giovedì 21 maggio 2009

E' partita la campagna
contro i cacciabombardieri


E' partita la campagna promossa dalla Rete Italiana per il Disarmo e dalla campagna Sbilanciamoci! per lo stop della partecipazione italiana alla produzione di 131 caccia bombardieri F-35 che ci costeranno ben 15 miliardi di euro.

I due portavoce della campagna Massimo Paolicelli della Rete Italiana per il Disarmo e Giulio Marcon della campagna Sbilanciamoci! hanno presentato gli obiettivi e le iniziative della campagna, e illustrato i contenuti del programma di riarmo e delle decisioni del parlamento e del governo italiano.

La conferma che questo progetto, che vede il governo americano come ente promotore, è un salto nel buio è arrivata dal nuovo rapporto del marzo 2009 del GAO (Government Accountability Office) che è il corrispettivo della nostra Corte dei Conti. Il GAO è fortemente scettico sul progetto, criticando principalmente le pressioni esercitate dal dipartimento della difesa (Dod) e dalle imprese appaltatrici affinché la fase di sviluppo dell’aviogetto venga portata a conclusione prima che le più importanti tecnologie divengano mature, iniziando così i test costruttivi dell’aereo prima che i progetti divengano definitivi e iniziando la fase di produzione prima che i test in volo dimostrino che l’aereo sia realmente pronto, con il forte rischio di scoprire eventuali difetti a posteriori, quando correggerli sarà estremamente complicato e costoso. A conferma di ciò la decisione di anticipare l’acquisizione del 15% del totale dei velivoli, cioè 360 aerei, testando solo il 17% delle capacità dell’F-35 in volo, per lasciare tutto il resto alle simulazioni di laboratorio.

da Sbilanciamoci

domenica 10 maggio 2009

Sicurezza sul lavoro e lotta di classe

A volte è colpa di un volantino. Altre volte di una manifestazione. Spesso di una denuncia sulle falle di sicurezza, soprattutto dove queste falle devono rimanere nascoste. Il licenziamento, o almeno la sua minaccia, è uno strumento subdolo che talvolta le dirigenze aziendali utilizzano per tacere le voci di chi osa denunciare situazioni di insicurezza sul luogo di lavoro. Tanti i casi italiani negli ultimi anni. Il più noto è forse quello del macchinista Dante De Angelis, Rls di Trenitalia, licenziato nell’agosto scorso per aver segnalato la carenza di manutenzione degli Eurostar.

È anche per dimostrare il proprio sostegno a coloro che con coraggio denunciano le condizioni pericolose in cui versano le aziende, che la Rete Nazionale per la sicurezza sui posti di lavoro ha manifestato sabato 18 aprile a Taranto, la città dell’Ilva, la fabbrica italiana dove maggiore è il numero di morti sul lavoro.
Tra le vie di Taranto c’era ad esempio Salvatore Palumbo, ex delegato sindacale ed operaio alla Fincantieri di Palermo. Da quasi due anni sta portando avanti una battaglia legale per il reintegro, dopo esser stato licenziato perché, sostiene l’azienda, colto a pescare nel bacino in orario di lavoro, ma già da tempo preso di mira per le sue numerose segnalazioni. Palumbo ha già affrontato quattro tentativi di ricorso ex articolo 700 per ottenere la riassunzione in fabbrica, senza successo, e ora è impegnato in una causa civile. Una prima udienza nel gennaio scorso, quindi la seconda il 5 febbraio: “In quell’occasione mi hanno proposto una transazione di 40mila euro, che sarebbe potuta anche salire, ma io ho rifiutato – spiega –. Tra l’altro pochi giorni prima alcuni lavoratori della Fincantieri mi hanno segnalato che un operaio aveva subito un incidente. Io ho parlato di quell’episodio in un volantino, che il giorno dell’udienza l’avvocato dell’azienda ha portato davanti al giudice, dicendo: ‘Signor Palumbo, è così che vuole risolvere i suoi problemi?’. Io continuo semplicemente a fare il mio lavoro. Non si immagina quanti infortuni o piccoli incidenti vengano tenuti nascosti”. L’udienza è stata rinviata al 4 giugno, quando probabilmente l’avvocato di Palumbo, Nadia Spallitta, porterà davanti al giudice nuovi testimoni. La vicenda di Palumbo e della sua famiglia (moglie e tre figli) è una di quelle storie capaci di annientare una persona, oppure di risvegliare nella coscienza l’istinto per andare avanti. “Quello che non ho mai voluto perdere – conclude l’operaio – è la mia dignità di lavoratore. Per questo continuerò la mia battaglia. Non chiedo nient’altro che tornare ad avere il mio posto di lavoro”.

