venerdì 24 luglio 2009

Il processo all'Eternit si farà


TORINO - Quando il gup Cristina Palmesino legge l'ordinanza di rinvio a giudizio per i due imputati dell'inchiesta Eternit, un applauso e un abbraccio sciolgono tutta la tensione accumulata in questi mesi d'attesa. Dovremmo dire anni - almeno trenta - di aspettative, lotte, dolore e speranza per la gente di Casale Monferrato, che ha patito questa tragedia. Almeno 1400 i morti nella cittadina piemontese. A cui si aggiungono i casi di Cavagnolo nel torinese, Ruviera in Emilia e Bagnoli in Campania. Una lunga catena di morti e malati: sono 3 mila in tutto quelli conteggiati nel capo d'accusa.

Il processo ai vertici Eternit si farà e inizierà il 10 dicembre prossimo. Sul banco degli imputati ci sono il barone belga Jean Loui De Cartier De Marchienne e il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny, che dopo aver trafficato nella lavorazione della fibra cancerogena è stato rappresentante dell'Onu per lo sviluppo sostenibile. Non sono dirigenti di secondo piano, ma i più potenti signori dell'amianto a livello internazionale: accusati entrambi di disastro doloso (reato che prevede fino a 12 anni di reclusione) e rimozione volontaria di cautele (fino a 5 anni). Non solo avrebbero causato il «disastro», ma non avrebbero nemmeno svolto azioni per prevenirlo né per limitarlo.

Il gup ha respinto tutte le obiezioni della difesa e ha accolto in toto le richieste della Procura di Torino, formulate al termine della maxi inchiesta coordinata dal pm, Raffaele Guariniello, che a caldo ha commentato: «E' stata scritta una pagina importante della tormentata storia dell'amianto in Italia e nel mondo». Un passo storico. Lo dicono un po' tutti, perché da nessuna parte, neanche in Francia, si è riusciti a intraprendere un processo così importante per numero di casi trattati e per il ruolo dei dirigenti coinvolti, la testa di un sistema. Al pm torinese risponde l'avvocato Astolfo Di Amato, che guida il pool di difesa di Schmidheiny: «L'amianto - ha detto - fa parte della storia industriale e sociale, e in tribunale si giudicano gli uomini, non la storia. Il processo non va caricato di significati extra giuridici, come per esempio la responsabilità sociale degli imputati».

Quello del giudice Palmesino è stato un provvedimento lungo e dettagliato. Poteva essere - come spesso succede - un rinvio generico e sintetico, invece, si è rivelato il contrario. Il gup ha voluto sottolineare come i reati contestati (che partono dal 1952) non possano essere prescritti. Un'affermazione chiara: «Il disastro è ancora in atto». Scrive nel documento: «Il disastro si sta ancora manifestando, provocando nuove malattie, sia negli ex lavoratori, sia nei cittadini che vivono in prossimità degli ex stabilimenti Eternit, o nei luoghi in cui è in uso materiale derivato dalla lavorazione dell'amianto». Inoltre «il materiale derivante dalla lavorazione utilizzato per costruzione, pavimentazione e coibentazione è ancora attualmente in uso nei siti».

