"Death visits everywhere". La morte ti può far visita dovunque. «È questo il proverbio inglese che mi ha dato coraggio durante i miei lunghi viaggi, nei momenti più difficili, anche quando sono arrivato davanti al mare e ho dovuto attraversarlo a bordo di un piccolo gommone. La paura di tornare indietro era più forte delle grandi onde che mi aspettavano».
Ahmed ha diciassette anni e viene dalla città di Ghazni, nel centro dell’Afghanistan. Il suo volto ha tratti orientali e occhi a mandorla, tipici dell’etnia hazara. Tra i suoi capelli scuri alcune striature grigie raccontano una maturità raggiunta troppo presto. La sua è una fuga dalla guerra, nata per rincorrere il sogno di studiare, quando anche l’istruzione nel suo paese era diventata un diritto per pochi.
«Sono scappato dall’Afghanistan due volte. La prima a nove anni, quando i talebani al potere avevano chiuso le scuole. Allora i miei genitori hanno pensato di mandarmi in Pakistan, a vivere da un amico di famiglia». Ma anche in Pakistan Ahmed non riesce a studiare, non ha i documenti regolari e non può frequentare la scuola. Allora la famiglia sceglie per lui un’altra strada: provare a chiedere asilo politico in Australia. Ma in Australia Ahmed non ci arriverà mai.
«Con documenti falsi e insieme a un signore che si è finto mio padre sono andato in Malesia e poi in Indonesia. Lì però la polizia ci ha fermati, ci siamo divisi e io sono finito in carcere per sette mesi. Più volte ho chiesto aiuto a organizzazioni internazionali come Iom (Organizzazione Internazionale per la Migrazione) e Unhcr (Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati) per ottenere asilo, ma è stato inutile».
Una volta uscito dal carcere, Ahmed torna in patria. Gli mancano gli amici e la famiglia. Quando arriva in Afghanistan scopre la realtà del conflitto. «A Kabul ho visto le case distrutte dalle bombe e una volta nel mio paese non ho più trovato i miei genitori, erano scappati dalla guerra, in Iran o forse in Pakistan».
È così che inizia la seconda fuga di Ahmed dall’Afghanistan. «Sono tornato in Pakistan dall’amico di mio padre, ma neanche lui c’era più. Ho dormito qualche giorno in una moschea, poi ho trovato lavoro in un negozio. E il padrone mi dava anche da dormire. Sono stato lì più di due anni poi sono ripartito, volevo andare in Inghilterra per ricominciare a studiare».
Ahmed parte per l’Iran, poi va in Turchia attraversando il confine con una camminata lunga sei notti. Arriva a Istanbul su un camion e lì poco per volta si organizza con un gruppo di cinque persone per raggiungere un’isola greca. «Abbiamo comprato un gommone a remi, ma nessuno di noi conosceva il mare né sapeva remare, eravamo terrorizzati. Era notte, faceva freddo, le onde erano altissime».
Caricati vicino a riva da una nave più grande, Ahmed e compagni sono accolti allo sbarco dalla polizia greca che prende loro le impronte digitali e li porta in un centro di accoglienza. «Eravamo tanti, non c’erano servizi igienici. Siamo stati lì tre mesi, dopodiché ci hanno dato un foglio di via. Entro un mese saremmo dovuti tornare in patria». L’unico modo per proseguire il viaggio era andare a Patrasso e provare a imbarcarsi su una nave diretta in Italia sfruttando la presenza dei camion che trovano posto nelle grandi stive. «Ho provato come fanno in tanti ad attaccarmi sotto il camion, ma la polizia mi ha scoperto e mi ha anche picchiato. Alla fine, insieme a un altro ragazzo afghano, sono riuscito a farmi caricare nel rimorchio di un Tir, pagando l’autista. Ci siamo nascosti sotto un mucchio di cartoni e siamo partiti. Con noi avevamo solo una bottiglia d’acqua e un pacco di biscotti».
I ragazzi riescono a scendere dal camion solo dopo 54 ore di tragitto e non in Italia, bensì in Austria. Fermati dalla polizia vengono condotti al di qua del confine, a Udine, in un centro di accoglienza. «Siamo stati qualche mese. Ma non ci trovavamo bene, c’erano tanti altri stranieri che disturbavano. Allora siamo scappati e con un treno siamo arrivati a Roma, dove abbiamo dormito un paio di settimane in un parco vicino al Colosseo. Infine, dopo esserci divisi, io sono arrivato a Torino. Era l’agosto del 2005».
Oggi Ahmed è affidato a una famiglia e frequenta il secondo anno di un istituto professionale. Parla correntemente sei lingue, il dari (una lingua afgana), il pashtun, il persiano, un dialetto indiano, l’inglese e l’italiano. E intanto studia il francese e lo spagnolo. In Inghilterra non è mai arrivato, ma in Italia si trova bene e ha tanti amici. «In questi anni sono cambiato. Quando ero piccolo vedevo la gente che faceva la guerra e anch’io volevo prendere le armi in mano per combattere. Oggi non lo farei mai». E quando gli chiediamo che cosa hanno lasciato nella sua memoria le lunghe traversate, Ahmed risponde: «Credo che siano state utili, anche se a tratti si sono rivelate un disastro. Quando la gente mi dice che sono un bravo ragazzo mi vengono in mente i miei genitori. Li ringrazio per aver pensato al mio futuro».
da Futura
Ilaria Leccardi
sabato 1 marzo 2008
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