Difficile, ma non impossibile. Almeno così è stato per Donato Auria, operaio alla Fiat Sata di Melfi, licenziato nell’ottobre 2007 assieme a tre colleghi, Francesco Ferrentino, Michele Passannante e Vincenzo Miranda, accusati di essere dei “sovversivi”. “Dovevo fare il secondo turno ed ero ancora a letto – spiega Auria nel blog che ha creato per condurre la battaglia per il reintegro – alle 6 del mattino qualcuno bussa alla porta, è la Digos, c’è un mandato di perquisizione”. Controllano, frugano, leggono, guardano dappertutto, ma non trovano nulla, forse anche loro capiscono con chi hanno a che fare. “Un attivista sindacale che ha fatto tante denunce, con tre figli e moglie a carico, che sta in una casa di 60 metri quadrati, dove non c’è spazio neanche per i letti singoli. Qualche figlio si deve arrangiare con il letto a castello”. Passa poco tempo e arriva la lettera di sospensione dalla Fiat. Poi la notifica della Dda di Potenza in cui risulta che Auria è indagato per associazione sovversiva a fini terroristici. Licenziato. L’operaio però non si arrende e, dopo una lunga battaglia, a gennaio di quest’anno ottiene il reintegro.
Niente da fare invece per i colleghi per cui, come ad Auria, è stata decisa l’archiviazione nell’indagine su eversione e terrorismo.

A loro si unisce anche Tonino Innocenti, licenziato dalla Fiat Sata addirittura nel 2003. Il provvedimento nei confronti di Francesco Ferrentino, Rsu della FlmUniti-Cub, viene dichiarato illegittimo, ma il 19 dicembre scatta a suo danno un nuovo licenziamento per via di un volantino che, secondo l’azienda, contiene dichiarazioni diffamatorie nei confronti di un capo. Michele Passannante, dopo aver perso il ricorso ex articolo 700, è in attesa della causa di merito. Vincenzo Miranda, invece, quel ricorso lo vince, ma l’azienda terziarizzata Fiat di cui è dipendente lo trasferisce in Toscana.

A questi si aggiungono anche i licenziamenti di operai che, come Giovanni Chiarello ed Eugenio Scognamiglio dipendenti Maserati, si battono ogni giorno per la difesa del posto di lavoro. Nel loro caso l’impegno era stato a favore del rinnovo contrattuale di 112 interinali dell’azienda modenese. E poi la storia di Giolivo Zanotti, operaio delle Fonderie Officine Pilenga, di Comun Nuovo (Bergamo), che lo scorso anno ha subito una sospensione di tre giorni per aver denunciato le condizioni di insicurezza nella fonderia dove lavorano 250 operai.

“Per fortuna – spiega Ernesto Palatrasio, dello Slai Cobas di Taranto, uno degli organizzatori della manifestazione del 18 aprile – i licenziamenti rimangono circoscritti. Quello che pesa veramente è la minaccia di lasciare la gente senza lavoro, un’arma per far sì che in fabbrica si taccia. A questa si aggiungono forme di persecuzione silenziosa, ostruzionismo sul luogo di lavoro, situazioni di cui spesso non si viene a sapere nulla. Il vero problema è la poca forza che la figura dell’Rls ha all’interno delle fabbriche. All’Ilva di Taranto, ad esempio, dove lavorano 13 mila persone, gli Rls sono appena 6”.

E allora bisogna almeno tirare un sospiro di sollievo per aver scampato a febbraio gli emendamenti proposti dalla Lega al Testo Unico varato dall’ultimo governo Prodi. Misure che se approvate avrebbero privato i lavoratori di aziende con meno di 15 dipendenti della possibilità di eleggere un Rappresentate dei lavoratori per la sicurezza, ma anche di essere rappresentati da Rls territoriali. Dopo una prima accettazione, gli emendamenti sono stati respinti. Ancora per un po’ si può provare a sperare.


Ilaria Leccardi da Cenerentola

lunedì 4 maggio 2009

I sette operai della Thyssen-Krupp
uccisi di nuovo dai giornalisti italiani

Mi chiamo Massimo Zucchetti e sono il più giovane professore universitario italiano di Sicurezza e Analisi del Rischio. Lavoro al Politecnico di Torino. Sono Consulente Tecnico nel Processo Thyssen-Krupp dove nel dicembre 2007 morirono bruciati fra sofferenze atroci sette operai.

In data 28 aprile 2009 ho depositato al Processo la mia Relazione di 60 pagine, che ricostruisce l’evento, identifica le cause, indica i colpevoli delle sette atroci morti. Ho inviato lo stesso giorno il sunto della mia relazione, una pagina e mezzo chiara e pesante come il piombo, ai seguenti quotidiani italiani: Repubblica, La Stampa, Il Giorno, Il Messaggero, Il Mattino, Il Resto del Carlino, La Nazione, Il Secolo XIX, Il Giornale, Leggo, Metro, Corriere della Sera, Il Tempo, L’Unità, Il Manifesto, L’Indipendente. Anche altri che ora non ricordo, ma questi i principali.

Il sunto è scritto in linguaggio non tecnico ed è chiaro e duro come il cristallo. Nessuno di questi giornali ha reagito in alcun modo al mio invio. Soltanto il Manifesto, grazie alla presenza di un giornalista mio amico personale, ha promesso di pubblicare un articolo. Pubblico qui su Metropolis – oltre che sulla mia pagina di Facebook - il testo che avrebbe dovuto apparire, secondo il mio parere, su ognuno di questi giornali in giusta evidenza.