Commosso, all'uscita del Tribunale, Bruno Pesce, leader del Comitato vertenza Amianto: «Dopo anni si restituisce dignità alle vittime. Sappiamo che gli scogli più grossi devono ancora arrivare, ma quella di oggi è una tappa importante». La sua è una lunga lotta, iniziata sul finire degli anni Settanta e sempre accompagnata da una forte partecipazione sociale. Ieri, erano in 140 i casalesi in aula. Sono quelli che, con altre 550 fra persone fisiche ed enti territoriali, si sono costituiti parte civile. Tra loro c'è chi lavorava all'Eternit, chi ha contratto l'asbestosi, chi in quella fabbrica non ci ha mai messo piede, chi ha perso il padre, il marito, la moglie o il fratello. Tutti portavano un adesivo giallo con scritto «Strage Eternit: giustizia». Nei corridoi, dopo la notizia, sorrisi, lacrime e felicità. Finalmente vittime e parenti vedono aprirsi una porta di speranza. Troppe volte la loro ansia di giustizia è stata delusa. Escono dal Palagiustizia e commentano la decisione del gup con poche ma significative parole: «Siamo felici». Lo dice, per tutti, una donna con gli occhi lucidi. Qualcuno fa la «V» di vittoria, con l'indice e il medio della mano destra. Altri si sfogano: Pietro ha 63 anni e racconta di quando lavorava all'Eternit: «Scaricavamo l'amianto blu, il più pericoloso. Di trenta che erano con me, siamo sopravvissuti in due. E adesso quella gente là deve andare in galera». A mezzogiorno ritornano a Casale, la città della fabbrica del cancro, il maledetto mesotelioma. Ma anche la città che ha messo in atto la più grande bonifica (non certo per opera dell'azienda che i suoi rifiuti li ha lasciati lì dove stavano). Presto, in via Oggero dove sorgeva il grande stabilimento dovrebbe nascere un parco. Si chiamerà «Eternot». Un nome che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni.

Sergio Bonetto è l'avvocato di parte civile. Insieme a Pesce, alla pasionaria Romana Blasotti Pavesi, a Nicola Pondrano (segretario della Camera del lavoro di Casale), è uno dei protagonisti di questa storia. Da anni difende le vittime. «Adesso inizia un processo storico, che potrebbe essere d'esempio per tanti altri. Auspichiamo sia partecipato. Vorremmo, infatti, coinvolgere gli avvocati dei paesi europei, perché quello dell'amianto è un problema che va oltre i confini». I numeri fanno spavento: nelle previsioni, nei prossimi decenni i morti nel vecchio continente potrebbero raggiungere la cifra di duecentomila.

Mauro Ravarino
da il manifesto del 23 luglio

martedì 21 luglio 2009

Ma la strage continua anche a Palermo

Dopo gli incidenti della Toscana, questa mattina anche la Sicilia è stata nuovamente colpita dall'ennesima morte sul lavoro. La vittima è Francesco Vitiello, rimasto schiacciato da un trattore per lo scarico dei container al porto di Palermo. Vitiello era impegnato nelle operazioni di smistamento merci da una nave Snav, proveniente da Napoli e appena arrivata nel porto siciliano.

Dopo l'incidente i lavoratori portali della Sicilia hanno deciso uno sciopero di 24 ore: "Le condizioni di sicurezza sono precarie, un solo lavoratore all'interno delle navi rispetto ai tre del passato, svolge queste mansioni - ha spiegato all'agenzia Adnkronos Nino Napoli segretario Fit Cisl Portuali - Da tempo segnaliamo queste carenze, ma rimaniamo inascoltati". Le segreterie regionali di categoria hanno indetto 24 ore di sciopero per i lavoratori portuali, mentre i marittimi ritarderanno di un'ora le partenze di tutte le navi.

Nella fabbriche della Toscana
un morto e una grave esplosione

Dopo l'incidente mortale avvenuto sabato 18 alla Asso Werke di Fornacette (Pisa), in cui ha perso la vita il lavoratore Luigi De Muzio, domenica sera, alle ore 22, un altro grave episodio ha colpito l'industria toscana. Una fortissima esplosione all'interno delle Acciaierie Lucchini, provocata da un getto di acciaio liquido fuoriuscito da una paiola e venuto a contatto con l'acqua, ha coinvolto 6 lavoratori. Uno di loro è grave, a causa di un trauma toracico, gli altri 5 sono rimasti intossicati.

