sabato 27 settembre 2008

Piombino: lavorare in acciaieria.
Il calore, il fuoco, l’inferno


Una notte si sono sprigionate le fiamme, un muro di fuoco alto dieci metri. L’impianto antincendio automatico, sostituito da pochi mesi, non è entrato in funzione. Neppure quello manuale. Non si è avuto neanche il tempo per avere paura. Non si parla della Thyssen Krupp di Torino nella notte del 6 dicembre 2007. Ma della Magona di Piombino, una delle fabbriche del comprensorio siderurgico della città toscana. Era l’aprile del 2005, i quindici operai che si trovavano sul posto sono riusciti a scappare, nessun ferito e nessun intossicato. Fatalità, fortuna.

Il complesso più grande del distretto è quello delle Acciaierie di Piombino, un tempo di proprietà statale, dal 1992 privatizzato, in mano al Gruppo Lucchini, che nel 2005 ha venduto il 70% del capitale azionario al colosso russo Severstal. Poi c’è la Magona (oggi gruppo Arcelor) e uno stabilimento della Dalmine. Acciaio, materiali resistenti, calore. Un lavoro logorante, in mezzo a nuvole difficili da respirare. Eppure un orgoglio per la città: l’ha fatta crescere, l’ha arricchita, l’ha vista accogliere lavoratori dal resto d’Italia e altri paesi. Un orgoglio che però si è concesso qualcosa di troppo sulle vite delle persone, sulla pelle di chi in quella città vive e di quel lavoro si nutre.

Alla Lucchini da un paio d’anni non ci sono più stati morti. L’ultimo il 3 dicembre 2006: Luca Rossi, travolto da un motocarro di una ditta appaltatrice. Prima di lui, tra il 1998 e il 2005, sono morti altri 10 lavoratori, la maggior parte operai di ditte esterne. Manutentori, elettricisti, manovali. Anime che si muovono negli stabilimenti, spesso è come se non ci fossero. I cui spostamenti e le cui presenze sono più leggeri del vento, ma i cui corpi subiscono l’affronto del lavoro in fabbrica e spesso ne pagano le conseguenze peggiori. Nessun morto dal dicembre 2006, ma gli infortuni continuano. L’ultimo grave è del 15 giugno: Paolo Bucci, un operaio Lucchini, colpito da un cavo elettrico, ha dovuto subire l’asportazione della milza.

Infortuni di cui almeno si parla. Perché poi ci sono quelli di cui non si avrà mai notizia. “Le aziende sventolano l’obiettivo Infortuni Zero. Ma questo non significa che davvero non ci sono infortuni, ma che non li denunciano – spiega Giancarlo Chiarei, dei Cobas di Piombino e una vita passata come operaio alla Magona –. Le fabbriche sono portate a dichiarare meno infortuni possibile, quindi quelli meno gravi vengono fatti passare come malattia. Poco tempo fa un ragazzo con un contratto interinale si è ferito a una mano: 10 punti. Mi ha chiesto un consiglio e gli ho detto di dichiarare l’infortunio. Gli hanno dato 20 giorni di prognosi, quindi è tornato a lavorare, tempo di finire i giorni di contratto, poi è stato lasciato a casa. Non c’è stato neanche bisogno di licenziarlo”.

Il comprensorio siderurgico ha subito negli ultimi anni una forte ristrutturazione. La Lucchini un tempo occupava 8000 persone, oggi poco più di 2000 a cui si aggiungono un migliaio di lavoratori dell’indotto. La Magona non arriva a mille, la Dalmine a 300. “Nelle nostre fabbriche si è assistito a un esodo delle professionalità, con forte perdita di coscienza operaia – prosegue Chiarei –. Quando si perde la cultura del lavoro tutto diventa più duro, una volta si entrava in fabbrica ed era più facile contrastare gli affronti che venivano dal padrone. Oggi non è più così, i giovani sono ricattabili”.

