domenica 31 gennaio 2010

Si alza il grido dell'Alessandria meticcia e antirazzista. Verso il 1° marzo

E' bastato un richiamo, porre l'attenzione su una malattia della società, l'intolleranza, la diseguaglianza, l'insofferenza verso chi viene considerato diverso, fosse per il colore della pelle, per la lingua o la religione. E' bastato lanciare un messaggio: "Facciamo qualcosa". E la gente è accorsa. Nel pomeriggio di ieri, sabato 30 gennaio, come una settimana prima, una grande assemblea di quasi cento persone han affollato le sale del Laboratorio Sociale Ex Caserma VVFF di Alessandria. Un'assemblea vivace, tappa dell'avvicinamento alla giornata del 1° marzo 2010, "Un giorno senza di noi", ventiquattro ore senza stranieri, in tutta Italia, anche ad Alessandria, per rendere visibile, tramite l'assenza dal lavoro, dalla scuola, dai supermercati e dalla vita commerciale e lavorativa in generale, quella che è la vera ricchezza dell'Italia di oggi.

E' così che Alessandria pone le basi per un'ampia partecipazione a questa iniziativa. Un avvicinamento che vedrà come momento fondamentale la giornata del 13 febbraio, quando il Laboratorio Sociale Ex Caserma VVFF, di via Piave 65, aprirà le porta alla città e a tutte le associazioni che vorranno presentarsi e parlare di sé. Raccontare una storia a volte può essere banale, ma ti permettere di esistere. Ed è anche per questo che nelle due assemblee finora svolte la partecipazione più grande è stata proprio quella di ragazzi provenienti da Paesi stranieri. C'erano l'Associazione Senegalesi di Felizzano, i Migrantes Ecuatorianos, StudentAlb (Associazione degli studenti Albanesi), e ancora tante altre associazioni e persone venute singolarmente per dare il proprio contributo di proposte e appoggio alla manifestazione.

Il 13 febbraio sarà una giornata ricca di appuntamenti. A partire dalle 15, quando nella palestra al primo piano della struttura di via Piave ogni associazione avrà la possibilità di presentarsi e di raccontare i progetti che sta portando avanti ad Alessandria e provincia. Quindi alle 17, dopo la proiezione di un video sui fatti di Rosarno, si terrà il dibattito pubblico "Verso il 1° marzo" alla presenza di Adama Mbodj, segretario della Fiom-Cgil di Biella, Stefania Ragusa, del Comitato 1° marzo, e Don Andrea Gallo. Il tutto si concluderà alle 21 con il concerto dell'Orchestra Multietnica Furastè (ingresso libero).

Uno dei ragazzi della Associazione senegalesi di Felizzano ieri raccontava: "Io non conoscevo il colore della mia pelle prima di venire in Italia. L'ho scoperto quando sono arrivato qui. Mi hanno detto: "Sei nero!". E io allora me ne sono reso conto. Perché qui davvero ti fanno sentire diverso". E allora noi vorremmo dimenticarcene, vorremmo riuscire a far sì che negli occhi della gente non ci siano colori, razze e diversità, ma solo esseri umani.

Queste le associazioni che aderiscono alle giornate del 13 febbraio e del 1° marzo:
Associazione Migranti Senza Frontiere - Associazione Laksiba - Associazione Senegalesi di Felizzano (ASEF) - Associazione di Volontariato Diaspora - Migrantes Ecuatorianos - Associazione San Benedetto al Porto - StudentAlb (ass. degli studenti Albanesi) - Polisportiva Antirazzista Uppercut - Associazione Verso il Kurdistan - Onda Studentesca - Centro Sociale Crocevia - Rete Sociale per la Casa - Uomini e donne migranti e antirazzisti

domenica 24 gennaio 2010

Tornano i No Tav, numerosi più che mai

Li sentiranno fino a fondo valle, forse pure a Torino. A vederli sembrano una grande orchestra, senza il bisogno di un direttore. I campanacci dei montanari risuonano come i tamburi della Bugiard band («dedicata alle frottole che raccontano i governanti») e il battere a ritmo sul guardrail della statale è una di quelle melodie che si fissa in testa. Per nulla fastidiosa. E se ci sei in mezzo non ti accorgi nemmeno del freddo di un sabato alpino, ti fai trasportare dal fiume di gente che invade Susa, 40 mila persone per dire ancora una volta no alla Tav.

