, una vita come gruista e tante battaglie alle spalle –. La cosa vergognosa è che ogni 13 marzo le autorità ripetono “mai più”, ma al porto si rischia sempre la pelle. Tutti i giorni avvengono cose che fanno rabbrividire. Gli incidenti piccoli o mancati sono numerosi, eppure nessuno li documenta. I lavoratori mostrano disagio ma hanno paura di parlare». Uno dei principali problemi di Ravenna è la scarsa specializzazione dei terminal, a differenza degli altri porti commerciali italiani. «Qui i terminalisti privati – continua Bigi – per aumentare i guadagni scaricano un po’ di tutto. Chi dovrebbe trattare cereali talvolta sbarca anche ferro o altri materiali. E questo aumenta confusione e rischi».

Una situazione che non sembra dunque essere migliorata, anzi: «I problemi della sicurezza sono gli stessi di vent’anni fa, ma una cosa è cambiata, in peggio. Un tempo tra i lavoratori c’era la consapevolezza del rischio, di ciò che stavano facendo e che sarebbe potuto succedere. Oggi quella consapevolezza si è persa e i giovani che iniziano a fare questo lavoro spesso non sanno nemmeno a cosa vanno incontro».

Ilaria Leccardi da Cenerentola

giovedì 24 aprile 2008

Tav Bologna Firenze:
tra le viscere della montagna



Fino al 2006 gli infortuni erano 3842. Sette i morti legati alle attività di cantiere. Tre le vittime di incidenti stradali avvenuti nel tragitto tra casa e posto di lavoro. È questo il bilancio di quasi dieci anni di lavori nei cantieri Tav tra Bologna e Firenze. Un progetto presentato come il fiore all’occhiello dalla Tav spa, che dovrebbe permettere ai treni di viaggiare come proiettili, attraversando le viscere della montagna, e rendere l’Italia un paese più moderno, per molti più civilizzato. Più probabilmente un’inutile macina di dolore.

«Oggi stiamo entrando nella delicata fase di dismissione del cantiere – afferma Valentino Minarelli, segretario della Fillea-Cgil dell’Emilia Romagna –. Una fase pericolosa, come quella iniziale di allestimento, in cui alle ditte che hanno condotto i lavori di scavo e costruzione se ne aggiungono altre in subappalto, che forniscono un lavoro precario e meno regolamentato. Una delle prime cause di infortunio in questi casi è il movimento dei mezzi di trasporto nei piazzali. Quando non c’è un coordinamento aumenta il rischio che il personale venga investito. I report sulla sicurezza dimostrano che nello stadio iniziale i picchi di infortuni sono alti, mentre scendono negli anni successivi. E per quest’ultima fase, purtroppo, si può prevedere un innalzamento del numero di incidenti».

Per tutta la durata dei lavori è stato possibile, grazie all’impegno delle regioni Toscana ed Emilia Romagna, dei sindacati e delle imprese, un monitoraggio sugli infortuni e l’approvazione di una serie di norme di sicurezza nei cantieri, tra cui l’utilizzo di un cartellino che garantisce un controllo sugli spostamenti e le presenze dei lavoratori. Questo ha ridotto gli incidenti, soprattutto nella fase centrale della lavorazione, quando il numero delle imprese è limitato e il controllo è maggiore. Ma non è bastato.

Alla base della grande quantità di infortuni ci sono anche le condizioni disagevoli di lavoro che aumentano la disattenzione e lo stress dei lavoratori. Prima di tutto i turni. Sulla linea Bologna-Firenze è stato adottato un sistema a ciclo continuo con lo schema 6+1; 6+2; 6+3, dove il 6 sta per giorni di lavoro, con turni di otto ore (6-14, 14-22 e 22-6) che si succedono l’uno all’altro, e 1, 2 e 3 sono i giorni di riposo. «Bisogna considerare che la maggior parte degli operai e dei minatori proviene da regioni lontane, dalla lontana Calabria al profondo nord – commenta Girolamo Dell’Olio, presidente di Idra, associazione ambientalista toscana, da tempo vicina ai lavoratori nei cantieri Tav -. L’orologio biologico dell’organismo viene stravolto. Il tempo per tornare in famiglia è poco e nel nostro conteggio delle vittime abbiamo inserito anche chi ha perso la vita per strada, nei lunghi e stancanti viaggi cantiere-casa e ritorno. Inoltre per tutto il periodo lavorativo gli operai sono stati costretti a vivere in campi base isolati da ogni centro abitato e spesso, invece di utilizzare il giorno di pausa per riposarsi, hanno finito per fare straordinari illegali, molto difficili da documentare».