Ieri sera ho parlato con gli operai Thyssen ed ho cercato di spiegare loro la situazione: la situazione è che il giornalismo in Italia è ostaggio – salvo rare eccezioni – di una conventicola di servi, mestieranti ed autocompiaciuti, ignoranti ed inutili se non dannosi, indegni comunque di esercitare una professione tanto importante come quella di giornalista.

In seguito all’incendio divampato il 6/12/2007, sulla linea di ricottura e decapaggio dello stabilimento Thyssen-Krupp di Torino (d’ora in avanti TKTO), che, inizialmente, causò la morte di 1 lavoratore, l’ustione di altri 7 di cui 6 in modo così grave che decedettero nei giorni seguenti, il sottoscritto prof.ing. Massimo Zucchetti, ordinario di Sicurezza e Analisi di Rischio presso il Politecnico di Torino, è stato nominato Consulente Tecnico di Parte Civile nel Procedimento Penale in corso. La presente relazione costituisce un iniziale contributo all’analisi.

Da quanto riportato dai fatti e dalle testimonianze si può riassumere quanto segue: La linea 5 funzionava in perenne palese violazione delle norme di sicurezza relative agli impianti a rischio di incidente rilevante, in quanto – ad esempio - in costante presenza di olio sul fondo dell’impianto, di residui di carta oleati ovunque, di fiamme libere e piccoli incendi praticamente costanti, in mancanza di squadre antincendio addestrate, con gli estintori scarichi, eccetera. La linea 5 funzionava oltre i normali regimi per sopperire a richieste pressanti di produzione non ottemperabili dal solo stabilimento di Terni. Gli operai erano costretti a turni straordinari massacranti.

La linea 5 presentava evidenti malfunzionamenti dovuti ad usura e scarsa manutenzione, primo tra tutti le perdite di olio, e i frequenti guasti di tipo elettrico e meccanico. I vigili del fuoco, gli addetti ai gruppi di lavoro sulla sicurezza, i periti dell’assicurazione avevano ripetutamente raccomandato nel recente passato l’adozione di un sistema automatico di spegnimento per la linea 5, in conformità a quanto previsto per impianti soggetti a rischio rilevante di incendio come quello in esame. Questa raccomandazione, adottata per analoghi impianti presso altri stabilimenti della ditta, era stata disattesa e posposta, in quanto la linea stava per essere chiusa e trasferita a Terni entro breve.

La manutenzione sulla Linea 5 era insufficiente ed era peggiorata nell’ultimo periodo, in vista della prospettata chiusura entro breve tempo. Le squadre di manutenzione si erano ridotte e le frequenze degli interventi riguardavano per lo più la riparazione di guasti. Ancora, la sostituzione di alcuni pezzi meccanici non avveniva con il montaggio di pezzi nuovi ma con recuperi da altre linee o spostamenti sulla linea stessa. Le squadre di sicurezza e antincendio erano insufficienti o inesistenti, erano costitute da personale che non aveva completato (in nessun caso, neppure una persona) l’addestramento antincendio previsto dalla legge. Le procedure di emergenza e antincendio erano carenti e l’intero apparato di sicurezza al riguardo era in patente violazione con le prescrizioni di legge.

Gli operai della linea 5 dovevano frequentissimamente intervenire con estintori manuali per spegnere incendi che continuamente si formavano sulla linea, senza sospendere la produzione, in violazione con il loro mansionario e le procedure. In caso di incendio di “grave entità” la procedura prevedeva non già l’immediato appello dei VVFF, ma la composizione di un numero di telefono per la chiamata della squadra antincendio, peraltro inadeguata in quanto non formata con appositi corsi completi e sprovvista di mezzi adeguati di spegnimento. Non vi era alcuna prescrizione o specifica scritta o procedurale che indicasse quando un incendio era di “grave entità”. Le indicazioni dell’azienda erano di provare a spegnere con ogni mezzo l’incendio da parte degli operai con gli estintori prima di dare l’allarme.

Era fortemente radicato il concetto per cui si doveva sopperire a qualsiasi problema evitando di interrompere la produzione. I pulsanti di emergenza non dovevano mai venire azionati per evitare la interruzione della produzione. Gli operai avevano ricevuto espresse indicazioni al riguardo dall’azienda. Emerge chiaramente, anche dall’analisi di alcuni incidenti, che vi era la indicazione generalizzata ad affrontare situazioni di rischio particolarmente elevato in modo autonomo e non in ottemperanza alle misure di sicurezza, che non erano state comunicate ai lavoratori. Il pulsante di emergenza non toglie l’alimentazione elettrica alla pompa oleodinamica, quindi l’olio rimane sempre in pressione fino ai banchi valvole anche in caso di attivazione dei pulsanti di emergenza. Anche la pressione di questi pulsanti, fortemente sconsigliata dall’azienda per non interrompere la produzione, non avrebbe evitato comunque l’incendio e l’incidente.