Alberto Perino, leader storico, è raggiante, sale sul trattore che apre il corteo, prende il microfono: «Diranno che siamo quattro gatti», esclama con un sorriso sornione. E il primo spezzone della marcia gli risponde con un sonoro «Miao». Quella della Val Susa è una lotta radicale ma piena di ironia. «Dicevano - commenta Perino - che il movimento era diventato minoritario, che i sindaci non c'erano più. Ecco il movimento più vivo che mai, ecco i sindaci. In Francia e Spagna ci sono altre due manifestazioni. E qui c'è tutta la nostra valle. Siamo solo un po' matti e davvero ostinati. Abbiamo resistito vent'anni e vedrete che ne resisteremo altri venti». E propone una sua teoria: «In un mondo che si suicida, che devasta l'ambiente, solo i matti possono salvarlo».In testa al corteo due asini, sul dorso una scritta: «Sono sempre un po' depresso continuano a chiamarmi Chiamparino e Bresso». D'altronde, sulla manifestazione «Sì Tav» con Pd e Pdl al caldo del Lingotto (oggi, ndr) i commenti dei manifestanti non possono che essere negativi, spesso mugugni. Segue il grande striscione «La Valle che resiste» con stampati Asterix e Obelix, beniamini del movimento.

Di gente ne è venuta proprio tanta, il presidio Maiero-Meyer si riempie subito. «Ci siamo mobilitati perché non vogliamo che il nostro territorio diventi preda della mafia» racconta una signora, con una bandiera No Tav al collo. Lo dice senza retorica, di 'ndrangheta la valle ha già patito (il consiglio comunale di Bardonecchia commissariato per infiltrazione mafiosa). «Oggi è una giornata importante, dobbiamo continuare in modo coeso e pacifico» spiega Giorgio, elettricista. Francesco Siro è un consigliere della Comunità montana: «Gli amministratori locali sono in maggioranza contrari. Nell'ultimo mese abbiamo votato una delibera contro la Tav sottolineando l'esaurimento del ruolo dell'Osservatorio. Ventitré sindaci l'hanno capito e si sono ritirati dall'organismo». Poco più avanti spunta Gianni Vattimo, europarlamentare Idv: «Ho sollevato al Parlamento europeo la palese irregolarità dei sondaggi geognostici. Senza il consenso della popolazione e senza informare i sindaci». Delle trivelle che hanno sconvolto l'ultima settimana al costo di 6 milioni di euro (il doppio rispetto al previsto) non c'è traccia. «Ma torneranno e vedrete noi saremo di nuovo lì a bloccarle», rassicura un ragazzo. Nel corteo che si snoda fino al centro di Susa un gruppo di bambini canta «La valle è bella non vogliamo la trivella». Altri: «No alle trivelle, col buco vogliamo solo le ciambelle».Il cielo è coperto, ma la marcia non perde l'entusiasmo.

Lele Rizzo è uno degli esponenti più rappresentativi della lunga lotta, è stato il fondatore di uno dei primi comitati, quello di Bussoleno. Arriva dall'Askatasuna: «Senza mai voler mettere la nostra bandiera, a noi interessa che la valle vinca». E continua: «I presidi dei giorni scorsi non sono altro che la punta di un iceberg. Oggi è la risposta politica e la partecipazione testimonia quanto è grande il consenso». A esprimere una vicinanza diretta ai no Tav sono venuti spezzoni di tante battaglie a difesa dell'ambiente. C'è Giancarlo che la provenienza la scrive a caratteri cubitali su un cartello: Friuli, Palmanova. «La Val Susa è un esempio di civiltà. Anche da noi vogliono costruire un tunnel di 25 chilometri». Aldo arriva, invece, da più vicino, Alice Castello, vercellese, con il movimento Valledora: «Il nostro è un territorio da colonizzare, perché spesso silente. Oltre alle scorie nucleari, ogni nuova cava diventa una discarica».

