martedì 19 ottobre 2010

La tragedia dell’amianto, da Casale Monferrato al Teatro di Alessandria

Da molti anni le strade e le case in cui viviamo tutti i giorni nascondono una pericolosa minaccia celata tra le tegole dei tetti, negli impianti di aereazione, nei tubi dell'acqua: l'amianto, materiale estremamente utile e polivalente utilizzato per differenti scopi, nonostante l'altissimo tasso di nocività per l'uomo e per l'ambiente riconosciuto in Italia dagli anni sessanta. Nel nostro Paese il problema dell'amianto è sempre stato affrontato con estrema superficialità e questo ha permesso che ditte come l'Eternit di Casale Monferrato proseguissero nella lavorazione e nella messa in commercio dell'asbesto fino al 1986, senza curarsi delle vittime che questo materiale ha provocato e continua tutt'ora a provocare tra ex lavoratori dell'azienda e cittadini (fino ad ora i decessi accertati causati dall'inalazione di polveri di amianto sono circa 1400, di cui 900 tra i dipendenti e 500 tra i cittadini).

La drammaticità della situazione in cui si trovano gli abitanti di Casale è tra le più gravi ed eclatanti in Italia, con una media di circa 50 morti all'anno per mesotelioma pleurico e asbestosi, centinaia di famiglie distrutte e un tasso di polveri di amianto presenti nell'aria ancora oggi sopra le norme; in più le malattie provocate dall'asbesto si manifestano solo dopo diversi anni dall'esposizione e questo significa che saranno ancora molte le vittime causate da questo materiale e dagli imprenditori che hanno deciso di continuare a utilizzarlo per gonfiare le proprie tasche, senza preoccuparsi della vita di migliaia di persone.
Ancora oggi le polveri di asbesto fanno parte della quotidianità della vita dei casalesi; i comitati e le associazioni che da anni lottano contro questa terribile piaga hanno più volte denunciato il fatto che solo il 50% dell'asbesto presente in città è stato bonificato correttamente e che sono ancora molte le abitazioni con tetti o altre parti di strutture in amianto, anche perché tuttora non esiste alcuna legge che impone ai privati di provvedere alla bonifica negli edifici di loro proprietà.

Evidentemente anni di lotta e di processi portati avanti dai comitati casalesi non sono bastati a far sì che le istituzioni e le ditte incaricate di bonificare e smaltire l'amianto si preoccupassero di farlo correttamente e senza rischi per le persone e questo è palesemente dimostrato da ciò che sta accadendo nelle ultime settimane nel Teatro Comunale di Alessandria.

Chiunque abbia seguito la questione sui giornali locali si sarà sicuramente reso conto dell'alone di mistero e di non detti che la dirigenza del teatro (in particolare nella figura della Presidente Elvira Mancuso), il Comune della città e la ditta Switch 1988, esecutrice della bonifica, hanno creato intorno alla faccenda, come se la verità non riguardasse i lavoratori, i 4000 cittadini che hanno attraversato il teatro durante il periodo a rischio e la cittadinanza tutta.
Cerchiamo di mettere un po’ di ordine anche se risulta particolarmente complicato.
La ditta Switch 1988 di proprietà del signor Maurizio Dufour ha eseguito i lavori di bonifica del teatro che gli sono stati affidati dal Consiglio di Amministrazione della Fondazione Teatro Regionale Alessandrino di cui fanno parte i signori Elvira Mancuso, Roberto Livraghi, Lorenzo Repetto (già Sindaco del Comune di Castelletto D’Orba e attuale Presidente dell’AMAG) e Gianluca Veronesi. Non è stata effettuata nessuna gara di appalto pubblica per l’esecuzione dei lavori, ma è stata direttamente scelta la ditta Switch 1988 con sede nella città di Genova e una sede operativa nella città di Castelletto D’orba in provincia di Alessandria.

I lavori non sono stati eseguiti regolarmente se è vero che attualmente il teatro è chiuso per la presenza di polveri di amianto. Le prime analisi fatte da un laboratorio privato (di cui ad oggi viene tenuto nascosto il nome ma che è sulla bocca di centinaia di cittadini) escludevano la presenza dell’amianto.