I sistemi individuali di spegnimento (estintori) erano al momento dell’incidente per la maggiorparte scarichi o inutilizzabili. Nessuno dei presenti all’incidente aveva ricevuto alcuna formazione specifica sul tipo di intervento da effettuare e sulle procedure da seguire in caso di un incendio di tale entità. Si erano verificati nel recente passato eventi incidentali analoghi presso altri stabilimenti dell’azienda, senza che nessun rimedio venisse adottato a seguito di questi incidenti sulla linea 5. Alcuni sistemi di sicurezza automatici che segnalavano la presenza di carta spuria (costituente grave pericolo) nell’impianto a seguito di malfunzionamento erano al momento dell’incidente esclusi manualmente o addirittura guasti, in palese contrasto con le norme di sicurezza. Nel luogo ove si è verificato l’incendio non vi era sistema automatico di rilevazione incendi.

In ultima analisi, lo scrivente si stupisce come l’evento incidentale che ha causato la morte dei sette operai si sia verificato con tale ritardo, viste le condizioni in cui funzionava l’impianto, ovvero in palese violazione con ogni norma di sicurezza. Tutto quanto era umanamente possibile per rendere provabilissimo il disastro era stato fatto o omesso dall’azienda con incredibile e costante pervicacia. Una volta partito, la dinamica dell’evento incidentale è stata inevitabile, dati gli strumenti e la formazione dati agli operai a quali nulla si può imputare se non l’aver accettato, per non perdere il posto di lavoro, di lavorare in un impianto in simili condizioni.

Massimo Zucchetti
da Metropolis

Chiedono permesso per il lutto nazionale
Licenziati 120 lavoratori a Canistro

Hanno chiesto al datore di lavoro di fermare per un’ora la produzione in occasione dei funerali di Stato e del lutto nazionale per le vittime del terremoto in Abruzzo e per questo sono stati licenziati. È successo ai 120 lavoratori della Santa Croce di Canistro, azienda delle acque che ha sede a pochi chilometri di distanza dall’epicentro del terremoto che ha sconvolto l’Abruzzo lo scorso 6 aprile.

A darne notizia è la Flai Cgil: “La loro richiesta dettata dal buonsenso e dalla volontà di aderire al lutto che li aveva coinvolti così da vicino – spiega la sigla di categoria – ha scatenato le ire del datore di lavoro, che non ha dato il suo permesso alla fermata delle produzioni. I lavoratori hanno deciso allora di abbandonare la fabbrica e di rendere ugualmente omaggio alle vittime del terremoto. A pochi giorni di distanza, però, il datore di lavoro ha fatto pervenire loro tramite un telegramma la notifica di licenziamento. Non pago ha poi sporto denuncia nei confronti del segretario generale della Flai Cgil dell’Aquila, Luigi Fiammata, con l’accusa di associazione a delinquere.

“Non vi è mai fine all’orrore – ha dichiarato il segretario generale della Flai Cgil Stefania Crogi -, è un fatto di tale gravità, purtroppo, si commenta da solo. Esprimiamo tutta la nostra solidarietà ai lavoratori licenziati e a Luigi Fiammata, garantendo loro il sostegno legale necessario alla soluzione di questa triste vicenda. Invitiamo inoltre tutte le istituzioni nazionali e abruzzesi – ha concluso Crogi – ad adoperarsi contro un datore di lavoro che anziché puntare alla ricostruzione del tessuto sociale ed economico di un territorio messo così a dura prova dal terremoto ha pensato fosse lecito licenziare chi aveva semplicemente chiesto che fosse rispettato il lutto”.

da Marco Bazzoni, rappresentante dei lavoratori per la sicurezza

martedì 14 aprile 2009

Contro le morti e gli incidenti sul lavoro
Tutti a Taranto, sabato 18 aprile

Le morti sul lavoro non sono incidenti, ma il risultato della criminale organizzazione del lavoro. Contro questa è stata organizzata per il 18 aprile a Taranto la manifestazione nazionale per la sicurezza sui luoghi di lavoro, contro la salute negata e la precarietà. Contro i morti sul lavoro, contro la distruzione e per il rafforzamento del Testo Unico sulla Sicurezza, contro l'attacco alla contrattazione nazionale e al diritto di sciopero, per l'estensione di tutti i diritti e le tutele minime dei lavoratori precari e a tutta la categoria degli appalti e delle esternalizzazioni.

La manifestazione si svolgerà a TARANTO, città-simbolo con più infortuni, malattie professionali, tumori, inquinamento e devastazione dell'ambiente. Proprio nella città pugliese ha sede l'ILVA, la fabbrica con più morti sul lavoro d'Italia.

Appuntamento alle ore 15. Partenza dai Tamburi in piazza Gesù divin lavoratore con attraversamento della città vecchia e arrivo in piazza della Vittoria dove sono previsti una ventina di interventi e una parte teatral musicale. Parleranno gli operai: dalla Thyssen all'Ilva, dai Cantieri navali di Palermo a Porto Marghera e a numerose altre fabbriche, delegati RLS, familiari, comitati di quartiere a partire da quello del quartiere Tamburi (che vanta il triste record italiano di bambini che hanno contratto gravi forme tumorali) per la presenza di diossina ambientalisti, ispettori del lavoro, rappresentanti di tutte le organizzazioni sindacali presenti e dei partiti politici che hanno aderito a livello locale e nazionale. Ci sarà anche una rappresentante delle zone terremotate.