La manifestazione scorre rumorosa e vivace. Tutto tranquillo. Tranne una macchina carica di caschi e manganelli, avvistata dai manifestanti alla partenza: «Una provocazione, abbiamo avvisato il questore ed è sparita». In mezzo alle bandiere no Tav sono sparse quelle della Fiom. Per Giorgio Airaudo, segretario torinese, «in tempi di crisi non si capisce perché spendere soldi per un'opera non prioritaria, si deve investire su una produzione compatibile». E la Tav sarà sul tavolo delle regionali. «I due candidati, Bresso e Cota - spiega Paolo Ferrero, Prc - sono entrambi pro Tav. Certo, tra i due c'è differenza. Però l'unico accordo possibile con il centrosinistra è tecnico. A noi interessa stare nel movimento». La marcia arriva in centro che è già buio. Ma il suo ritmo si sentirà a lungo.

di Mauro Ravarino, da il manifesto del 24 gennaio 2010

giovedì 21 gennaio 2010

La Tav nel recinto

Gli occhi si stropicciano dalle notti insonni. «Ma il morale è altissimo» assicura Giorgio al presidio di Susa. Il cellulare può squillare alle tre o alle quattro. E devi partire. Per questo lo tieni vicino al letto, con le scarpe ai bordi. In valle, se qualcuno avvista strani spostamenti, lancia subito un messaggio, un sms, una mail: «Una trivella a Susa», «Un'altra a Condove». E il tam tam corre da Venaus ad Avigliana. Non fai in tempo a vestirti, che vedi già i compagni di lotta salutarti: «Sarà düra», il motto dei No Tav. Martedì erano corsi a Susa, per il settimo sondaggio, ieri invece si sono diretti a Chiusa San Michele, dove nelle prime ore del mattino è iniziato l'ottavo dei 91 carotaggi previsti dall'Osservatorio sulla Torino-Lione guidato da Mario Virano. Militarizzato come il precedente. Ancora una volta, la trivella scortata da centinaia di forze dell'ordine. Ma non si sono lasciati sorprendere: hanno allestito presidi, bloccato il Tgv e, alla sera, respinto l'arrivo di nuovi blindati occupando la statale del Moncenisio.

Un'altra giornata di lotta lungo tutta la valle. «Sono solo sondaggi mediatici, non trivellano nemmeno. È una prova di forza per sbloccare i fondi di Bruxelles», rincara Giorgio: «Non è come la raccontano i giornali, il movimento è forte. Pensi che ha appena chiamato una signora da Genova, ci invita a resistere e sabato sarà con noi». Ci sarà una grande manifestazione a Susa contro la Tav e contro tutte le mafie, attese più di ventimila persone.

Al presidio, vicino all'autoporto, fa freddo e ci si scalda con il fuoco e il tè. «Avevano detto che i carotaggi sarebbero stati alla luce del sole, trasparenti, avvisando i sindaci. Invece sono venuti di notte, come i ladri» racconta Pupi che di mestiere fa l'edicolante ed è appena tornato dai due presidi di Condove e Chiusa San Michele, più a valle. Li hanno allestiti in mattinata, uno vicino alla rotonda della statale 24, quella del Monginevro, l'altro dall'altra parte dei binari. In mezzo uno spiegamento massiccio di carabinieri che hanno impedito l'accesso alla stazione. «Sono le forze dell'ordine a bloccare il passaggio» recita un cartellone dei manifestanti lungo la strada. Momenti anche di tensione con una carica dei carabinieri.

«Abbiamo cercato di forzare il blocco - racconta Alberto Perino del movimento - perché le forze dell'ordine facevano passare solo chi aveva l'abbonamento mentre l'accesso alla stazione deve essere garantito a tutti. Sono stato colpito da una ginocchiata e sono stato gettato a terra».