E oltre agli infortuni, difficili da catalogare, ci sono condizioni di lavoro che rendono la vita dell’operaio sempre più stressante e a rischio. Non sono poche infatti le ditte appaltatrici che adottato i cosiddetti “contratti globali”, in cui ufficialmente figura un numero di ore settimanali per una paga fissa. In realtà talvolta le ore finiscono per essere di più, 12, 14 al giorno, le ferie scompaiono, la malattia pure. Tutte le ore vengono pagate, illegalmente: aumenta la fatica, diminuisce l’attenzione, si moltiplica lo stress. Scompaiono le difese.

Infine ci sono i pericoli per la salute. “Come Cobas stiamo lavorando sul caso di un gruppo di operai del reparto di stagnatura elettrolitica della Magona, tra il ’64 e il ’94, metà dei quali si sono ammalati di tumore. Stiamo cercando di far sì che le vedove possano avere un minimo di risarcimento e che la malattia dei loro cari sia riconosciuta come professionale. Ma ci sono altre forme di malattia di cui non si parla, come la silicosi. L’unica che ha avuto un riconoscimento è stata quella derivante dall’amianto, per cui molte persone sono state mandate in prepensionamento”.

Ma la fabbrica non è fatta solo dai reparti, con i loro macchinari, il rumore, l’aria difficile da respirare. E’ anche territorio. Un animale che di questo si nutre, un mostro che può arrivare a consumarlo, a distruggerlo. Nel marzo 2007 una ricognizione della Guardia di Finanza ha scoperto all’interno della proprietà Lucchini una discarica di 35 ettari con rifiuti illegalmente depositati, più di un milione di tonnellate a cielo aperto, a minacciare silenziosamente la città. Le indagini sono partite e gli imputati sono 6, tra cui l’ex amministratore delegato della Lucchini Spa e il direttore dello stabilimento. Ora l’azienda sembra aver capito la lezione e ha dato il via a due progetti per il recupero delle polveri ferrose. Rimane da vedere se sarà possibile lo smaltimento e se siano rifiuti speciali, come sembra emergere dalle analisi della procura di Livorno. “C’è stato anche un operaio che si è rifiutato di mettere rifiuti in quella discarica ed è stato licenziato”, continua Chiarei. Piombino è la città toscana con il più alto numero di tumori.

Una città colpita ma che partecipa al dolore, tentando di dare una risposta. Più di dieci anni fa, il 17 marzo 1998, alla Magona moriva stritolato in un ingranaggio un ragazzo, Ruggero Toffolutti, che amava il calcio. Quel ragazzo, scomparso così dolorosamente ha continuato a vivere grazie ai suoi genitori che hanno dato vita all’Associazione Nazionale per la sicurezza sul lavoro Ruggero Toffolutti.

“Tentiamo di far di tutto per sensibilizzare la popolazione, con dibattiti, iniziative, presentazioni – dice Valeria, mamma di Ruggero, giornalista de Il Terreno –. Abbiamo anche dato il via al “Van Toff” un torneo di calcetto per ricordare Ruggero e la sua passione. La differenza rispetto al passato è che in fabbrica si continua a morire, ma se ne parla molto di più. Eppure questo modo di parlarne mi fa paura, perché spesso è solo un lamento che non affronta i veri problemi del lavoro. Si parla tanto di cultura della sicurezza, ma un operaio può fare tutti i corsi che vuole, ma il pericolo vero è la strutturazione del mercato del lavoro, con i suoi ritmi, la priorità del profitto, la precarietà. Il precario è un candidato naturale a morire”.

Poi c’è la storia di chi di voce ne ha ancor meno. Ad esempio Leke Kolaj, un ragazzo albanese, venuto in Italia per cercare lavoro. Il lavoro lo trova, prima in una ditta interinale. Ma quando il contratto scade Leke rimane a piedi. Dopo poco viene ripreso da un’altra parte, sempre con un contratto a termine. Avrebbe avuto ancora tanti anni da lavorare. Le spalle forti. Leke ha 42 anni quando inizia il suo nuovo lavoro alla Bertocci, ditta che lavora all’interno degli stabilimenti Lucchini. Proprio qui, dopo meno di una settimana, muore, schiacciato da una barra di un nastro trasportatore. Sono in pochi quelli che si ricordano di lui.