Ci sono poi l’insalubrità dell’ambiente di lavoro, un terreno impervio, argilloso, difficile da trattare, il pericolo degli scavi in galleria che aumenta in presenza di grisù, le squadre di lavoro ridotte, l’isolamento. «Una delle cose che mi ha fatto più impressione – continua Dell’Olio – è la voglia di contatto che hanno questi operai. Ogni volta che siamo andati a manifestare contro i lavori loro provavano a comunicare con noi, si facevano fotografare, cercavano amicizia, anche se in realtà la nostra azione puntava a bloccare gli scavi e quindi avrebbe danneggiato nell’immediato anche loro. Certo apprezzavano quello che noi chiedevamo e chiediamo: lavoro e ferrovie là dove loro abitano, nelle regioni prive di ogni servizio da cui sono costretti a emigrare».

La fine dei lavori sulla Bologna-Firenze (annunciata in principio per il 2002-2003) è prevista adesso per l’autunno del 2009 e l’entrata in funzione delle linee per il 2010. Ma tra le mille difficoltà di costruzione e gli errori di progettazione rimane un grave problema irrisolto: la mancanza di una galleria di soccorso nel tratto appenninico tra Vaglia e Bologna. «L’ultima galleria in direzione Firenze è divisa in due subtratte – spiega Dell’Olio –. Una lunga 11 km, approvata nel ’98, è completa di galleria di soccorso parallela. L’altra, di 60 km con poche e brevi uscite all’aperto, approvata nel ’95, ne è invece sprovvista. Si tratta di un tunnel monotubo, in cui treni viaggeranno in direzioni opposte a più di 250 km orari. In caso di incidente, l’unico modo per prestare soccorso sarebbe usare le finestre intermedie poste a 6 o 7 chilometri di distanza una dall’altra. Troppo poco per garantire la sicurezza».

I Vigili del Fuoco di Firenze hanno espresso perplessità sulle effettive possibilità di prestare soccorso in una simile situazione. Allo stesso modo si è espresso il professor Aurelio Misiti, ex presidente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, oggi nelle liste dell’Italia dei Valori, che - in una conferenza nazionale a Roma cui è stata invitata anche l’associazione Idra - ha confermato le mancanze progettuali della tratta in tema di sicurezza, ipotizzando un termine dei lavori ben oltre il 2009. Tutto questo va di pari passo con le logiche del sistema dei general contractor per la gestione dei cantieri. La Bologna-Firenze è stata affidata al general contractor Fiat che, come altri grandi gruppi affidatari, assegna ad altre ditte la progettazione e l’esecuzione (in questo caso il consorzio Cavet, che riunisce imprese fra le più quotate del nostro Paese, da Impregilo alla Cmc-Cooperativa Muratori e Cementisti di Ravenna). L’architettura contrattuale e finanziaria però è tale che il general contractor risulta affidatario di una concessione di progettazione e costruzione delle opere, pagate interamente da Tav spa, senza però avere responsabilità sulla gestione. Questo determina una situazione paradossale che porta a prolungare il più possibile i lavori e a definire progetti sempre più costosi. Le vittime di una situazione in cui il concessionario non è impegnato a recuperare l’investimento fatto attraverso una buona gestione sono la qualità dell’opera e, ancor prima, i lavoratori.

Ilaria Leccardi da Cenerentola

sabato 1 marzo 2008

Ho 17 anni e fuggo dalla guerra

"Death visits everywhere". La morte ti può far visita dovunque. «È questo il proverbio inglese che mi ha dato coraggio durante i miei lunghi viaggi, nei momenti più difficili, anche quando sono arrivato davanti al mare e ho dovuto attraversarlo a bordo di un piccolo gommone. La paura di tornare indietro era più forte delle grandi onde che mi aspettavano».

Ahmed ha diciassette anni e viene dalla città di Ghazni, nel centro dell’Afghanistan. Il suo volto ha tratti orientali e occhi a mandorla, tipici dell’etnia hazara. Tra i suoi capelli scuri alcune striature grigie raccontano una maturità raggiunta troppo presto. La sua è una fuga dalla guerra, nata per rincorrere il sogno di studiare, quando anche l’istruzione nel suo paese era diventata un diritto per pochi.