A mezzogiorno, la lotta si sposta a Sant'Antonino, il comune di cui è sindaco Antonio Ferrentino, che nel 2005 era uno dei leader dei No Tav. Tempo n'è passato: è rimasto l'unico tra i sindaci della Valle a rimanere nell'Osservatorio. Gli altri si sono ritirati. Dopo un'assemblea, i manifestanti si dirigono alla stazione. Sta per arrivare il Tgv. Non scendono tra i binari, agitano le bandiere, quelle classiche bianche e rosse. Ci sono anziani e giovanissimi. Chi ha la barba bianca e chi va ancora a scuola, non vogliono che la Tav devasti un territorio già fin troppo martoriato. Il Tgv arriva, si ferma. Una ragazzina dice sottovoce «con tutti i ritardi per motivi futili, finalmente una giusta causa». Scende il macchinista, i manifestanti gli offrono un trancio di pizza. Lui sorride, si dimostra solidale: «Se non fossi sopra, sarei lì con voi». Un nastro lanciato da un marciapiede all'altro inaugura un'immaginaria stazione: «Sant'Antonino la Trippa». Al megafono, sarcastici: «Sarà contento il sindaco Ferrentino, Sant'Antonino ha la sua stazione internazionale dove si fermano pure i Tgv». Passano più di quaranta minuti. «Giusto il tempo per far rimborsare i biglietti ai passeggeri».

A Condove più a Valle il presidio continua, tra panettone e vin brulé. Arriva gente. C'è Simone che è stato buttato giù dal letto da un sms alle 6, c'è Elisa che viene a dar man forte compatibalmente al ruolo di mamma di una bimba di quattro mesi. I carabinieri, invece, rimangono in posizione, a piedi stretti. Dei sondaggi non è stato nemmeno avvertito il sindaco Domenico Usseglio che si è presentato all'alba: «Il prefetto Paolo Padoin aveva assicurato di informarci, è stata una grave scorrettezza». I No Tav vogliono la valle libera, scandiscono cori: «Giù le mani dalla Val Susa», «Fuori le truppe di occupazione». Intanto, alle spalle delle forze dell'ordine arriva un regionale. È «la beffa dei manifestanti». Una quarantina, partiti da Sant'antonino, scendono alla stazione in mezzo ai due cordoni, aggirarando il blocco. Qualcuno si avvicina alla trivella. Un ragazzo ci rimedia una manganellata e finisce all'ospedale di Susa.

A Susa avevamo lasciato Giorgio e Pupi. Si avvicina anche Emilio: «I media ci dipingono come egoisti. Noi lottiamo per tutti, perché i soldi della Tav e quelli per le forze dell'ordine sono di tutti gli italiani. Dicono che siamo isolati, non è vero qui passano i principali collegamenti con la Francia». Roberto riassume le infrastrutture: «Due statali, una ferrovia internazionale e una locale, più un'autostrada, il traforo del Frejus, oltre alla Dora Baltea. Concentrati in una valle stretta, con una forte incidenza tumorale». Emilio: «Tu ce li faresti vivere i tuoi figli?». Sono decisi, uniti. Anche se non riusciranno a bloccare tutti i sondaggi, L'obiettivo principale è fermare la Tav: «Passeran nen».

di Mauro Ravarino da il manifesto del 21 gennaio 2010

mercoledì 20 gennaio 2010

C'era una volta la Ivrea Valley.
La crisi della Compumaint di Scarmagno

Fino a neanche sette mesi fa era considerata un’azienda solida, benché avesse cambiato nome almeno cinque volte nel giro di dieci anni. Con sede a Scarmagno, a meno di 15 chilometri da Ivrea, nell’ex complesso della Olivetti e impegnata nella manutenzione di stampanti, la sua garanzia erano gli importanti clienti con cui lavorava, come la società Italia Logistica del gruppo Poste Italiane e la stessa Olivetti. Oggi la Compumaint, questo l’ultimo nome assunto ad agosto, si ritrova nell’incertezza del futuro. Da quel mese, infatti, trentacinque lavoratori assunti con contratto metalmeccanico e venticinque tecnici co.co.pro. hanno smesso di percepire lo stipendio e non hanno ricevuto alcun tipo di ammortizzatore sociale. Una proprietà aziendale scomparsa nel nulla e sulle spalle tanta rabbia perché il lavoro che permetterebbe di mantenere viva l’attività ci sarebbe pure.

«Solo nelle ultime settimane si sono aperti alcuni spiragli – spiega Lino Malebra, rappresentante della Fiom Cgil per la zona di Settimo Torinese e Ivrea – I venticinque co.co.pro sono stati assorbiti da Italia Logistica e l’azienda locale CellTell ha dimostrato interesse verso gli altri lavoratori, assumendone dieci che da lunedì lavorano in ditta. Ma per gli altri il futuro è assolutamente incerto».