Ilaria Leccardi da Cenerentola

mercoledì 24 settembre 2008

Pandora a Torino, la scatola aperta


Presentazione di Pandora a Torino: appuntamento, venerdì 26 settembre alle ore 18, presso Idea Solidale di corso Novara,64, sala Zefiro - via Doberdò, 10, Torino e poi alle 21.15 al Salone Polivalente di via W. Fontan, 103, piazza del mercato, a Bussoleno...

Con la partecipazione di Giulietto Chiesa – presidente dell'associazione Canale Zero e ideatore di Pandora e Udo Gümpel – direttore di Pandora

Nell'occasione verrà proiettato il documentario promozionale: PANDORA - Appello per un'informazione libera (35') e lanciata la campagna di raccolta fondi per l'iniziativa.

Ma cos'è Pandora?

Pandora vuole diventare uno spazio di informazione indipendente in onda sulla TV satellitare, su reti regionali e sul web.

Pandora nasce dall'impegno di professionisti della comunicazione che si battono da sempre per la libera informazione, ma Pandora è aperta alla collaborazione di tutte le persone che hanno qualcosa da raccontare.

Pandora è il punto di partenza e di arrivo di una rete di contatti che attraversano l'Italia e che si collegano con molti angoli del mondo.

Pandora non è il megafono di qualcuno o per qualcuno, Pandora vuole dare voce a chi non ce l'ha.

Per questo Pandora può vivere solo grazie al sostegno di tutte le persone che si riconoscono nel progetto.

Pandora vuole proporsi come esempio autentico di televisione di servizio pubblico, cioè una televisione che risponde ad un unico editore: i suoi telespettatori, a partire da tutti quelli che hanno deciso di sottoscrivere un "abbonamento volontario", non solo per se stessi, ma anche per tanti altri che nemmeno conoscono.

Non appena saranno raccolte le risorse necessarie per realizzare la prima stagione, Pandora metterà in cantiere un programma televisivo settimanale di circa 90 minuti e un notiziario quotidiano sul web e sul satellite.

Per tutto questo, ti chiediamo di partecipare al progetto Pandora inviandoci la tua adesione: così potremo sapere quanti siamo e tenerti sempre al corrente della strada fatta e delle prossime tappe. E ti chiediamo di parlare di Pandora con tutte le persone che possono essere interessate: non abbiamo risorse per grandi campagne pubblicitarie, la nostra forza si basa solo sul passaparola. E soprattutto ti chiediamo un aiuto concreto: anche il tuo contributo può fare la differenza. E far diventare Pandora una voce diversa a "portata di telecomando"...


PRIMI SOTTOSCRITTORI E SOSTENITORI DEL PROGETTO:
Giulietto Chiesa, Lucio Barletta, don Aldo Benevelli, Anna Maria Bianchi, Maurizio Cabona, Caparezza, Sergio Cararo, Franco Cardini, Felice Casson, Paolo Ciofi, Antonio Conte, Giorgio Cremaschi, Francesco De Carlo, Tana de Zulueta, Arturo Di Corinto, Laura Di Lucia Coletti, Claudio Fracassi, Luciano Gallino, don Andrea Gallo, Silvia Garambois, Giuliano Giuliani, Udo Gümpel, Sabina Guzzanti, Serge Latouche, Mario Lubetkin, Manolo Luppichini, Empedocle Maffia, Lucio Manisco, Gianni Minà, Giuliano Montaldo, Roberto Morrione, Diego Novelli, Moni Ovadia, Franco Pantarelli, Valentino Parlato, Riccardo Petrella, Carlo Petrini, Franco Proietti, Lidia Ravera, Ennio Remondino, David Riondino, Roberto Savio, Francesco Sylos Labini, Antonio Tabucchi, Chiara Valentini, Gianni Vattimo, Vauro, Elio Veltri, Dario Vergassola, Alex Zanotelli

pandoratv
Una risposta all'esigenza di un'informazione diversa

venerdì 19 settembre 2008

Il neofascista Diodato dietro il massacro dei contadini di Pando


Il prefetto Leopoldo Fernández, principale accusato del recente massacro di 15 contadini indios di Pando, che stavano andando a una manifestazione in appoggio del presidente Evo Morales, è legato a Marco Marino Diodato (neofascista italiano e leader della mafia italiana in Bolivia) e a narcotrafficanti che operano nel Rio Branco, in Brasile. E' ciò che denuncia Aldo Michel Irusta, parlamentare ed ex responsabile per le idagini nel processo contro l'ex dittatore Luis Garcia Meza e i suoi collaboratori.