Dopo l’intervento dell’ASL si è chiarita la questione e conseguentemente si è optato per la chiusura del teatro e per una nuova e necessaria operazione di bonifica.
Si apprende stasera da fonti giornalistiche che per i nuovi lavori, il consiglio di amministrazione della fondazione teatro regionale alessandrino di cui fanno parte i signori Elvira Mancuso, Roberto Livraghi, Lorenzo Repetto (già Sindaco del Comune di Castelletto D’Orba e attuale Presidente dell’AMAG) e Gianluca Veronesi abbia scelto la ditta Switch 1988 con sede operativa nella città di Castelletto D’Orba.
In pratica la ditta, che ha eseguito i primi lavori di bonifica causando lo spargimento dell’amianto per tutto il teatro, viene nuovamente incaricata di rieseguire i lavori di bonifica vista la sua grande competenza nel settore.

I cittadini e i lavoratori hanno il diritto di sapere cosa sta accadendo nel Teatro di Alessandria e di capire come questa situazione estremamente grave e pericolosa venga gestita e affrontata dalla Giunta Comunale e dall'amministrazione del TRA.
Cittadini e lavoratori hanno il diritto di avere risposte ad alcune banali domande:
1) Per quale ragione non è stata eseguita una gara d’appalto per l’esecuzione dei lavori?
2) Per quale ragione il consiglio di amministrazione del TRA ha scelto la Switch 1988 con sede operativa a Castelletto D’Orba per eseguire i lavori?
3) Chi fra i membri del consiglio di amministrazione di cui fanno parte i signori Elvira Mancuso, Roberto Livraghi, Lorenzo Repetto (già Sindaco del Comune di Castelletto D’Orba e attuale Presidente dell’AMAG) e Gianluca Veronesi ha proposto che fosse la Switch 1988 con sede operativa a Castelletto D’Orba ad eseguire i lavori?
4) Chi doveva vigilare sull’esecuzione dei lavori?
5) Quale laboratorio ha detto che non c’era la presenza di amianto all’interno del Teatro?
6) Per quale ragione si sceglie nuovamente la ditta Switch 1988 con sede operativa a Castelletto D’Orba per eseguire i nuovi lavori?
7) Per quale ragione non si fa una gara d’appalto?
E molte altre domande che si potrebbero aggiungere.

Per queste ragioni, Venerdì 22 ottobre alle ore 21 presso il Laboratorio Sociale di via Piave 65 si terrà un dibattito pubblico.
Ad aiutarci ad affrontare la questione amianto parteciperanno:
Bruno Pesce (Comitato vertenza amianto Casale Monferrato)
Romana Blasotti Pavesi (Associazione famigliari vittime amianto Casale Monferrato)
Luca (Associazione Voci della Memoria)
Cittadini e Lavoratori contro l’amianto

da Alessandria in Movimento

lunedì 27 settembre 2010

Casale Chiama Ciriè. IPCA: storia d'una strage
Venerdì 1° ottobre a Casale Monferrato

Raccontare per non dimenticare. E' questo l'impegno dell'associazione casalese Voci della memoria, nata da pochi mesi, ma già molto attiva sul territorio per dare parola alle ingiustizie, quelle del lavoro, quelle di un'Italia che dimentica troppo spesso le sue vittime, protagoniste di storie ormai passate sotto silenzio. Come le vittime della tragedia della fabbrica IPCA di Ciriè. Si racconterà la loro storia venerdì 1° ottobre, al circolo Pantagruel di Casale Monferrato (via Lanza 28), alle ore 21.

A ricordare, spiegare e raccontare saranno Daniele Stella, figlio di Albino operaio Ipca, Cinzia Franza, figlia di Benito operaio Ipca, assessore al Comune di Ciriè, e Paolo Randi ex-operaio Ipca, un sopravvissuto di quella fabbrica che ha ucciso praticamente tutti i suoi dipendenti.

Fondata nel 1922 dai fratelli Sereno e Alfredo Ghiotti nel territorio della frazione Borche, l'Industria Piemontese dei Colori di Anilina(IPCA) è passata alla storia per una tragica vicenda di inquinamento ambientale e per i moltissimi lavoratori deceduti per cancro alla vescica. Oltre 200 le vittime di una strage silenziosa che è potuta emergere solo grazie alla strenua lotta di due operai, Albino Stella e Benito Franza, entrambi malati di un tumore alla vescica che li porterà alla morte, ma forti abbastanza per presentare denuncia nel 1972 contro la fabbrica assassina.