Una serie di cambi di proprietà negli ultimi anni, da OP Computer (ex Olivetti), fallita nel 1999, a Ics, da questa a Cms e poi C&P Technology, non avevano spaventato più di tanto i lavoratori, benché alcuni dei passaggi fossero stati piuttosto sofferti. L’ultimo però è stato fatale. La vendita da C&P Technology a Compumaint, srl lombarda facente capo a Raimondo Magnoni (fratello recentemente scomparso dell’attuale ad, Davide Magnoni), sarebbe dovuta essere una soluzione temporanea, verso la cessione definitiva alla più grande Coas, con sede a Ghemme (Novara) e stabilimenti in diverse città italiane. Ma l’operazione, che ha più il sapore della speculazione sulle spalle di 60 lavoratori, non è mai avvenuta. Da allora è iniziata la battaglia.

I dipendenti per alcuni mesi hanno continuato a lavorare, nonostante la proprietà non pagasse gli stipendi. E poi tra novembre e dicembre si sono battuti, per evitare il peggio. La Compumaint ha chiuso i rubinetti, ha provato a trovare un accordo, senza il coinvolgimento dei sindacati, con la All Computer di Pieve di Fizzonasco, azienda che Malerba non esita a definire «di banditi», per l’affitto del ramo d’azienda. Una soluzione rischiosa che avrebbe comportato quasi sicuramente il passaggio in terra lombarda delle commesse di Poste Italiane e Olivetti, ma non la tutela dei lavoratori di Scarmagno. Gli operai si sono battuti, a colpi di latte e strumenti di lavoro, qualche uovo e la difesa degli impianti di lavorazione, azioni contro cui i proprietari di Compumaint hanno risposto con i carabinieri. E poi si sono rivolti direttamente ai clienti dell’azienda, con una lettera aperta, per chiedere attenzione e ribadire il loro impegno a non abbandonare l’attività.

Alla fine, intorno al 10 dicembre, All Computer si è ritirata e le speranze si sono riaperte anche grazie all’arrivo di un po’ di soldi: Italia Logistica e Olivetti hanno pagato direttamente ai lavoratori gli stipendi di settembre e ottobre. Una boccata d’aria, ma non abbastanza per essere soddisfatti. E la lotta è continuata. «A inizio dell’anno è arrivato l’interessamento da parte di CellTell – continua Malerba – un’azienda con sede a Scarmagno che si occupa di manutenzione di dispositivi informatici. Purtroppo però a nulla sono valse le richieste per la tutela e l’integrazione di tutti e trentacinque i dipendenti di Compumaint. La CellTell ne ha assunti dieci, promettendo che, a seconda delle commesse che arriveranno, potrebbe arrivare a integrarne fino a trenta». Ma non trentacinque.

«Abbiamo anche chiesto una mano per la gestione degli ammortizzatori sociali, sollecitando l’assunzione di tutti i lavoratori e l’eventuale richiesta di cassa integrazione. Ma ci hanno risposto che la loro azienda, in cui sono impegnati circa 200 lavoratori, non è mai ricorsa alla cassa e non intende farlo ora». Una questione forse più di immagine che di sostanza. «E così, ad oggi, rimangono venticinque lavoratori senza stipendio di novembre e dicembre, mentre matura anche gennaio, e senza la tredicesima del 2009. Una brutta storia, che fino a poco tempo fa nessuno si aspettava di dover affrontare». E che si unisce alle vicende di una terra martoriata, dove spicca la questione Agile-Eutelia. Nel frattempo, dopo un ultimatum di 48 ore, pochi giorni fa i sindacati hanno chiesto l’istanza fallimentare per la Compumaint, al fine di accedere agli ammortizzatori sociali per quei venticinque dipendenti ancora senza un futuro lavorativo.

di Ilaria Leccardi, da Terra Comune del 20 gennaio 2010

venerdì 15 gennaio 2010

Vogliono zittire la stampa indipendente
Honduras: parla Cesar Silva, il giornalista sequestrato e torturato dai golpisti

Da un punto non precisato della regione centroamericana parla il giornalista che è stato sequestrato e torturato





Lo scorso 29 dicembre, César Silva, comunicatore sociale impegnato a raccontare la lotta del popolo honduregno contro il colpo di Stato, è stato sequestrato e selvaggiamente percosso e torturato da sconosciuti, che Silva assicura essere membri dell'esercito o della polizia. Secondo le varie organizzazioni dei diritti umani dell'Honduras, quanto accaduto a Silva fa parte di una strategia repressiva promossa dal governo di fatto usando il braccio armato delle forze militari del paese, per seminare il terrore tra la popolazione ed i mezzi di comunicazione che non si sono piegati alle forze golpiste.