La manifestazione è una atto di unità e solidarietà con i lavoratori e i cittadini di Taranto, ma anche un impegno a sostenere a livello nazionale la campagna per liberare tutte le città italiane dai morti da lavoro e dall'inquinamento.

Per adesioni: manifestazione18aprile@gmail.com
Per info: 339.1956669 - 333.8899163

mercoledì 8 aprile 2009

Eternit, via al processo storico


TORINO - «Finalmente giustizia». Nicola Pondrano, segretario della Camera del Lavoro di Casale Monferrato, dice due parole secche, ma forti, per sintetizzare il significato di una giornata storica, l'inizio del processo Eternit. La sua è una storia che arriva da lontano, dal 1974, quando per la prima volta entrò come operaio nello stabilimento di via Oggero. Non sapeva ancora di aver varcato la porta della fabbrica della morte. Anche se le avvisaglie c'erano tutte. Ma non ci mise molto a capire che qualcosa non andava. E da lì a poco, partì la lotta che con Bruno Pesce lo ha visto protagonista fino a oggi. Fino all'udienza preliminare per la strage silenziosa dell'amianto, quella fibra carogna che si infilava ovunque, magari nella tuta del papà che tornava a casa dal lavoro. Ecco perché i bambini degli anni Sessanta, senza aver mai messo piede nello stabilimento, sono i nuovi malati di mesotelioma. A Casale, la città più colpita, ne vengono diagnosticati 40 all'anno. E 1500 morti su una popolazione di 35 mila abitanti sono una cifra che spaventa.

Ieri, al Palagiustizia di Torino, il giorno tanto atteso per chi si è battuto in tutti questi anni: la prima seduta davanti al gup Cristina Palmesino. Per assistervi, da Casale sono arrivati 8 pullman, ma gente è venuta anche da Bagnoli, Cavagnolo e Reggio Emilia. Dalla Francia 200 persone e delegazioni pure da Belgio, Svizzera e Olanda. Basta questo per spiegare come il processo abbia già assunto una dimensione europea. I numeri sono maxi: 2889 le parti offese che potrebbero salire a 5700, in rappresentanza degli oltre duemila morti (dal 1952 in avanti). «E' un'impresa processualmente titanica», ha spiegato qualche giorno fa Raffaelle Guariniello che ha coordinato l'inchiesta contenuta in 200 mila pagine. La sfida è anche contro il tempo, contro il rischio prescrizione. Poco prima dell'inizio, il pm si è augurato che il processo sia giusto per tutti, per le vittime e per gli imputati: gli ex vertici della Eternit, lo svizzero Stephan Schmidheiny, 61 anni, e il barone belga Jean Louis De Cartier, 88 anni. Per entrambi, la procura di Torino ha chiesto il rinvio a giudizio per disastro doloso e omissioni di cautele antinfortunistiche. «L'Inail - ha aggiunto inoltre Guariniello - ha calcolato 246 milioni di euro di spesa sostenuta per indennizzare le vittime dell'Eternit». Per questo motivo, l'Istituto ha deciso di costituirsi parte civile per esercitare un diritto di rivalsa nei confronti della multinazionale.

Fuori dal Tribunale, striscioni e centinaia di persone. Un grande presidio, promosso dai sindacati e dalle varie associazioni impegnate nella lotta, che è stato battezzato Giornata europea per la giustizia delle vittime dell'amianto. «È l'inizio di un'altra grande battaglia. In questi anni ne abbiamo fatte tante anche sotto il profilo giuridico ma questa è senz'altro la più importante», ha commentato Bruno Pesce, coordinatore della Vertenza amianto. Accanto a lui, Romana Blasotti Pavesi, 80 anni, presidente dell'associazione dei familiari delle vittime, che ha perso il marito, la sorella, un nipote, un cugino e, infine, la figlia. Ma non si è mai data per vinta e ha continuato a chiedere giustizia. Al sit-in, c'era anche l'Andeva, l'associazione vittime amianto della Francia, presieduta da Alain Guerif. E poi, Renè Knepper, per 40 anni operaio Eternit, che in Borgogna ha vinto nel 1997 la prima causa civile d'amianto e guarda al processo di Torino come a un esempio, da seguire. Dietro alle bandiere della Cgil, ecco Enrico e Vincenzo da Bagnoli, che raccontano la loro dura vita in fabbrica, quando dei rischi per la salute non si parlava nemmeno. Si troveranno tutti a Parigi il 29 aprile per redigere una «carta europea dei diritti»». Hanno, infatti, costituito una multinazionale delle vittime, in contrapposizione a quella della «cupola» dell'amianto. Intanto, ieri l'Ispesl (Istituto superiore prevenzione e sicurezza sul lavoro) ha comunicato come i tumori da amianto (mesoteliomi) colpiscono 1.350 italiani ogni anno, con un'incidenza pari a circa 3,5 casi ogni 100 mila abitanti negli uomini e a un caso per 100 mila nelle donne.