Come sottolinea un comunicato della Fiom/Cgil: "Questo incidente dimostra gravi carenze nei mezzi utilizzati e una più generale inefficienza nell'organizzazione del lavoro, a fronte dell'aumento della produzione con un minor organico coinvolto. Questo infortunio non può essere addossato alla fatalità o ad errori nei comportamenti dei lavoratori. Al contrario, è l'ennesima riprova che nella crisi le imprese (comprese quelle ad alto rischio, come le aziende siderurgiche) non applicano correttamente le norme per la tutela della salute dei lavoratori e, anzi, arrivano addirittura a disinvestire nella sicurezza con un conseguente aumento degli infortuni".

La Fiom ha proclamato per oggi 2 ore di sciopero, coinvolgendo non solo gli operai della Lucchini, ma tutti i lavoratori delle imprese che operano nello stesso sito siderurgico. "Come Fiom riconfermiamo la volontà di continuare a opporsi alla scellerata intenzione del Governo di cancellare il Testo Unico."

giovedì 2 luglio 2009

Il colpo di stato honduregno,
un fiammifero acceso per Obama

da il manifesto del 2 luglio 2009
un articolo di Gianni Minà

Alla fine il golpe militare in Honduras, il secondo paese più povero dell’America latina dopo Haiti, ha finito per nuocere più di tutti, per ora, alla nuova amministrazione Usa del presidente Barack Obama, che è rimasto praticamente con il fiammifero acceso in mano, specie considerando la sua più volte affermata intenzione di cambiare metodi e politica nel continente che, una volta, era “il cortile di casa” degli Stati Uniti.

Perchè è vero che Obama ha condannato il colpo di stato in Honduras, dichiarandosi “seriamente preoccupato per la situazione” e chiedendo “a tutti gli attori politici e sociali di quel povero paese di rispettare lo Stato di diritto”, ed è vero che sulla stessa linea si è espressa anche Hillary Clinton, ministro degli esteri, che ha ribadito “Sono stati violati i principi democratici”.

Ma nessuno può credere che l’ambasciatore Usa in Honduras, Hugo Llorenz, pronto a sua volta ad affermare “L’unico presidente che gli Stati Uniti riconoscono nel paese è Zelaya” (proprio il premier liberale deposto e cacciato in Costa Rica) non sapesse da tempo cosa stesse per succedere.

continua a leggere sul sito di Gianni Minà

lunedì 29 giugno 2009

No al golpe in Honduras

La pagina web del governo in Honduras è stata oscurata. Non è possibile inviare mail direttamente agli ufficili governativi e presidenziali.


Spett.le
Ambasciata dell’HONDURAS
alla c.a dell’Ambasciatore
Roberto Ochoa Madrid

Tel. +39-06-3207236
Fax +39-06-3207973
Email: embhon@fastwebnet.it

Noi cittadini, esponenti della società civile e politica italiana, giornalisti e uomini di cultura, difensori dei diritti umani, viste le gravi notizie che giungono dall’Honduras di un colpo di stato in atto in queste ore, condannato anche dall’Unione Europea, abbiamo sentito la necessità di costituirci autonomamente e spontaneamente in un Comitato provvisorio di solidarietà al presidente legittimo dell’Honduras Manuel Zelaya.

Condanniamo pertanto fermamente quanto sta avvenendo a Tegucigalpa ed esprimiamo grande preoccupazione per la situazione dei diritti umani, civili e politici del popolo hondureño, dal momento che circolano voci di militari armati per le vie della città e della presenza di francotiratori e chiediamo inoltre l’immediato ritorno di Manuel Zelaya alla presidenza del paese e il ripristino dell’ordine costituzionale.

dal sito di Annalisa Melandri

mercoledì 17 giugno 2009

Torino, mobilitazione e teatro
per lottare contro le morti bianche

La lotta contro le morti bianche punta su Torino con due giorni di iniziative giovedì 18 e venerdì 19 giugno al Caffè Basaglia di via Mantova 34. A organizzare l'evento è l'associazione Legami d’Acciaio (ex lavoratori ThyssenKrupp e familiari delle vittime) in collaborazione con la Rete Nazionale per la Sicurezza nei luoghi di Lavoro.