César Silva, insieme a Edwin Renán Fajardo, il ragazzo di 22 anni assassinato lo scorso 22 dicembre, sono autori di un'infinità di audiovisivi che sono stati materiale imprescindibile per raccontare al mondo la tragedia del popolo honduregno dopo il 28 giugno e per organizzare attività formative e di coscientizzazione della Resistenza in numerosi quartieri e colonie della capitale e nel resto del paese.
Durante il suo sequestro è stato incappucciato e portato nella zona periferica di Tegucigalpa, dove è stato interrogato per tutto il giorno e la notte affinché desse informazioni su presunti depositi di armi della Resistenza nel paese. È stato selvaggiamente percosso e torturato, denudato e quasi soffocato e alla fine è stato liberato, quasi come è accaduto a Walter Tróchez, il difensore di diritti umani della comunità LGBT assassinato pochi giorni dopo il suo sequestro.

Sirel e la Lista Informativa "Nicaragua y más" si sono mobilitate verso un luogo imprecisato della regione centroamericana per riunirsi con César Silva, il quale, immediatamente dopo il suo sequestro e liberazione, ha deciso di ascoltare i consigli di amici ed amiche ed ha abbandonato il paese con la sua famiglia.

Come è avvenuto il sequestro?
Venivo dal sud del paese dove era andato per distribuire del materiale audiovisivo ad organizzazioni contadine e arrivando alla capitale sono sceso dall'autobus ed ho preso un taxi per andare a casa. Non potevo certo immaginare che avevano intercettato il mio cellulare e che stavano ascoltando le mie chiamate dove segnalavo i miei spostamenti. Quando sono arrivato nella zona dell'anello periferico, una macchina si è accostata al taxi e le persone che stavano dentro hanno estratto la pistola, intimando al taxista di fermarsi. Pensando ad una rapina ho detto loro di prendere pure la telecamera e il computer, ma la loro risposta è stata molto chiara: "Non è questa m... che c'interessa, siamo venuti a prendere te, figlio di p...". Mi hanno fatto salire sull'auto, hanno minacciato il tassista affinché si dimenticasse di quanto accaduto e sono partiti. Prima mi hanno obbligato a chinare la testa e metterla tra le mie gambe e quando non ce la facevo più, mi hanno colpito violentemente sul viso e mi hanno incappucciato. Dopo circa un'ora siamo arrivati in un casolare, credo in campagna, e mi hanno rinchiuso in una stanza completamente buia. Dopo circa due ore è iniziato l'interrogatorio.

Che cosa è successo dopo?
L'aggressività di chi m'interrogava cresceva con il passare dei minuti, benché ci fosse sempre uno dei sequestratori che fingeva di essere il buono della situazione. Mi domandavano dove fossero le armi, chi le faceva entrare nel paese, quante cellule armate comandavo e quali erano i miei contatti internazionali. Io non capivo che cosa volessero da me e ripetevo loro che ero un giornalista e che non sapevo nulla delle armi. Hanno iniziato ad innervosirsi e a colpirmi sulla faccia, nello stomaco, sulla schiena e nei testicoli. Mi hanno spogliato e bagnato con acqua, poi mi hanno buttato per terra e mi hanno messo acqua delle narici. Infine mi hanno messo una sedia sulla trachea e ci si sono seduti. Stavo asfissiando. Dai loro commenti era chiaro che sapevano perfettamente chi fossi ed hanno anche parlato del materiale audiovisivo e di Renán Fajardo. Verso le tre del mattino hanno cercato di spaventarmi ancora di più ed a voce alta hanno iniziato a pianificare il mio omicidio. Alla fine hanno però detto che mi avrebbero liberato e che avevo un angelo custode che per il momento mi aveva protetto. Mi hanno fatto salire sulla macchina, sempre incappucciato e dopo circa un'ora si sono fermati. Hanno aperto la porta e la persona che stava al mio fianco mi ha dato un calcio e mi ha buttato fuori dalla macchina. Poi sono ripartiti.
Mi sono alzato a fatica e sono corso al Cofadeh per denunciare l'accaduto.

