"Alberto aveva 47 anni, Mario ne aveva 53, Franca 58, come Evasio. Lo chiamavamo “il palombaro”, perché andava in giro ricoperto di sacchetti di plastica dicendo: “Ho una bella moglie giovane, un figlio piccolo, non voglio morire”. Se n’è andato anche lui. Erano i miei compagni, lavoravano con me. Persone con cui ho diviso il panino, tutti i giorni, e anche i momenti di allegria. Morivano, i miei amici morivano. Era la quotidianità di questi addii che rendeva la situazione insopportabile".
Le parole di Nicola Pondrano hanno ammutolito l’aula 1 del Tribunale di Torino, durante l’ottava udienza del maxiprocesso Eternit. La prima deposizione, lunga, sofferta, per un uomo, operaio, delegato e poi dirigente sindacale della Cgil di Casale, che ha passato oltre 30 anni a battersi contro l’amianto e i suoi effetti. È iniziata così la lunga serie di audizioni al maxiprocesso Eternit, respinta dalla Corte la richiesta della difesa di chiamare a testimoniare tutte le parti lese e ammessi solo due consulenti per parte e due testimoni per ogni titolo di prova. Quattro ore di testimonianza in cui l’uomo, assunto nello stabilimento di Casale nel 1974 a poco più di vent’anni, ha raccontato il modo di lavorare in fabbrica, le prime prese di coscienza di una tragedia già in corso da tempo, ma allora ancora senza volto e senza nome.
"Hanno iniziato a insospettirmi i tanti, troppi, manifesti che in campagna si definiscono “da morto” appesi all’esterno della fabbrica. Riportavano nome, cognome ed età. Tutti giovani, 50, 48 anni. Io e gli altri lavoratori ci interrogavamo sulle polveri, evidenti in quello stabilimento vetusto. Si vedevano a occhio nudo, sulle tute blu che portavamo a lavare a casa a fine settimana. Si vedevano nei reparti". Così come per le strade, quando camionette scoperte trasportavano in città gli scarti di produzione frantumati. "Bastava un soffio di vento e le polveri si spargevano ovunque".
Che in Eternit si morisse di amianto si sapeva da qualche tempo. Aveva iniziato ad occuparsene il prete operaio Bernardino Zanella che ispirò l’impegno di Pondrano nei primi anni di lavoro in fabbrica, e disegnò una prima mappa grezza delle fonti di rischio dell’Eternit. Ma lo sapeva anche la coscienza collettiva dei lavoratori. "Mi ricordo Piero Marengo. Stava seduto su un sacco di amianto, dimostrava ottant’anni anche se ne aveva molti meno. Era uno degli ultimi facchini della Eternit ad aver lavorato l’amianto con le mani e averlo spostato con il forcone. Si trovava in un reparto in cui io, giovane operaio e delegato sindacale, un giorno ero andato a curiosare. Mi ha visto giovane, forse più giovane degli anni che avevo, e mi ha detto: “Cosa sei venuto a fare qui dentro. Sei venuto a morire anche te?”".
Ma la questione inizia presto ad emergere anche nei documenti, nei volantini diffusi dal consiglio di fabbrica. Da una parte Pondrano, membro della commissione ambiente di quel consiglio, che si batte assieme agli altri sindacalisti, si arrabbia, rivendica, cerca una conferma scientifica, che trova quando si comincia a parlare di un tumore specifico legato a questo tipo di lavorazioni, il mesotelioma. Dall’altra parte l’azienda, che sminuisce, e parla addirittura in difesa dell’amianto blu. Nel 1978 il Sil (Servizio Igiene Lavoro), strumento tecnico della Eternit addetto alle rilevazioni in fabbrica, con cui i sindacalisti hanno frequenti colloqui, emette un documento in cui sostiene che i dati sull’ambiente nello stabilimento siano sotto i limiti imposti dalla legge, e chiude "… ricordatevi che il fumo di sigaretta è nocivo e provoca il cancro".
Il botta e risposta tra il pm Gianfranco Colace e Nicola Pondrano, anche attraverso l’utilizzo di filmati storici, ricostruisce passo dopo passo quali fossero le modalità di lavoro, l’utilizzo e il trattamento dei materiali di scarto delle produzioni, dove e come si mangiava, dallo scaldavivande portato da casa alla mensa istituita nel 1978. Poi i reparti. Quelli dove si lavorava a mano, e quelli più “balordi”, in cui Pondrano, cassa integrato e vittima come molti altri della crisi che colpì l’azienda alla fine degli anni ‘70, viene mandato a lavorare saltuariamente. Qualche volta a pulire i filtri delle polveri, protetto solo da una tuta di carta, oppure per due mesi a insaccare il materiale macinato dal mulino Hazemag.
"Nel 1976 avevo 26 anni. Andavo lì con un sacco in mano, la polvere cadeva pesantemente dentro e si alzava. Avevo tanti capelli e quando arrivavo a casa mia figlia mi chiedeva se poteva farmi cadere dalla testa quella polvere bianca. E io, pur occupandomi di temi ambientali, non ho avuto l’intelligenza o la maturità per dirle no. Adesso mi porto dietro questa paura, la paura che capiti qualcosa a lei". Ma a morire di amianto non erano solo gli operai dei reparti peggiori. Erano anche il capo della manutenzione, gli impiegati, coloro che lavoravano nel reparto plastica. La Eternit era tutta “contaminata”, come attestato da una causa avanzata in quegli anni da lavoratori e sindacato. Una “morbigenità ambientale” provocata anche da eventi detti “straordinari”, ma in realtà molto frequenti, come l’intasamento delle tubazioni. "Bisognava sbloccarle a mano e si alzavano nuvole di polveri". Un delegato sindacale fu anche licenziato dopo una reazione forte, in seguito a un evento simile. E le pulizie straordinarie, fatte a forza di scopa e paletta, avvenivano quando si sapeva che sarebbero "… arrivati gli svizzeri".
Ilaria Leccardi da Terra Comune del 14 aprile 2010
giovedì 15 aprile 2010
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