Si racconterà la loro storia venerdì a Casale Monferrato, la storia della famiglie, del duro lavoro in fabbrica, delle troppe scomparse una dopo l'altra. In platea una presenza importante: i membri dell'Associazione Famigliari e Vittime Amianto, testimoni e protagonisti della lotta più grande di Casale Monferrato, quella contro la Eternit.

Per contatti e informazioni: info@vocidellamemoria.org, luca@vocidellamemoria.org, diego@vocidellamemoria.org, pamela@vocidellamemoria.org. Tel: 392.7449176

giovedì 23 settembre 2010

Addio a Pietro Mirabelli. Un uomo intero.
Il ricordo di Idra e Medicina Democratica

Una spinta naturale e irresistibile alla giustizia sociale, alla dignità della persona, ai diritti del lavoratore: questo e tanta calda umanità nel DNA di quest’uomo, Pietro Mirabelli, uomo intero, bandiera di un Sud che dopo 150 anni di cosiddetta unità d’Italia l’emigrazione ancora dissangua.

Il 29 marzo 2001 “Pietro il minatore”, delegato sindacale CGIL, volle scrivere al presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, dal cantiere TAV del Carlone, una lettera aperta.

“Le ho stretto la mano quando, un mese fa, è venuto a “festeggiare” nella galleria di Vaglia dell’Alta Velocità ferroviaria l’abbattimento di un diaframma. L’ho chiamata con rispetto, Le ho stretto la mano e Le ho sussurrato: “Ci salvi Lei, Presidente!”. Ricorda? Mi ha guardato, ha avuto un moto di sorpresa forse: ero proprio io, quel rappresentante sindacale delegato alla sicurezza che Le aveva scritto poche ore prima per chiedere di poterLe parlare in occasione della sua visita. Avrei voluto raccontarLe i problemi che assillano ancora oggi la vita, e umiliano la dignità, di centinaia e centinaia di lavoratori aggiogati al ciclo continuo e a condizioni ambientali abbrutenti, qui nella civilissima Toscana, nelle viscere dell’Appennino, in mezzo all’acqua e al fumo, a mille chilometri da casa. Ma la Prefettura di Firenze mi informò che quel giorno Lei avrebbe avuto troppo poco tempo. E che tuttavia avrei potuto scriverLe, certo che Ella mi avrebbe letto.
Ecco dunque ciò che un delegato sindacale eletto dai minatori della TAV Le chiede con un ultimo (creda: ultimo) lumicino di speranza. Dopo che tutte le altre strade si sono mostrate sbarrate. E’ un appello con le valigie in mano, signor Presidente. E’ un appello a intervenire. A chi le scrive è rimasta solo la scelta di lasciare il proprio lavoro, la propria rappresentanza, le proprie speranze. Il proprio stesso Paese”.


E così si chiudeva, quella lettera che non passò certo inosservata, dopo che anche il cardinale di Firenze mons. Silvano Piovanelli aveva perorato in una omelia pasquale nella cattedrale di Santa Maria del Fiore la causa dei moderni ultimi:

“Le scrivo, Presidente, con un piede dentro e uno fuori da quel cantiere di Vaglia, in provincia di Firenze, in cui lavoro da due anni e che anche Lei ha visitato in un giorno molto, molto particolare. Non credo che potrò resistere a lungo nel clima di ostilità che si è costruito intorno a questa lotta giusta e condivisa. Temo proprio di dover gettare la spugna. Di dovermene andare.
Oso aspettarmi da Lei, Presidente, una risposta a questo ultimo grido di speranza, che Le indirizzo prima di essere costretto a cercare lavoro e dignità all’estero. Dove spero di trovare quel rispetto, quella civiltà, che la nostra Repubblica non sta dimostrando di saper garantire né a chi ha voce per protestare né ai mille protagonisti muti della costruzione di questa opera “pubblica” insieme alla quale si stanno distruggendo in realtà le loro vite, la loro dignità, le loro speranze. Ma in fondo anche i diritti di tutti.
Tutte le volte che ripasserò dalla Toscana, signor Presidente, mi farà male al cuore pensare che cosa c’è dietro l’immagine di questa regione, fino a ieri così positiva e progressiva, per tutti noi nel nostro povero Sud! Cosa c’è dietro questa mitica “terra delle libertà e dei diritti”!
Se non interverrà Lei, chi si potrà dire che la sta vincendo questa battaglia, signor Presidente? Lo Stato o la Prepotenza? Il Diritto o la Sopraffazione?”.


