Gli ultimi ad averlo abitato ufficialmente furono degli immigrati albanesi. Ora di Brusaschetto Nuovo, un gruppo di case popolari nell'alessandrino abbuttute pochi mesi fa dalle ruspe, non è rimasto nulla. Ma non è morta la storia di chi vi ha vissuto
Quelli di Brusaschetto non l’hanno mai amato, si sono sempre rifiutati di andarci ad abitare. Un reticolo di strade squadrate, come una prigione a cielo aperto, alloggi da 60 metri quadrati, uno sopra l’altro, costruiti sotto la collina e a due passi dal Po. E dove li mettevano i covoni e gli attrezzi di campagna? In quei minuscoli ripostigli pronti per essere alluvionati?
Così quelle quindici palazzine, con chiesa annessa, nacquero già come corpo estraneo. Accanto alla strada, quasi non fossero di nessuno. Hanno vissuto la loro storia travagliata di emarginazione, sofferenza e anche morte, e ora che le hanno abbattute nessuno le rimpiange. Forse solo i clandestini, i cinghiali o i satanisti che sono stati i loro ultimi abitanti.
Brusaschetto Nuovo fu costruito alla fine degli anni Cinquanta perché il paese di sopra, in cima alla collina, stava franando a causa delle escavazioni intensive nella miniera, o meglio nella cava di marna da cemento, portate avanti da imprenditori come Buzzi e Cementi Victoria. In queste case sarebbero dovuti andare a vivere gli abitanti del vecchio paese, visto che le crepe nelle loro abitazioni si allargavano a vista d’occhio.
Ma così non è mai stato. Ci andò invece gente venuta da fuori per lavorare: gli operai della centrale nucleare di Trino Vercellese, proprio di fronte al di là del Po, e poi, negli anni Novanta, i migranti albanesi. Ma non era proprio l’America.
Quelle terre meritavano una nuova vita. Almeno, questo hanno pensato l’amministrazione di Camino, il comune di cui Brusaschetto è frazione, e il Parco del Po, che qui ne disegna i confini. Il 19 gennaio 2009 è iniziata la demolizione dell’intero borgo, con l’obiettivo di riqualificare l’area e includerla in un progetto di naturalizzazione entro il 2013.
Un paese di minatori
Le colline del Basso Monferrato nascondevano un tesoro. Un materiale povero, che avrebbe rappresentato però l’oro della modernizzazione architettonica del ventesimo secolo: la marna. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, nella zona compresa tra Camino e Brusaschetto, un gruppo di lungimiranti imprenditori diede via all’attività estrattiva. E la vita cambiò, nelle forme del paesaggio e nel quotidiano della gente. I contadini divennero minatori, abbandonati campi e risaie si ritrovarono immersi nella rete di gallerie che anno dopo anno sempre di più penetrarono sotto la collina. E presto quasi tutte le famiglie di Brusaschetto si ritrovarono ad avere almeno un componente assunto nelle ditte estrattive, tra i rischi del grisou e un lavoro che logorava il fisico.
Ma non solo le nocche o la schiena, anche il corpo della collina mutava. Le sue sembianze si arricchivano di ponti e rotaie per il trasporto dei materiali, e l’intensità dell’estrazione la rendeva più vuota e più fragile.
Sulle case iniziarono a vedersi le crepe già negli anni Trenta, come rilevano gli studi del Servizio Geologico d’Italia. Talvolta sembrava arrivasse il terremoto, perché la terra vibrava. Invece erano piccole frane. La paura aumentava e il problema giunse fino a Roma, alle aule del Parlamento. Furono i deputati originari della zona a interessarsene, con interpellanze e richiesta al Ministero dei Lavori Pubblici. Prima Walter Audisio, comunista, poi Paolo Angelino, socialista, quindi Giuseppe Brusasca, democristiano e nato proprio a due passi, a Gabiano. Dal 1951 al 1957 fu un susseguirsi di sollecitazioni.
