lunedì 15 giugno 2009
Denis, che lotta per una scuola decolonizzata in Benin
Incastonato tra Togo e Nigeria, il Benin è una lunga striscia di terra, grande quanto un terzo dell’Italia, che si affaccia nel Golfo di Guinea, Oceano Atlantico, Africa occidentale. E’ un paese di 7 milioni di abitanti, prettamente agricolo e dall’economia fortemente arretrata. La sua storia politica è turbolenta e negli ultimi quarant’anni ruota attorno alla figura discussa di Mathieu Kérékou, presidente del Benin dal 1972 al 1991, con un regime marxista solo nel nome, e ancora dal 1996 al 2006, questa volta in veste «democratica».
Il Benin sconta tutti i problemi strutturali dell’Africa e del suo mancato sviluppo: il peso mai tramontato del colonialismo, la corruzione al potere e l’analfabetismo. Quest’ultima è la vera piaga: riguarda l’80% della popolazione. Soprattutto nelle zone rurali, dove le famiglie più povere vendono i figli più piccoli ai trafficanti di «vidomegons», dal nome dell’antica tradizione locale per cui nelle campagna si mandavano i figli a studiare in città dai parenti ricchi. Ma adesso dai parenti, per lo più, non ci vanno e comunque mai a studiare. L’Unicef stima che nel 2007 sono stati quasi 140 mila i bambini beninesi sottratti alle proprie famiglie per essere portati a lavorare nei mercati o nelle case della capitale Porto Novo o in quelle del centro economico Cotonou oppure nelle piantagioni di Nigeria Togo e Costa d’Avorio. Una vera e propria tratta di esseri umani.
Se c’è un luogo da dove dovrebbe ripartire la lotta contro l’analfabetismo e contro la tratta questo è la scuola. Le classi sono affollate e l’abbandono è frequente (anche a causa dell’ostacolo della lingua, il francese, che a casa i piccoli delle campagne non parlano). In Benin, c’è chi si batte per una formazione diversa, uno di questi è Denis Yao Sindété, avvocato, politico, insegnante, ex prigioniero del regime Kérékou. Mauro Ravarino lo ha incontrato a Novara lo scorso autunno. Questa la sua storia.
Denis nasce nel 1958 in un villaggio sulla costa atlantica, non distante dal Togo. Già da piccolo era un bambino con le sue idee: «A 5 o 6 anni – racconta - per poter andare a scuola bisognava dimostrare di sapersi toccare le orecchie con la mano opposta. Non ce la facevo ancora, ma la voglia di iniziare, di fare quello che facevano i bambini più grandi, era tanta. E, allora, mi misi a protestare. Alla fine cedettero e mia zia, che abitava in una cittadina a 20 chilometri di distanza, mi prese in carico». Cominciano le scuole elementari. Denis gioca, si applicava nei compiti e dà una mano nei lavori domestici.
Gli anni corrono, il ragazzo diventa grande. Alle superiori conosce la politica e prende parte ad un’associazione studentesca. «La libertà di associazione era proibita, erano permesse solo le organizzazioni formalizzate e riconosciute dal regime». Nel 1978 Denis si trasferisce a Cotonou per frequentare l’università e si iscrive alla facoltà di diritto. Gli anni sono caldi, sono diversi i tentativi di colpo di stato e, soprattutto, «cresce il malcontento popolare nei confronti del regime marxista di Kérékou e del suo partito Partito popolare rivoluzionario del Benin (l’unico riconosciuto), al pari della povertà e della corruzione al potere». Gli studenti reclamano migliori condizioni di vita e di studio. «Le facoltà erano poche, come i laboratori e le biblioteche. Un’offerta scarsa rispetto ai diecimila studenti di Cotonou». Denis prende parte alle mobilitazioni e si avvicina al clandestino partito comunista del Dahomey (antico nome del Benin): «Nulla a che fare con Kérékou, per lui il comunismo era solo una copertura, infatti, nel 1989 per costruirsi una facciata democratica disse che del marxismo non aveva capito nulla». La contestazione sale: «C’erano già state proteste tra gli studenti e diversi arrestati. Nel 1979 i movimenti erano al loro picco di partecipazione. Chiedevano a gran voce che i dirigenti della cooperativa universitaria (unica associazione studentesca ammessa) venissero eletti e non stabiliti a priori dall’esecutivo di Kérékou». Il governo usa la mano pesante. Durante una manifestazione pacifica ci sono arresti di massa di professori e studenti. Uno di questi è Denis. «Dissero che nella cooperativa era pieno di spie e la colpa di tutto era del Partito comunista». Alcuni dei manifestanti erano iscritti al Pcd, ma la maggior parte non aveva nulla a che fare. Così, Denis finisce in carcere, accusato di attentato alla sicurezza dello Stato. Prima a Cotonou, poi viene trasferito a Porto Novo.