Spiegano gli organizzatori: "La piaga e la vergogna tutta Italiana, che fa detenere il triste primato in Europa al nostro Paese per i morti (1300 circa all’anno, 4 al giorno, 1 ogni sette ore) i feriti (decine di migliaia ogni anno) e gli invalidi da lavoro (ricosciuti dall’Inail nell’ordine delle migliaia), fa sì che questo tema sensibile e trasversale nell’opinione pubblica, citato e decantato dalle Istituzioni, dalle forze Politiche e dalle Parti Sociali (Sindacati compresi) non trovi ancora soluzioni".

Un impegno costante quello della Rete Nazionale, "per dare risposte e combattere lo stillicidio quotidiano, che c’era da prima della tragica e maledetta notte del 6 dicembre alla ThyssenKrupp e che continua senza tregua nella strage di lavoratori in tutto il Paese soprattutto nell’Industria, nell’ Edilizia e nell’Agricoltura". Una lotta che verrà ribadita a Roma il 27 giugno, con un'assemblea nazionale delle Associazioni delle Vittime da lavoro, delle Rsu-Rls, di lavoratori di tutto il Paese. Proprio in preparazione di questa Assemblea, Torino si mobilita, con una conferenza stampa giovedì 18 giugno alle ore 11 in via Mantova 34 presso il Circolo Arci “Caffè Basaglia", a cui seguirà venerdì 19, alle ore 19, un aperitivo/assemblea della Rete Nazionale Torino che farà da prologo allo Spettacolo a cura del Teatro delle Ceneri "Ballata per una Morte Bianca" (ore 21).

Per contatti: Ciro Argentino 339.5062186 (responsabile organizzativo e relazioni esterne Associazione Legami d’Acciaio)

lunedì 15 giugno 2009

Denis, che lotta per una scuola decolonizzata in Benin


Incastonato tra Togo e Nigeria, il Benin è una lunga striscia di terra, grande quanto un terzo dell’Italia, che si affaccia nel Golfo di Guinea, Oceano Atlantico, Africa occidentale. E’ un paese di 7 milioni di abitanti, prettamente agricolo e dall’economia fortemente arretrata. La sua storia politica è turbolenta e negli ultimi quarant’anni ruota attorno alla figura discussa di Mathieu Kérékou, presidente del Benin dal 1972 al 1991, con un regime marxista solo nel nome, e ancora dal 1996 al 2006, questa volta in veste «democratica».
Il Benin sconta tutti i problemi strutturali dell’Africa e del suo mancato sviluppo: il peso mai tramontato del colonialismo, la corruzione al potere e l’analfabetismo. Quest’ultima è la vera piaga: riguarda l’80% della popolazione. Soprattutto nelle zone rurali, dove le famiglie più povere vendono i figli più piccoli ai trafficanti di «vidomegons», dal nome dell’antica tradizione locale per cui nelle campagna si mandavano i figli a studiare in città dai parenti ricchi. Ma adesso dai parenti, per lo più, non ci vanno e comunque mai a studiare. L’Unicef stima che nel 2007 sono stati quasi 140 mila i bambini beninesi sottratti alle proprie famiglie per essere portati a lavorare nei mercati o nelle case della capitale Porto Novo o in quelle del centro economico Cotonou oppure nelle piantagioni di Nigeria Togo e Costa d’Avorio. Una vera e propria tratta di esseri umani.
Se c’è un luogo da dove dovrebbe ripartire la lotta contro l’analfabetismo e contro la tratta questo è la scuola. Le classi sono affollate e l’abbandono è frequente (anche a causa dell’ostacolo della lingua, il francese, che a casa i piccoli delle campagne non parlano). In Benin, c’è chi si batte per una formazione diversa, uno di questi è Denis Yao Sindété, avvocato, politico, insegnante, ex prigioniero del regime Kérékou. Mauro Ravarino lo ha incontrato a Novara lo scorso autunno. Questa la sua storia.