La prima udienza si è conclusa con la presentazione delle domande di costituzione di parte civile da parte di numerosi enti pubblici, associazioni e di 500 persone. E' solo una prima parte, si continuerà mercoledì. Fra gli enti che hanno chiesto di costituirsi parte civile ci sono le tre Regioni interessate, Piemonte, Emilia Romagna e Campania, le Provincie di Torino e Alessandria, i Comuni piemontesi di Casale e Cavagnolo e il comune emiliano di Rubiera. Inoltre, Cgil e Cisl, Legambiente, Codacons, Medicina democratica, l'associazione famigliari vittime amianto di Casale e l'Associazione italiana esposti amianto. «Si tratta di un processo storico - ha affermato la presidente della Regione Piemonte Mercedes Bresso - in considerazione della grande quantità di danni che abbiamo subito. Non tanto per le produzioni industriali ma per il fatto di non avere detto che queste costituivano un grave danno per la salute. Tutto ciò ha creato danni immensi alla salute delle persone e al territorio e costi enormi di bonifica». Vittorio Agnoletto, europarlamentare Prc, e il consigliere regionale Alberto Deambrogio hanno, infine, denunciato l'assenza di rappresentanti del governo. Sulla stessa lunghezza d'onda Felice Casson del Pd che ha accusato l'esecutivo di versare lacrime di coccodrillo per i morti d'amianto ma poi, nel concreto, bloccare qualsiasi iniziativa per ridare dignità alle vittime.

di Mauro Ravarino
Da il manifesto del 7 aprile

sabato 7 marzo 2009

Giustizia, da che parte stai?
Lettera aperta di Silvio Bonan, figlio di un ex-Operaio della Tricom Galvanica

Per la seconda volta la Procura di Bassano del Grappa, per mano del PM Giovanni Parolin, ha chiesto l’Archiviazione del caso riguardante i decessi e le malattie degli operai della TRICOM-GALVANICA PM di Tezze sul Brenta (Vicenza).

“OPERAI”…: questa forse l’identificazione del ceto sociale che impedisce lo svolgimento di un regolare processo! Oltre 7000 pagine che raccontano le condizioni a dir poco insalubri nelle quali questi operai lavoravano tutti i giorni allo solo scopo di VIVERE DIGNITOSAMENTE e MANTENERE UNA FAMIGLIA! Quando mio padre si sposò nel 1976 lavorava anche mia madre. Poco più tardi, quando scoprirono che stavano per diventare genitori, mio padre chiese a mia madre di abbandonare il lavoro per occuparsi totalmente della casa e della prole, preferendo così caricarsi di straordinari aumentando alla Tricom le sue ore lavorative. E' forse questa la sua colpa che gli impedisce oggi di avere Giustizia?

7000 pagine che raccontano solo morte: nessun dispositivo di sicurezza, nessuna informazione sulla pericolosità di quanto facessero in quella fabbrica. Unico imperativo quello di lavorare e di farlo con il sorriso stampato in volto perché altrimenti Tu e la tua Famiglia non potrete avere un futuro!

Giustizia, da che parte stai?

Questa la domanda che personalmente in questo ultimo periodo sovrasta i miei pensieri. Leggo e rileggo i numerosi verbali di ispezione alla fabbrica, leggo e rileggo le numerose cartelle cliniche degli ex operai, i loro Libretti Sanitari riguardanti le visite mediche effettuate in fabbrica e mi accorgo che la Giustizia in questo paese non è “uguale per tutti”; con tali presupposti non è possibile IMPEDIRE, là dove la Legge si dice essere appunto “uguale per tutti”, un processo per OMICIDIO COLPOSO PLURIMO, LESIONI COLPOSE GRAVI E OMISSIONI DI DIFESE E CAUTELE CONTRO DISASTRI E INFORTUNI SUL LAVORO E VIOLAZIONI SULLE NORME DI SICUREZZA ED IGIENE NEGLI AMBIENTI DI LAVORO.

In quella fabbrica la mortalità dell’operaio stranamente era triplicata rispetto ad uno studio regionale che interessava un’indagine sulle condizioni di lavoro di addetti a reparti galvanici, mortalità quintuplicata invece su scala nazionale. Questo medesimo studio riporta il tasso significativo e pauroso di cromuria presente nell’operaio prima e dopo le otto ore di lavoro, ne rivela per alcuni il DNA MODIFICATO (ossia le aberrazioni cromosomiche), ecc. Ispezioni da parte dello SPISAL di Bassano del Grappa attestano che la fabbrica è priva di ogni sistema di prevenzione e tutela per l’operaio, condizioni che perdurarono per tutta l’esistenza di tale attività, dal 1975 al 2003. L’istituto della IARC trema al solo sentire nominare sostanze quali il cromo, il nichel, cianuri di varia natura(sostanze tutte altamente cancerogene per l’uomo ma probabilmente secondo la Procura di Bassano del Grappa non per l’operaio). Istituto quello della IARC che da anni studia i problemi correlati all’uso da parte dell’uomo di sostanze pericolose, istituto riconosciuto a livello mondiale. Anni di indagini condotte dal Corpo Forestale dello Stato che ha interrogato tutti gli ex operai e per quelli che non ci sono più i loro famigliari, tutti concordi nel testimoniare che in quella fabbrica ci si ammalava, svelando molti particolari inquietanti. L’ARPAV di Bassano del Grappa, chiamata ad ispezionare l’azienda per accertare la possibilità che quest’ultima sia la causa di un inquinamento alle falde acquifere da cromo esavalente (cromo VI), non può non constatare nei suoi verbali le condizioni disumane nelle quali versavano gli operai.