Da allora, è cambiato qualcosa?
Molti segni indicano che no, che in certi luoghi le condizioni di lavoro sono diventate addirittura peggiori.

Qualche mese fa, dopo aver perso l’impiego nei cantieri TAV, dopo mesi di inutile ricerca di un lavoro, l’alfiere dei diritti e della sicurezza ha dovuto abbandonare un nuovo impiego nei cantieri della Variante di valico, troppo umilianti per lui. Pietro è davvero partito, ha davvero lasciato non solo la Calabria e il suo paese di minatori da generazioni, ma anche l’Italia. Ed è andato a morire in Svizzera. Solo.
Di noi, era per molti versi il migliore. Di sicuro il più esposto, il più coraggioso. Ma alla fine non siamo stati in grado di trattenerlo. Non abbiamo saputo difendere fino in fondo chi difendeva l’umanità del lavoro. Un uomo che dalle autorità pubbliche avrebbe meritato attenzione, plauso e tutela, è morto solo, in terra straniera. Insieme a quei massi di galleria è precipitata su di lui la storia di un Sud che non cessa di soffrire e di emigrare, la storia di un Nord che non cessa di coltivare un’idea distorta ed egoistica di progresso, una storia che non sembra voler cambiare marcia e direzione. Ma noi non dimentichiamo, e anzi continuano a darci forza, il suo sorriso fraterno, il suo acuto intuito, il suo impegno intelligente, generoso e determinato.
Medicina Democratica onlus
Associazione di volontariato Idra

da Altra Città

martedì 20 luglio 2010

Uralita condannata, sentenza storica in Spagna

La lotta giudiziaria all'amianto continua, non solo in Italia. Dalla Spagna arriva notizia di una sentenza storica, che condanna la Uralita (dal 1959 partecipata Etrnit) a risarcire gli abitanti dei paesi di Cerdanyola e Ripollet, comuni vicino a Barcellona, tra i quali aveva sede la fabbrica. Asbestosi, mesoteliomi, danno morale: ecco l'articolo dal quotidiano iberico El País, del 14 luglio 2010

Il tribunale di Madrid ha condannato Uralita a indennizzare con 3.918.594,64 euro un gruppo di abitanti di Cerdanyola e Ripollet (Barcellona) per i danni derivati dall'esposizione alla polvere di amianto generata dalla fabbrica che l'azienda aveva tra le due località. I danneggiati da parte loro richiedevano 5.414.139,54 euro.

La sentenza è storica per la Spagna. E' la prima volta infatti che coloro che chiedono i danni non sono lavoratori della fabbrica, ma 47 abitanti che vivevano nei pressi e che, secondo la sentenza, soffrono di malattie prodotte dal contatto avuto direttamente con l'amianto che utilizzava la Uralita per fabbricare i suoi materiali. Di questi 47 abitanti, sono stati 45 coloro che hanno ottenuto sentenza favorevole.

Il Tribunale di Primo Grado numero 46 di Madrid ha considerato come "è chiaro" che la causa delle malattie dei richiedenti, o dei loro familiari morti, è l'attività industriale portata avanti dal 1907 nella fabbrica di Uralita, situata tra Cerdanyola e Ripollet, municipi dove i malati hanno risieduto per decenni.

Secondo la sentenza, i mezzi di trasmissione che hanno causato le malattie vanno dalle emissioni della fabbrica in forma di polvere di amianto, alla manipolazione dei vestiti dei lavoratori da parte dei familiari nelle rispettive case, alla contaminazione derivata dalla degradazione dei depositi dei residui derivati dalla stessa attività industriale.

"La sentenza è storica. Siamo molto contenti. Non si tratta dei soldi, ma del riconoscimento: la Uralita ha contaminato tutto quello che avevamo attorno a noi", ha commentato Jesús Ferrare, membro della Asociación de Afectados por el Amianto, che ha assistito al processo di Madrid in rappresentazione dei malati. I compensi economici, ha detto, spero che servano almeno "per far fare ai malati, che non si possono curare, la vita più comoda possibile considerando i loro problemi". Sulle due persone per cui la sentenza non è stata favorevole questa settimana si riuniranno con i propri avvocati, per studiare se presentare ricorso. "Sappiamo che Uralita farà ricorso. Però almeno abbiamo aperto una via. Speriamo che tutti i malati si rendano conto, grazie alla sentenza, che, per quanto grande sia Uralita, si può vincere". Per ora Uralita non rilascia dichiarazioni. L'impresa sta analizzando la sentenza.