Ti sei chiesto il perché del tuo sequestro?
Quando la repressione già non avviene durante le manifestazioni, iniziano le catture selettive. Nel mio caso, credo che il lavoro fatto con Renán durante la chiusura di Radio Globo e Cholusat Sud-Canale 36 abbia fatto piuttosto male ai golpisti, perché il nostro materiale arrivava in tutti gli angoli del paese e in un certo modo aiutava a rompere l'isolamento e la disinformazione che erano gli obiettivi del governo di fatto. Producevamo materiale audiovisivo in cui facevamo vedere ciò che stava accadendo nel paese e che, ovviamente, nessun telegiornale o radio riportava. Raccontavamo la repressione, gli omicidi, la violenza e lo distribuivamo affinché la Resistenza l'usasse per informare la gente che non poteva ascoltare o vedere i mezzi di comunicazione che erano stati chiusi dai golpisti. Alla fine abbiamo deciso di sospendere le proiezioni perché sono iniziate le perquisizioni nei quartieri e nelle colonie dove svolgevamo le attività. Molti leader della Resistenza che promuovevano queste attività sono stati assassinati.

Perché credi che abbiano deciso di non ucciderti?
Credo che non avessero ricevuto l'ordine di farlo, altrimenti non ci avrebbero pensato due volte. Ma soprattutto sono convinto che l'obiettivo fosse quello di usare il mio caso per seminare terrore tra i colleghi honduregni, che portano avanti un lavoro che arreca danni e dà fastidio ai golpisti. Il messaggio è per gli altri: se hanno potuto fare questo a me, lo possono fare in qualunque momento con qualsiasi altro giornalista. Ciò che vogliono è zittirci. Quello che comunque mi preoccupa di più è che esiste una gran quantità di colleghi che si sono venduti per alcune monete ai poteri golpisti. Hanno venduto il sangue della gente per un lavoro.

Perché hai deciso di abbandonare il paese?
Dopo il mio sequestro sapevo che in qualunque momento potevano arrivare a casa mia ed assassinarmi.Gli organismi dei diritti umani e vari amici mi hanno inoltre detto che non volevano vedere sui giornali altre foto di vittime della dittatura e mi hanno consigliato di uscire dal paese per un po' di tempo. Spero sia solo per un periodo, perché voglio tornare e continuare il mio lavoro. Non ho paura, anche se devo essere più cauto per non rendere le cose troppo facili a questi assassini. Se mi vogliono ammazzare, che almeno facciano un po' di fatica.

Testo e foto Giorgio Trucchi - Lista Informativa "Nicaragua y más" di Associazione Italia-Nicaragua - www.itanica.org

giovedì 14 gennaio 2010

Ricostruzione di paglia

Un paesino distrutto dal terremoto, 45 abitanti testardi. E 60 volontari visionari: un piccolo miracolo italiano a Pescomaggiore, un borgo di origine medioevale a 12 chilometri da L'Aquila


L'AQUILA - Piero ha il volto sporco d’intonaco, sta completando gli ultimi ritocchi della nuova casa. Fuori fa già freddo, eppure la neve non lo spaventa. Lui vive qui da sempre, in questo paesino alle pendici del Gran Sasso. Nemmeno il terremoto gli ha fatto cambiare idea: “Sono stanco di stare in roulotte. Ormai sono otto mesi da quando la mia casa è inagibile. Ma la mia terra non la voglio abbandonare”. I 45 abitanti di Pescomaggiore, un borgo di origine medievale a 12 chilometri da L’Aquila e a quasi mille metri sul livello del mare, si sarebbero dovuti spostare a Camarda, in una delle tante new town previste dal piano di ricostruzione del Governo, nove chilometri più a valle. Non se ne sono andati.