Beh, secondo la Giustizia amministrata coscientemente a Bassano del Grappa NESSUNO di questi dati significa qualcosa, la Giustizia amministrata coscientemente a Bassano del Grappa di tutti questi studi ne fa una enorme palla di carta da cestinare. Giustizia…da che parte stai?

All’inizio del procedimento l’unico caso segnalato era quello di mio padre, per il quale io stesso, all’indomani della sua morte, ho fatto denuncia, correva l’anno 2001; la prima perizia medica redatta per conto del Tribunale di Bassano del Grappa riporta la non esclusione di un nesso causale malattia-lavoro ma sottolinea però come sia difficile giungere a tale conclusione visto che vi era in quella fabbrica un solo caso denunciato. Ad oggi parliamo di 10 morti per le medesime patologie e di altri 7 casi di ex operai al momento ammalati, tutti con patologie tumorali. ALLORA? Se prima vi era un solo caso, troppo poco, probabilmente ora sono troppi. MEGLIO ARCHIVIARE!!! Giustizia…da che parte stai?

Una più recente perizia medica redatta sempre per conto del Tribunale di Bassano del Grappa ha forse trovato invece un escamotage per poter dire “quel processo non s’ha da fare”: un illustre rappresentante della Medicina del Lavoro di Padova liquida 7000 pagine di studi e di elencazioni negative dell’azienda incriminata con un semplice “tenuto conto di tutto questo” e punta il dito unicamente contro gli operai…sì, perché fumavano! A Porto Marghera gli operai bevevano, alla Tricom di Tezze sul Brenta gli operai fumavano. Il nesso causale malattia-lavoro “tenuto conto di tutto questo” (7000 pagine che raccontano le precarie condizioni di lavoro senza nessun tipo di tutela per gli operai), è il frutto unico del rapporto tra l’età dell’operaio per la quantità di sigarette fumate in vita. BALLE! L’illustre luminare che conferma solo che in effetti i “cervelli italiani” sono tutti emigrati all’estero, per ridurre al minimo un nesso causale derivante da motivi lavorativi, non considera neppure il numero elevato di medesime patologie conclamate in quegli stessi operai di quella stessa fabbrica, ma valuta solo ogni singolo individuo. 10 morti, altre persone ammalate, questi numeri per la Medicina del Lavoro di Padova non significano nulla (ma come? La scienza non basa le sue tesi proprio sui numeri?). Men che meno significano qualcosa per la Procura di Bassano del Grappa che ribadisce anche in quest’ultima richiesta di archiviazione che un’indagine epidemiologica non servirebbe a nulla (è preoccupante questa presa di posizione in quanto purtroppo il numero dei morti e degli ammalati sarà destinato ad aumentare nel tempo, ogni operaio che ha lavorato alla Tricom è in pericolo!).

Il fumo che dovrebbe essere valutato come “fattore confondente” è qui valutato, anzi, si è voluto valutarlo, come unico “fattore causale”, dove l’unico dato certo che viene considerato come scienza è il numero di sigarette fumate. Può una perizia medica che si dica seria basarsi unicamente addirittura sul numero di sigarette giornaliere che, seppur dichiarate, rappresentano un dato soggetto a variazioni costanti? Per esempio: mio padre dichiarò di fumare dall’età di 15 anni e fumò sino all’età di 35 anni, può aver fumato per tutti questi anni lo stesso numero costante di sigarette dal primo giorno che iniziò a quando cessò? Certo avrebbe potuto intensificare la dose di sigarette giornaliere come però avrebbe potuto egualmente, al contrario, diminuire, tanto più che arrivò a smettere. Questo per ribadire come sia inammissibile che su un dato così aleatorio come questo si basi il solo “nesso causale” lavoro-malattia, che ripeto, nella perizia in oggetto è determinata con il rapporto unico età-sigarette fumate, e che il fumo invece, come la letteratura scientifica propone e insegna, dovrebbe sì non essere escluso, ma gli dovrebbe essere attribuito il valore che merita considerandolo come solo “fattore confondente” in un ambito soprattutto come quello della Tricom-Galvanica PM dove il fumo presente respirato dai lavoratori, in completa assenza di aspiratori, proveniva unicamente dalle vasche delle lavorazioni. “Fattore confondente” questo è quanto la scienza insegna in tutto l’orbe terrestre, probabilmente non alla facoltà di Medicina del Lavoro di Padova, la quale liquidando così il caso specifico della Tricom-Galvanica PM non può che dimostrare che di certo per la stesura di questa perizia medico-legale non si è confrontata con la letteratura scientifica ma con ben altro tipo di materiale cartaceo!