La lista degli indennizzi è lunga. Sono 45 i malati a cui è stata riconosciuto che l'infermità è legata all'amianto e il giudice ha accordato compensi che vanno da 43mila euro a 470mila euro. I malati soffrono per lo più di placche pleuriche, che possono provocare problemi respiratori che limitano le attività del malato. Alla maggioranza è stato riconosciuto il danno morale, che gli avvocati hanno chiesto, trattandosi di malattie incurabili e che peggiorano nel tempo. I compensi economici più alti vanno a chi soffre di lesioni polmonari già in fase avanzata, e che obbligano i malati, per esempio, a usare bombole di ossigeno per respirare, così come a chi soffre dell'incurabile mesotelioma.

Durante il processo, la Uralita ha riconosciuto che negli anni Settanta spargeva residui di fabbricazione e tubi di fibrocemento per le strade non ancora asfaltate. Con la pioggia, il materiale si compattava per le strade. I malati hanno spiegato di non aver mai creduto che fosse pericoloso e per questo, essendo bambini, giocavano con i resti del materiale tossico.

domenica 18 luglio 2010

Guariniello invitato in Brasile
Là come a Casale 30 anni fa

articolo di Silvana Mossano, da La Stampa del 17 luglio 2010

C’è chi dice che si esagera a continuare a parlare di amianto. Che troppo si è detto e che l’argomento non "tira" più. Costoro sono sicuramente dei fortunati perché non hanno mai visto da vicino un loro amico o un famigliare soffrire, prima ancora che per gli effetti della malattia, per il terrore gelido nel momento in cui viene comunicata la diagnosi. E sono altresì degli invidiabili ottimisti perché sono certi che non ne verranno mai sfiorati. Costoro, ad esempio, ritengono che, grazie alla legge del ‘92 che vieta l’amianto in Italia, il problema sia stato cancellato dalla faccia della Terra. Invece, i suoi tentacoli mortali sono ancora in agguato e continueranno a tormentare cittadini ignari fino a quando dei ricercatori capaci, con il sostegno di adeguate risorse finanziarie, non troveranno una cura per "sfangarla".

Costoro forse si illudono che l’amianto sia confinato a Casale? In centinaia di città per 80 anni sono state vendute migliaia di tonnellate di tetti e tubi di "eternit" che, a dispetto del nome, non sono eterni, invecchiando si sfaldano. Costoro non vogliono credere che, come è scientificamente provato, il mesotelioma "ti piglia" anche se hai respirato una sola fibra e non serve prolungata esposizione (come è, invece, per l’asbestosi). Costoro pensano che, smettendo di parlarne, il problema si risolva da sé. Ma non è così.

Lo dimostra un filmato, girato un paio di settimane fa dal documentarista Niccolò Bruna, in Brasile, dove l’estrazione e la lavorazione di amianto è in vigore come in altri luoghi del mondo. Là, ora, prevalgono le identiche argomentazioni che, qui, 30-40 anni fa, erano il "vangelo" delle lobby amiantifere. Gli "ingegneri dell’immagine", quelli che sanno come far passare messaggi rassicuranti (consigliando anche di togliere i manifesti da morto fuori dallo stabilimento… meglio non vedere), continuano a fare con diligenza il loro mestiere celando i pericoli ed evidenziando i benefici. Così, non i produttori, ma i loro operai, i medici, i sindacalisti intervistati da Niccolò Bruna dichiarano l’orgoglio di lavorare per l’Eternit, di vivere nella città di Minaçu, nata nel ‘67 nel bacino di una cava di amianto a cielo aperto, 33 mila abitanti come Casale, di ricavare dalla fabbrica benessere e progresso tanto da desiderare, come massima aspirazione, che "mio figlio, da grande, scelga di lavorare qui". Sono tranquilli perché sono stati persuasi che "la lavorazione dell’amianto, adesso, è sicura; il pericolo c’era sì, ma in passato".