Quattro per ora le case che stanno prendendo forma. I loro muri sono fatti di paglia. Balle rettangolari, accatastate anche negli angoli del cantiere. “Al di là di quello che si possa pensare, la paglia è un materiale ottimo per la costruzione: solido, capace di non disperdere il calore e isolare dai rumori. E soprattutto economico ed ecologico”, spiegano Paolo Robazza e Fabrizio Savini, fondatori del “Beyond architecture group studio mobile”, team di architetti che si propone di dare il proprio contributo al recupero del patrimonio architettonico dell’Abruzzo. Hanno alle spalle diverse esperienze di “architettura sostenibile e partecipata”: Robazza in Sudafrica, Savini in Spagna e Brasile.

Sono loro la mente del progetto Eva (Eco villaggio autocostruito), un’idea che avevano in mente da tempo e che nella tragedia del terremoto ha trovato vita. “Avevamo il desiderio di realizzare progetti partecipati con il coinvolgimento dei cittadini. Cercavamo chi ascoltasse le nostre soluzioni”, raccontano gli architetti. A Pescomaggiore c’era invece chi, come i ragazzi del Comitato per la rinascita del paese (nato ben prima del sisma, nel settembre del 2007), pensava si potesse ricostruire usando materiali poveri, appunto la paglia. Volevano provare, ma non sapevano come.
E così, via. Si è unito al gruppo Caleb Murray Bourdeau, irlandese, lunghi capelli rossi e sorriso sornione. Un esperto nella costruzione con materiali di recupero. E dopo 133 giorni dal terremoto, un paio di mesi di progettazione e le assemblee (non sempre unanimi) per definire i particolari, il 20 agosto il cantiere si è aperto. A 160 metri dal vecchio borgo, su terreni dati in concessione da due abitanti, sono stati prima costruiti i basamenti di cemento e poi innalzati i pali in legno, scheletro per le abitazioni. Alla fine saranno sette, per 22 persone. “Abbiamo previsto due modelli fondamentali -racconta Paolo-: uno da 40 metri quadri con una sola camera da letto, l’altro da 56 per famiglie più numerose. Entrambe con un ampio salone cucina, spazio della socialità, attorno a un caminetto che con la legna scalderà l’ambiente”. Dettaglio di un piano di ecosostenibilità, che si completa con i panelli fotovoltaici per la produzione di energia elettrica e un impianto di fitodepurazione per il trattamento delle acque di scarico. E poi grandi finestre e una veranda che dà sulla vallata, perché chi ha vissuto il terremoto deve avere la sicurezza di uscire con facilità. “Così sarò anche più vicino alle mie pecore”, ride Piero.

In tutto finora sono stati spesi 70mila euro, provenienti da donazioni e dall’autofinanziamento dei residenti. “Se il piano Case (Complessi antisismici sostenibili ecocompatibili, ndr) del Governo costa 2.700 euro al metro quadro, noi siamo stati più bravi, ne spendiamo solo 500”, spiega Fabrizio.

Ma la vera forza del progetto è nei volontari. Sessanta, da ogni parte d’Italia e pure dall’estero. C’è Max da Trieste, dove ha fondato una banca del tempo e fa il traslocatore, era già stato in Thailandia dopo lo tsunami del 2004: “Volevo venire giù subito, appena dopo il sisma. Quando ho letto su internet l’appello per salvare Pescomaggiore, mi sono precipitato”. Luciano, marchigiano, senza smettere di fumare “arriccia” il muro della casa di Piero: è uno dei pochi con esperienza in ambito edilizio, restaura volte a crociera.

Arianna, 27 anni, ha studiato filosofia e vorrebbe fare l’insegnante steineriana: “Sono arrivata qui ad agosto, poco dopo l’inizio dei lavori”. È grazie a lei che si sono uniti anche gli alpini di Caoria (Tn), il suo paese. “Loro sì che ci hanno dato un grande aiuto, in pochi giorni hanno tirato su una casa”. E poi Silvia, Ines e tanti altri ancora. Vivono in una piccola casa del paese, una delle poche agibili, come in una comune. Tra i gatti e i sughi al pomodoro, i libri e i materassi incrociati. In primavera sarà tutto pronto e Pescomaggiore sarà di nuovo in vita.

Ilaria Leccardi e Mauro Ravarino
Da Terre di mezzo di gennaio