Ancora oggi si insiste nel parlare unicamente di cromo esavalente, è questa infatti la sostanza che per la sua maggiore solubilità è causa principe del serio, ma ancora sottovalutato dalle nostre autorità, inquinamento alle falde acquifere, perché il territorio di Tezze sul Brenta per opera della stessa fabbrica si trova oggi a fare i conti anche con questa realtà…ma per l’operaio vi erano in quella fabbrica ben altri agenti chimici, non meno tossici, con i quali questi lavoravano. Faccio accenno solo al nichel, basti pensare che se per il cromo vi erano tre sole vasche con questa sostanza, di nichel le vasche presenti erano sette! Al perito luminare della Medicina del Lavoro di Padova, nominato dal Tribunale di Bassano del Grappa, si è chiesto di valutare in modo specifico la presenza in fabbrica di questi molteplici cancerogeni con i quali l’operaio lavorava tutti i giorni, in quanto non sembrava emergere nella sua perizia una valutazione di più sostanze, ma soprattutto l’eventuale sinergia (unione-mescuglio) tra queste…facile immaginare la risposta: TENUTO CONTO DI TUTTO QUESTO, IL DATO RIMARREBBE COMUNQUE INVARIATO! Giustizia…da che parte stai?

La battaglia che con l’aiuto di alcuni amici sto conducendo non è contro l’intero mondo degli imprenditori, ma contro quella parte di questa categoria imprenditoriale che ha valutato tutti i rischi tranne quelli dei suoi operai, contro quella parte di imprenditori che dietro la parola “lavoro” vi hanno nascosto una sentenza di morte… Nella battaglia che sto conducendo, ci troviamo di fronte ad una realtà lavorativa quale la TRICOM-GALVANICA PM dove non esisteva nulla a livello di protezione per l’operaio. Capirei l’accanirsi e l’esaltare il dato del fumo se trattassimo un’azienda in “regola” con tutte le normative previste a difesa del lavoratore, ma, torno a ripetere, alla Tricom-Galvanica PM non esisteva nulla di tutto questo, in questa fabbrica la parola “lavoro” era solo un sinonimo di morte! In nome del solo profitto non si è mai badato né all’ambiente né agli operai che la dentro lavoravano. Una fabbrica spesso in crisi che in virtù di amicizie politiche ha più volte ricevuto contributi particolari a livello statale, una fabbrica che per amicizie politiche ha potuto bypassare tutti i sistemi di sicurezza previsti dalla legge (riceve l’agibilità dopo quasi già 10 anni che la ditta è operativa nonostante ancora non siano adempiute tutte le normative richieste e mai provvederà a questo anche in seguito…ciò nonostante quella fabbrica continuerà a funzionare indisturbata…NO, LA MAFIA NON E’ SOLO AL SUD!). Giustizia, da che parte stai?

Segnalazioni gravi di scarichi illegali di cromo e quant’altro nell’ambiente, concentrazioni di queste sostanze tossiche in falda nel comprensorio bassanese e dell’alta padovana, visite mediche negate all’operaio…non sono una novità per la ditta Tricom-Galvanica PM, numerose le segnalazioni di fine anni ’70, anni ’80 e 90, tutte volutamente sottovalutate dalla Procura di Bassano del Grappa, forse non si sarebbe giunti a tanto se dalle competenti autorità giudiziarie, che si sono invece dimostrate incompetenti autorità giudiziarie, avessero fatto il proprio lavoro…la Giustizia, o almeno una briciola di Giustizia per noi del bassanese ci è giunta solo dal Tribunale di Cittadella - sez. staccata di Padova - ma si è dovuto aspettare il 2006 per vedere riconosciuto il danno che questa azienda ci ha lasciato in eredità, non erano fantasie e il/i responsabili hanno un nome ed un cognome, non è stata neppure opera dei talebani come qualche assessore dell’amministrazione comunale di Tezze sul Brenta aveva ipotizzato (parlando di Procure diverse mi sembra di parlare di Giustizie diverse!!!), mi sia legittimo pensare a questo punto che se ad occuparsi ancora una volta di quest’ultimo caso di inquinamento, denunciato nel 2002, fosse stata ancora la Procura di Bassano del Grappa, anziché quella di Cittadella, tutto si sarebbe concluso in una bolla di sapone… Oggi probabilmente sempre a causa di particolari amicizie la Procura di Bassano del Grappa chiude gli occhi e come nulla fosse chiede l’ARCHIVIAZIONE del procedimento per i morti e gli ammalati di questa stessa fabbrica. A BASSANO DEL GRAPPA NON POSSIAMO PARLARE DI GIUSTIZIA, CHIUDETE QUELLA PROCURA!

Questa colpevole mancanza e non curanza da parte della Procura di Bassano del Grappa, in questo procedimento di morti in fabbrica, evidenzia come non solo noi famigliari siamo beffati dalla Giustizia, ma come per primo sia beffato lo Stato che si dimostra incapace di garantire ai suoi cittadini un equo giudizio, l’ennesima proposta di archiviazione della Procura di Bassano non è niente meno, per me, che un invito esplicito a delinquere, tanto a finire in carcere sono solo i “ladri di polli”; l’ennesima proposta di archiviazione della Procura di Bassano del Grappa dimostra , per me, come in questo nostro territorio, l’inquinamento non si sia propagato solo nel sottosuolo! Giustizia…se esisti, da che parte stai?

Silvio Bonan