Uguale frase veniva dichiarata pubblicamente dai dirigenti Eternit 30 anni fa: i giornali lo documentano. I manuali, a uso interno dei vertici, e i verbali con le strategie di immagine predisposte dai professionisti di public relations, e che il pm Guariniello di Torino ha sequestrato, lo confermano. A instillare il dubbio nelle ferree convinzioni brasiliane proverà una delegazione di casalesi, tra cui Bruno Pesce e Nicola Pondrano, in un viaggio laggiù a fine agosto. E la Federazione nazionale dei procuratori della Repubblica del Brasile che si occupano di cause di lavoro ha invitato espressamente anche il pm Guariniello.

Non se n’è parlato troppo di amianto. Non abbastanza. È lodevolissimo, quindi, che una giovane casalese, Eleonora Cortello, nella tesi con cui si è laureata nei giorni scorsi in Giurisprudenza ad Alessandria, dal titolo "La sorveglianza sanitaria sul luogo di lavoro", abbia voluto dedicare un capitolo al "Caso Eternit. Un esempio emblematico". E si continuerà a parlarne, al processo di Torino. Lunedì, all’ultima udienza prima della pausa estiva, i testimoni chiamati dall’avvocato di parte civile Sergio Bonetto sono: Italo Busto, fratello di Piercarlo, morto a 33 anni di mesotelioma (atleta, correva alla pista attigua all’Eternit), Vittorio Giordano, di Legambiente che, insieme a Luisa Minazzi e altri ambientalisti, ha condotto strenue battaglie, Alberto Deambrogio, che interviene per conto dell’Associazione italiana esposti amianto.

martedì 6 luglio 2010

Processo Eternit: in aula Thomas Schmidheiny

Il settore amianto è sempre stato appannaggio di Stephan Schmidheiny. Lo ha confermato il fratello Thomas, sentito oggi al processo Eternit di Torino come persona informata sui fatti. La suddivisione dei compiti è stata un fatto naturale, perché i settori sono sempre stati distinti, ha spiegato, da circa un secolo.

Thomas, che si è sempre occupato di cemento, ha detto che alla fine degli anni Sessanta primi anni Settanta, i due fratelli iniziarono un periodo di formazione nella aziende di famiglia, lui in Perù nel settore del cemento, il fratello in Brasile e in Africa per il cemento-amianto. E da metà degli Anni Settanta entrambi assunsero responsabilità di vertice ognuno nel proprio campo, inizialmente insieme al padre Max poi in modo via via sempre più autonomo fino a quando – nel 1984 – il papà si ritira dal lavoro.

Altri importanti elementi sono emersi dalla deposizione di Leodegar Mittelholzer, ex manager Eternit che è entrato nel gruppo nel 1979 e ha gestito la fase conclusiva, quella della amministrazione controllata prima e del fallimento poi. Paradossalmente è proprio nel 1984, quando l'attività di Eternit è ormai residuale e si sta concludendo, che Eternit redige "Il manuale di sicurezza". Viene spontaneo chiedersi: perché si è atteso quando ormai Eternit era a un passo dal fallimento? Forse perché a quel punto era come un libro dei sogni?

Gli avvocati della difesa hanno poi sottolineato che negli ultimi dieci anni vi furono 10-15 miliardi di lire di investimenti sull'ambiente di lavoro, ma poi - a una domanda precisa della Procura - Mittelholzer ha risposto confermando quanto detto in un processo già concluso a Siracusa e cioè che gli investimenti riguardavano la sostituzione di filtri rotti. Quindici miliardi di lire – 7,5 milioni di euro – in filtri rotti? Ridicolo...

Dalla deposizione di Mittelholzer è comunque emerso che il "Numero 1", "il proprietario" della holding amianto, del settore asbesto, insomma, era proprio Stephan Schmidheiny. Altro fatto estremamente importante: nel 1979 quando fu assunto gli fu detto chiaramente che c'era un "rischio amianto" e che consisteva in tre patologie: asbestosi, tumore al polmone e mesotelioma. Informazioni, ha precisato, che erano a disposizione di tutti i manager di Eternit. E, inoltre, che fin dal 1976 Stephan Schmidheiny si mostrava consapevole del rischio e che mirava a sostituire l'amianto con fibre alternative non pericolose. Sostituzione che non avvenne però mai - sostanzialmente - per una questioni di costi e perché Eternit non avrebbe retto il confronto con la concorrenza.