Michel è un ex legislatore, oggi editorialista del settimanale Alerta, e parte civile nei processi contro Diodato. Quest'ultimo, dopo esser stato condannato a 10 anni per narcotraffico nel paese, nel 1999 è riuscito ad eludere i controlli e fuggire.

Secondo l'ex parlamentare, la elite cruceña vuole mantenere a Santa Cruz un paradiso finanziario di guadagni illeciti, in relazione diretta con il clan di Diodato. "Abbiamo sviscerato l'agire dei gruppi paramilitari e abbiamo appurato la relazione degli stessi con il signor Leopoldo Fernández", ha detto Michel, aggiungendo che il prefetto di Pando ha precedenti illegali dagli anni '80.

Secondo Michel, Fernández ha consolidato una holding, una squadra, un clan, un cartello di gente legata all'ex dirigenza politica di Acción Democrática Nacionalista (ADN), oltre a legami con il gruppo Diodato e alla legittimazione di guadagni illeciti mediante le case di gioco clandestine.

"Il signor Leopoldo Fernández ha una relazione con gente che opera in Rio Grande (Brasile), con gente che è stata implicata in processi per narcotraffico", ha continuato Michel, il quale ha aggiunto che dopo aver seguito le autorità di Pando, si è scoperto che Fernández è riuscito a consolidare una struttura corporativa paramilitare senza alcun timore, reclutando delinquenti per formare un gruppo irregolare, con capacità di reazione bellica e armata.

Per Michel, la struttura criminale di Diodato è formata dai prefetti di Pando, Leopoldo Fernández, di Santa Cruz, Rubén Costas, oltre a Marincovik, Dabdoub, ai fratelli Landívar e alla Unión Juvenil Cruceñista.

"Il gruppo Diodato opera da più di 10 anni a Santa Cruz sotto copertura dei governi di Hugo Banzer, Jorge Turo Quiroga e Gonzalo Sánchez de Lozada", ha aggiunto Michel, secondo cui il massacro di contadini nel mese di maggio di quest'anno a Sucre è stata sistematicamente pianificata e operata da questi gruppi provenienti da Santa Cruz, Beni e Pando.

Per Michel questi gruppi paramilitari, insieme a sicari mercenari, sono responsabili del massacro dei contadini tra l'11 e il 12 agosto. Alla base delle azioni messe a segno a Pando ci sarebbe gente addestrata a imboscate, maneggio di armi, sadismo e sangue freddo.

Tradotto da Abi - Agencia boliviana de Informacion

martedì 2 settembre 2008

Palermo, il porto dell'incertezza


Sono arrivati a impiegare migliaia di persone. Oggi a malapena danno lavoro a 500 operai. Sono i Cantieri navali di Palermo, di proprietà di Fincantieri, il colosso mondiale della costruzione navale che conta nove stabilimenti in tutta Italia e in Germania.

Stando agli ultimi dati di bilancio e all’utile dichiarato, Fincantieri, azienda di proprietà pubblica e controllata dal Ministero del Tesoro, gode di ottima salute, riceve commesse da tutto il mondo e ha tra i suoi clienti importanti operatori marittimi, tra cui Costa Crociere e Princess. Eppure dal porto di Palermo arrivano notizie ben diverse. Sarà perché la situazione complessiva del porto siciliano è da anni incerta, sarà perché l’azienda di proprietà statale ha modificato i suoi piani industriali a favore degli altri centri cantieristici, resta il fatto che per i lavoratori palermitani non esiste certezza sul futuro.

«Sono tre anni che a Palermo non si costruiscono più navi intere, ma solo parti di esse – spiega Damiano Gambino, rls della Fiom Cgil nel cantieri navali palermitani – e questo è un grande deficit perché il ruolo di Palermo all’interno di Fincantieri è stato drasticamente ridimensionato. Inoltre, siamo un cantiere arretrato, abbiamo macchinari obsoleti e non utilizziamo tecnologie avanzate, come ormai avviene negli altri stabilimenti della nostra azienda».