Denis nasce nel 1958 in un villaggio sulla costa atlantica, non distante dal Togo. Già da piccolo era un bambino con le sue idee: «A 5 o 6 anni – racconta - per poter andare a scuola bisognava dimostrare di sapersi toccare le orecchie con la mano opposta. Non ce la facevo ancora, ma la voglia di iniziare, di fare quello che facevano i bambini più grandi, era tanta. E, allora, mi misi a protestare. Alla fine cedettero e mia zia, che abitava in una cittadina a 20 chilometri di distanza, mi prese in carico». Cominciano le scuole elementari. Denis gioca, si applicava nei compiti e dà una mano nei lavori domestici.

Gli anni corrono, il ragazzo diventa grande. Alle superiori conosce la politica e prende parte ad un’associazione studentesca. «La libertà di associazione era proibita, erano permesse solo le organizzazioni formalizzate e riconosciute dal regime». Nel 1978 Denis si trasferisce a Cotonou per frequentare l’università e si iscrive alla facoltà di diritto. Gli anni sono caldi, sono diversi i tentativi di colpo di stato e, soprattutto, «cresce il malcontento popolare nei confronti del regime marxista di Kérékou e del suo partito Partito popolare rivoluzionario del Benin (l’unico riconosciuto), al pari della povertà e della corruzione al potere». Gli studenti reclamano migliori condizioni di vita e di studio. «Le facoltà erano poche, come i laboratori e le biblioteche. Un’offerta scarsa rispetto ai diecimila studenti di Cotonou». Denis prende parte alle mobilitazioni e si avvicina al clandestino partito comunista del Dahomey (antico nome del Benin): «Nulla a che fare con Kérékou, per lui il comunismo era solo una copertura, infatti, nel 1989 per costruirsi una facciata democratica disse che del marxismo non aveva capito nulla». La contestazione sale: «C’erano già state proteste tra gli studenti e diversi arrestati. Nel 1979 i movimenti erano al loro picco di partecipazione. Chiedevano a gran voce che i dirigenti della cooperativa universitaria (unica associazione studentesca ammessa) venissero eletti e non stabiliti a priori dall’esecutivo di Kérékou». Il governo usa la mano pesante. Durante una manifestazione pacifica ci sono arresti di massa di professori e studenti. Uno di questi è Denis. «Dissero che nella cooperativa era pieno di spie e la colpa di tutto era del Partito comunista». Alcuni dei manifestanti erano iscritti al Pcd, ma la maggior parte non aveva nulla a che fare. Così, Denis finisce in carcere, accusato di attentato alla sicurezza dello Stato. Prima a Cotonou, poi viene trasferito a Porto Novo.