«Sono scappato dall’Afghanistan due volte. La prima a nove anni, quando i talebani al potere avevano chiuso le scuole. Allora i miei genitori hanno pensato di mandarmi in Pakistan, a vivere da un amico di famiglia». Ma anche in Pakistan Ahmed non riesce a studiare, non ha i documenti regolari e non può frequentare la scuola. Allora la famiglia sceglie per lui un’altra strada: provare a chiedere asilo politico in Australia. Ma in Australia Ahmed non ci arriverà mai.

«Con documenti falsi e insieme a un signore che si è finto mio padre sono andato in Malesia e poi in Indonesia. Lì però la polizia ci ha fermati, ci siamo divisi e io sono finito in carcere per sette mesi. Più volte ho chiesto aiuto a organizzazioni internazionali come Iom (Organizzazione Internazionale per la Migrazione) e Unhcr (Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati) per ottenere asilo, ma è stato inutile».

Una volta uscito dal carcere, Ahmed torna in patria. Gli mancano gli amici e la famiglia. Quando arriva in Afghanistan scopre la realtà del conflitto. «A Kabul ho visto le case distrutte dalle bombe e una volta nel mio paese non ho più trovato i miei genitori, erano scappati dalla guerra, in Iran o forse in Pakistan».

È così che inizia la seconda fuga di Ahmed dall’Afghanistan. «Sono tornato in Pakistan dall’amico di mio padre, ma neanche lui c’era più. Ho dormito qualche giorno in una moschea, poi ho trovato lavoro in un negozio. E il padrone mi dava anche da dormire. Sono stato lì più di due anni poi sono ripartito, volevo andare in Inghilterra per ricominciare a studiare».

Ahmed parte per l’Iran, poi va in Turchia attraversando il confine con una camminata lunga sei notti. Arriva a Istanbul su un camion e lì poco per volta si organizza con un gruppo di cinque persone per raggiungere un’isola greca. «Abbiamo comprato un gommone a remi, ma nessuno di noi conosceva il mare né sapeva remare, eravamo terrorizzati. Era notte, faceva freddo, le onde erano altissime».

Caricati vicino a riva da una nave più grande, Ahmed e compagni sono accolti allo sbarco dalla polizia greca che prende loro le impronte digitali e li porta in un centro di accoglienza. «Eravamo tanti, non c’erano servizi igienici. Siamo stati lì tre mesi, dopodiché ci hanno dato un foglio di via. Entro un mese saremmo dovuti tornare in patria». L’unico modo per proseguire il viaggio era andare a Patrasso e provare a imbarcarsi su una nave diretta in Italia sfruttando la presenza dei camion che trovano posto nelle grandi stive. «Ho provato come fanno in tanti ad attaccarmi sotto il camion, ma la polizia mi ha scoperto e mi ha anche picchiato. Alla fine, insieme a un altro ragazzo afghano, sono riuscito a farmi caricare nel rimorchio di un Tir, pagando l’autista. Ci siamo nascosti sotto un mucchio di cartoni e siamo partiti. Con noi avevamo solo una bottiglia d’acqua e un pacco di biscotti».

I ragazzi riescono a scendere dal camion solo dopo 54 ore di tragitto e non in Italia, bensì in Austria. Fermati dalla polizia vengono condotti al di qua del confine, a Udine, in un centro di accoglienza. «Siamo stati qualche mese. Ma non ci trovavamo bene, c’erano tanti altri stranieri che disturbavano. Allora siamo scappati e con un treno siamo arrivati a Roma, dove abbiamo dormito un paio di settimane in un parco vicino al Colosseo. Infine, dopo esserci divisi, io sono arrivato a Torino. Era l’agosto del 2005».

Oggi Ahmed è affidato a una famiglia e frequenta il secondo anno di un istituto professionale. Parla correntemente sei lingue, il dari (una lingua afgana), il pashtun, il persiano, un dialetto indiano, l’inglese e l’italiano. E intanto studia il francese e lo spagnolo. In Inghilterra non è mai arrivato, ma in Italia si trova bene e ha tanti amici. «In questi anni sono cambiato. Quando ero piccolo vedevo la gente che faceva la guerra e anch’io volevo prendere le armi in mano per combattere. Oggi non lo farei mai». E quando gli chiediamo che cosa hanno lasciato nella sua memoria le lunghe traversate, Ahmed risponde: «Credo che siano state utili, anche se a tratti si sono rivelate un disastro. Quando la gente mi dice che sono un bravo ragazzo mi vengono in mente i miei genitori. Li ringrazio per aver pensato al mio futuro».

da Futura
Ilaria Leccardi