Ultimo teste Luigi Antoniani, classe 1928, con l'asbestosi dal 1975, a lungo nel consiglio di fabbrica, che tra tante esperienze ha ricordato la visita di un azionista belga con il quale gli operai chiedevano un incontro da tempo. Li ricevette nel suo ufficio durante una riunione e li maltrattò, prima dicendo di attendere e poi cacciandoli senza dar loro modo di parlare. Poi andò ai magazzini e vendendo alcune lavoratrici in attesa di iniziare il proprio turno, probabilmente ritenendole fannullone perché in quel momento erano sedute le fece licenziare in tronco.

articolo di Massimiliano Francia, dal sito de Il Monferrato del 5 luglio 2010

sabato 3 luglio 2010

Mantova, morti del petrolchimico
Dodici manager a processo

Il giudice per le udienze preliminari di Mantova ha prosciolto solo tre dirigenti. La prima udienza è stata fissata per l11 gennaio 2011

Il giudice per le udienze preliminari di Mantova ha rinviato a giudizio 12 dei 15 imputati per le morti all'ex Montedison di Mantova. Prosciolti soltanto tre dirigenti, Gianfranco Antonioli, Giovanni Puerari e Alvise Conciato, che all'epoca dei fatti erano responsabili di società non collegate con la struttura produttiva di Mantova. La prima udienza del processo, che dovrà far chiarezza sulle morti di 71 operai avvenute nel petrolchimico tra gli anni '80 e '90 per l'esposizione a sostanze cancerogene come benzene e amianto, è stata fissata per l'11 gennaio 2011.

I dodici imputati dovranno rispondere di omicidio colposo e di omissione volontaria di cautele per prevenire infortuni sul lavoro. Compariranno in tribunale: Giorgio Porta, Amleto Cirocco, Gaetano Fabbri, Gianni Paglia, Francesco Ziglioli, Sergio Schena, Giorgio Mazzanti, Pier Giorgio Gatti, Paolo Morrione, Riccardo Rotti, Andrea Mattiussi e Gianluigi Diaz.

L'udienza preliminare davanti al Gup Dario De Luca ha coinvolto quindici tra manager e direttori di stabilimento del Petrolchimico di Mantova. L'accusa, formulata dai pm Giulio Tamburini e Marco Martani, dopo un'indagine durata nove anni, è di omicidio colposo, lesioni gravissime colpose e omissione dolosa di cautele sugli infortuni. Sarebbero i presunti responsabili della morte per tumore, dovuta all'esposizione ad amianto e benzene, di decine di lavoratori, tra il 1970 e il 1989 nello stabilimento di Mantova.

Si sono costituiti parte civile il Comune di Mantova, la Regione Lombardia, i sindacati e alcune organizzazioni ambientaliste, oltre ai famigliari delle vittime, che durante le udienze sono rimasti collegati in video conferenza con la Corte di Assise dall'aula magna dell'università.

UN'INCHIESTA DURATA NOVE ANNI
All'inizio sono state esaminate oltre 200 cartelle cliniche di operai mantovani morti per varie forme tumorali. Poi la Procura, sulla scorta delle consulenze mediche, ha ristretto l'attenzione su 71 casi, sui quali c'era un nesso tra l'esposizione ai veleni e la malattia. Operai uccisi da benzene, stirene, benzene e amianto, i veleni lavorati dallo stabilimento Montedison. Gli imputati del processo, vertici delle società che si sono alternate alla guida dello stabilimento del Frassino tra gli anni '70 e '80, dovranno rispondere della morte di 71 persone.

I lavoratori del petrolchimico sono morti di mesotelioma, tumore tipico da esposizione all'amianto, di leucemie, cancro al polmone e al pancreas, associabili invece a benzene e stirene. In otto anni di lavoro, sentiti decine di testimoni e vagliate migliaia di documenti, la Procura ha ricostruito minuziosamente la storia aziendale di ognuno dei lavoratori, gli spostamenti nei reparti e le lavorazioni con cui sono entrati a contatto.

Di qui il fiume di accuse ai responsabili di stabilimento e ai presidenti e amministratori delle società che lo dirigevano. Tutti responsabili, secondo i magistrati, di conoscere la pericolosità delle lavorazioni e di non aver fatto interventi per evitare le tragiche conseguenze sui lavoratori. Il giudice delle udienze preliminari ha ritenuto fondate le accuse ha deciso di rinviare a giudizio dodici dei quindici imputati. Dovranno rispondere di omicidio colposo e omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro.

dal sito de La Gazzetta di Mantova