Sono gli anni più duri. «Le condizioni erano terribili, vivevamo tutti ammassati. Quindici persone in celle di 9 metri quadrati, dormendo su stuoie incastrati piedi contro teste. L’igiene era inesistente e il rischio di malattie infettive altissimo. Ci torturavano. C’era chi impazziva, non ce la faceva, non resisteva. Un mio compagno morì per le percosse. Io mi ammalai, ma lo scoprii solo anni dopo: era tubercolosi». Nonostante le difficoltà, il gruppo di studenti e professori non si dà per vinto e inizia una battaglia interna, sensibilizzando i detenuti comuni. Le proteste e la denuncia sulle condizioni in cui sono costretti a vivere superano le mura della prigione e arrivano fino in Francia, ad Amnesty International, che adotterà, tra gli altri, il caso di Denis, considerato «prigioniero di coscienza». Passano quattro anni. «Nel marzo del 1983, io e altri nove riuscimmo ad evadere ed eludere la sorveglianza. Fuggimmo in campagna, in clandestinità. Fino all’agosto 1984, fu un periodo di forte repressione ma anche di proteste nella società che indussero il governo a concedere l’amnistia per i detenuti politici». Finalmente liberi. «Tornai all’università e ci ritrovammo noi sopravvissuti al carcere. Nel dolore e nella difficoltà eravamo ancora più uniti e consapevoli che la lotta per una società giusta e libera dovesse continuare». Un anno dopo scoppiano molti scioperi e rischia di nuovo l'arresto. Il governo gioca la carta della repressione e a Denis tocca nascondersi. «Ero ricercato vivo o morto – spiega – dal 1985 al 1989 rimasi in clandestinità, passando di casa in casa». Ma il mondo sta cambiando e anche il Benin se ne accorge. La morsa del governo - forse per questo e per gli equilibri che ne conseguiranno - si allenta. Il primo agosto del 1989, mancavano tre mesi al crollo del muro di Berlino, viene concessa un’amnistia generale per persone e organizzazioni. Intanto Kérékou si prepara a travestirsi da «democratico». Nel 1991 ci sono le elezioni, ma viene sconfitto; ritornerà in sella cinque anni dopo.

«E’ vero - commenta - le elezioni nel mio paese ci sono, ma non sono democratiche perché l’analfabetismo è la più grande piaga, riguarda oltre l’80 della popolazione. La corruzione dilaga ed è capitato spesso che votassero pure i morti. E poi, il clientelismo: i voti vengono comprati fuori dal seggio in cambio di un po’ di sale». Denis lo racconta con voce pacata ma ferma. E’ venuto a Novara per curare i postumi della tubercolosi contratta vent’anni fa in carcere e, inoltre, perché è in contatto da tempo con la sezione locale di Amnesty, con cui mantiene un rapporto epistolare dagli anni della prigionia.

Dopo il carcere e la clandestinità, Denis è riuscito a completare gli studi, si è laureato in scienze politiche e relazioni internazionali. Ha insegnato diritto nelle scuole superiori, dove un professore di ruolo prende 150 euro e un precario ne guadagna 100. Ora, lavora all’Iniref, un’ong che si occupa di ricerca e formazione. Nel frattempo, si è sposato con Philomene, che fa la maestra e insegna alle elementari davanti a classi sovraffollate: «L’ultima è di 116 bambini», racconta non senza stupore. Ma a scuola gli alunni ci vanno poco, in Benin la dispersione scolastica è enorme. Uno dei motivi dell’abbandono è la lingua francese, un ostacolo per molti. «La si insegna fin dal primo anno. Un vero trauma, perché i piccoli a casa non la parlano e sui banchi si trovano di fronte a tante difficoltà. E a un certo punto mollano la scuola e vanno a lavorare». Il francese è la lingua ufficiale del Benin, più che altro un retaggio coloniale: diffusa solo nei centri urbani, lo è per nulla nelle campagne. Le lingue indigene più utilizzate sono, invece, il fon e lo yoruba. «Ci battiamo – spiega Denis che in Benin è molto attivo nel sociale – per una proposta di legge che preveda la prima alfabetizzazione (almeno tre anni) nelle lingue nazionali e dal quarto anno si parta col francese». Solo dalla scuola possono nascere cittadini consci dei propri diritti. Solo combattendo l’analfabetismo si possono affrontare i problemi dell’Africa. «La mobilitazione è ampia e ha coinvolto anche i genitori. Il governo sembra intenzionato ad accettare un progetto di riforma, ma è un’attenzione solo formale. Per adesso, non ha fatto nulla. La verità è che la Francia non vuole. Fino a quando non ci emanciperemo dal colonialismo non cambierà nulla. E’ uno dei problemi fondamentali che affligge l’Africa, insieme all’analfabetismo e alla corruzione al potere». E, intanto, la crisi continua.

di Mauro Ravarino da R/umori fuori fuoco