Sono gli anni più duri. «Le condizioni erano terribili, vivevamo tutti ammassati. Quindici persone in celle di 9 metri quadrati, dormendo su stuoie incastrati piedi contro teste. L’igiene era inesistente e il rischio di malattie infettive altissimo. Ci torturavano. C’era chi impazziva, non ce la faceva, non resisteva. Un mio compagno morì per le percosse. Io mi ammalai, ma lo scoprii solo anni dopo: era tubercolosi». Nonostante le difficoltà, il gruppo di studenti e professori non si dà per vinto e inizia una battaglia interna, sensibilizzando i detenuti comuni. Le proteste e la denuncia sulle condizioni in cui sono costretti a vivere superano le mura della prigione e arrivano fino in Francia, ad Amnesty International, che adotterà, tra gli altri, il caso di Denis, considerato «prigioniero di coscienza». Passano quattro anni. «Nel marzo del 1983, io e altri nove riuscimmo ad evadere ed eludere la sorveglianza. Fuggimmo in campagna, in clandestinità. Fino all’agosto 1984, fu un periodo di forte repressione ma anche di proteste nella società che indussero il governo a concedere l’amnistia per i detenuti politici». Finalmente liberi. «Tornai all’università e ci ritrovammo noi sopravvissuti al carcere. Nel dolore e nella difficoltà eravamo ancora più uniti e consapevoli che la lotta per una società giusta e libera dovesse continuare». Un anno dopo scoppiano molti scioperi e rischia di nuovo l'arresto. Il governo gioca la carta della repressione e a Denis tocca nascondersi. «Ero ricercato vivo o morto – spiega – dal 1985 al 1989 rimasi in clandestinità, passando di casa in casa». Ma il mondo sta cambiando e anche il Benin se ne accorge. La morsa del governo - forse per questo e per gli equilibri che ne conseguiranno - si allenta. Il primo agosto del 1989, mancavano tre mesi al crollo del muro di Berlino, viene concessa un’amnistia generale per persone e organizzazioni. Intanto Kérékou si prepara a travestirsi da «democratico». Nel 1991 ci sono le elezioni, ma viene sconfitto; ritornerà in sella cinque anni dopo.
«E’ vero - commenta - le elezioni nel mio paese ci sono, ma non sono democratiche perché l’analfabetismo è la più grande piaga, riguarda oltre l’80 della popolazione. La corruzione dilaga ed è capitato spesso che votassero pure i morti. E poi, il clientelismo: i voti vengono comprati fuori dal seggio in cambio di un po’ di sale». Denis lo racconta con voce pacata ma ferma. E’ venuto a Novara per curare i postumi della tubercolosi contratta vent’anni fa in carcere e, inoltre, perché è in contatto da tempo con la sezione locale di Amnesty, con cui mantiene un rapporto epistolare dagli anni della prigionia.
Dopo il carcere e la clandestinità, Denis è riuscito a completare gli studi, si è laureato in scienze politiche e relazioni internazionali. Ha insegnato diritto nelle scuole superiori, dove un professore di ruolo prende 150 euro e un precario ne guadagna 100. Ora, lavora all’Iniref, un’ong che si occupa di ricerca e formazione. Nel frattempo, si è sposato con Philomene, che fa la maestra e insegna alle elementari davanti a classi sovraffollate: «L’ultima è di 116 bambini», racconta non senza stupore. Ma a scuola gli alunni ci vanno poco, in Benin la dispersione scolastica è enorme. Uno dei motivi dell’abbandono è la lingua francese, un ostacolo per molti. «La si insegna fin dal primo anno. Un vero trauma, perché i piccoli a casa non la parlano e sui banchi si trovano di fronte a tante difficoltà. E a un certo punto mollano la scuola e vanno a lavorare». Il francese è la lingua ufficiale del Benin, più che altro un retaggio coloniale: diffusa solo nei centri urbani, lo è per nulla nelle campagne. Le lingue indigene più utilizzate sono, invece, il fon e lo yoruba. «Ci battiamo – spiega Denis che in Benin è molto attivo nel sociale – per una proposta di legge che preveda la prima alfabetizzazione (almeno tre anni) nelle lingue nazionali e dal quarto anno si parta col francese». Solo dalla scuola possono nascere cittadini consci dei propri diritti. Solo combattendo l’analfabetismo si possono affrontare i problemi dell’Africa. «La mobilitazione è ampia e ha coinvolto anche i genitori. Il governo sembra intenzionato ad accettare un progetto di riforma, ma è un’attenzione solo formale. Per adesso, non ha fatto nulla. La verità è che la Francia non vuole. Fino a quando non ci emanciperemo dal colonialismo non cambierà nulla. E’ uno dei problemi fondamentali che affligge l’Africa, insieme all’analfabetismo e alla corruzione al potere». E, intanto, la crisi continua.
di Mauro Ravarino da R/umori fuori fuoco
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