Ma sul destino del cantiere navale di Palermo pesano anche le scelte riguardanti il futuro di tutto il porto siciliano, la sua trasformazione e la bonifica delle aree costiere, considerando anche la nomina di Palermo a Capitale dell’Euromediterraneo per il 2010. «Ci troviamo fisicamente tra due fuochi – continua Gambino –. Da una parte abbiamo l’edificio dismesso dell’ex Manifattura Tabacchi, dove un ditta privata dovrebbe costruire un centro alberghiero, dall’altra abbiamo il porto che dovrebbe allargarsi in previsione di diventare un porto turistico a tutti gli effetti. Anche per questo il nostro futuro è incerto. Nel 1992, quando ho iniziato a lavorare eravamo più di 1700 operai, oggi siamo appena 523, siamo sottodimensionati. Ma non siamo solo noi operai di Fincantieri a soffrire della crisi. È tutto l’indotto a esserne colpito».

Per i prossimi tre anni è stata commissionata a Fincantieri la costruzione di venti navi, ma nessuna di queste sarà realizzata a Palermo, nonostante qui esista uno dei più grandi bacini d’Italia, da ben 400mila tonnellate. «Quartieri di Palermo e famiglie intere vivono grazie al nostro stabilimento – conclude Gambino – in città e dintorni è l’unica importante realtà industriale. C’è ancora la Fiat Termini Imerese, certo, ma dista 40 chilometri dalla città. Viviamo una situazione molto difficile».

Un’incertezza sul futuro accresciuta lo scorso anno dalla decisione dell’amministrazione di privatizzare e quotare in Borsa il 49% dell’impresa, una scelta approvata dal governo Prodi. Le proteste degli operai sono state forti in tutta Italia, anche a Palermo. L’appuntamento per l’entrata in Borsa era fissato per la primavera, ma la crisi dell’esecutivo ha bloccato tutto, lasciando la situazione in sospeso.

Poi c’è il solito spinoso tema della sicurezza sul posto di lavoro, dei pericoli che si corrono per portare a casa lo stipendio. Quello nei cantieri navali è uno dei lavori classificati come più logoranti, soprattutto per la fatica fisica che implica. Un lavoro che d’estate si svolge spesso a una temperatura superiore ai 40°, che richiede protezioni in pelle su tutto il corpo e che, durante le fasi di saldatura, rinchiude gli operai all’interno di strutture di lamiera incandescenti.

Per quanto riguarda il rischio incidenti, secondo i sindacalisti della Fiom la situazione rispetto al passato è migliorata. La tragedia della Thyssen sembra aver reso più attenti anche i vertici aziendali che si sono mobilitati per far rispettare maggiormente i parametri di sicurezza, con normative interne che regolano la condotta del lavoro. Eppure c’è chi ancora denuncia gravi mancanze. «Ci sono fotografie e filmati fatti da operai che documentano situazioni molto pericolose all’interno del cantiere – spiega Rosario Sciortina, dello Slai Cobas di Palermo –. Ad esempio ci sono infiltrazioni d’acqua dal muro di contenimento del mare, oppure perdite d’acqua dove si lavora con la tensione a 400 Volt». E c’è anche chi perde il lavoro, apparentemente per futili motivi. Salvatore Palumbo era un operaio della Fincantieri, sposato, papà di tre figli. Nell’estate scorsa è stato licenziato perché, sostiene l'azienda, sorpreso a pescare in orario di lavoro. Ma non era vero. Salvatore, dopo mesi senza lavoro, è arrivato al limite della sopportazione. Il 14 maggio è salito in cima alla stele che ricorda la strage di Capaci, lungo l’autostrada Palermo-Mazara del Vallo, minacciando il suicidio. La motivazione alla base del licenziamento non sarebbe altro che un modo per coprire le sue ripetute denunce delle condizioni di insicurezza lavorativa all’interno del cantiere.

Ilaria Leccardi da Cenerentola