“Alcune case stanno crollando, altre sono lesionate” tuonava Walter Audisio in una seduta della Camera del 1° febbraio del 1956, citando le parole del parroco di Brusaschetto: “Alcune abitazioni sono già state evacuate e le vite sono in pericolo. Il campanile della chiesa è inclinato di 40 centimetri verso la canonica e la chiesa stessa. Ora siamo in ansiosa attesa, sperando, finalmente, comprensione ed umanità per un pronto, efficace e massiccio intervento governativo, prima che sia troppo tardi”. Rispondendo ad Angelino, il 28 febbraio di quello stesso anno, il sottosegretario di Stato per i Lavori pubblici Giuseppe Caron spiegava: “Dagli accertamenti è risultato che il dissesto statico è dovuto al cedimento di vecchie gallerie al di sotto e in prossimità dell’abitato, ricavate prima del 1927 per l’escavazione di marna di cemento. Al fine di dare alloggio alle famiglie che hanno avuto la casa danneggiata è stata disposta l’assegnazione all’Istituto Case Popolari di Alessandria di 100 milioni di lire per la costruzione di un primo lotto di alloggi”.
Questo fu l’inizio di Brusaschetto Nuovo. Ma passarono ancora due anni prima dell’avvio dei lavori, come testimonia l’allarme lanciato dall’onorevole Brusasca nell’ottobre del 1957: “Il Ministero ha fatto stanziamenti e disposto progetti per la costruzione di nuove case in un sito sicuro, ma le pratiche sono talmente lente che ci avviciniamo all’inverno e le opere sono ancora da eseguirsi”. Eppure, nonostante le richieste di aiuto dalla popolazione ripetute negli anni, la paura e l’incertezza che minavano la quotidianità, una volta terminati i lavori nel 1958 quelle case rimasero vuote.
La vita comunque
Alla fine degli anni Cinquanta le miniere chiusero. E il paese in cima alla collina poco a poco si spopolò. Dai quasi 800 abitanti del 1921 si passò ai 195 del 1961. Proprio l’anno in cui a Trino Vercellese, al di là del fiume, iniziarono i lavori per la costruzione della centrale nucleare “Enrico Fermi”. E un lampo di vita arrivò anche a Brusaschetto Nuovo. Nessun contadino si decise a scendere in basso, la gente venne da fuori. Gli operai della centrale abitarono le case popolari per alcuni anni. E successivamente qualcuno continuò a vivere in questo reticolato di abitazioni tutte uguali, gialle con il tetto rosso, con un’alta chiesa di mattoni a fianco. Lo testimoniano i numeri dei censimenti: 80 persone nel 1971, 88 nel 1981 e 54 nel 1991.
Di questi uomini e di queste donne non rimane però niente nella memoria popolare. È come se coloro che vivevano da generazioni sulla collina avessero rinnegato quell’asettico villaggio, costruito per soccorrerli dalla frana, ma considerato fin dal primo momento un corpo estraneo. Eppure, nonostante tutto, la vita c’era. Travagliata, come dappertutto, forse solo un po’ più difficile. Muri quasi di cartone, non un negozio né un parco per i bambini. Si parla anche di un fatto di sangue, un giallo all’inizio degli anni Ottanta. Il Po era così vicino che le alluvioni non davano tregua, quelle del 1994 e nel 2000 sono solo le più note.
Negli anni Novanta arrivarono gli albanesi, sfollati in questo borgo. Il ritmo delle emigrazioni segnò il tempo fino al 2000, quando il Comune decise di murare gli ingressi e le finestre degli stabili. Eppure il tanto denigrato paese continuava ad essere un desiderio, o forse riparo, per qualcuno. Poveri, disadattati e clandestini che nel tempo hanno sfondato i mattoni e occupato quegli spazi, lasciandosi alle spalle pure i segni di un incendio. E di notte, anche se nessuno ha mai potuto dare un nome agli autori, comparivano scritte sataniste e murales grotteschi con protagonisti la centrale e l’ambiente contaminato di questo territorio. Ma anche un grande disegno in stile western che si dipanava su due case adiacenti, e una serie di scritte ammonitrici: “Mai più così. Viva il Po” e “Noi siamo vivi”.
Le ceneri del borgo
Quello di Brusaschetto Nuovo stava iniziando a diventare un problema. Più che altro per il degrado, la desolazione e lo stato di abbandono di strade e case. Fu anche cintata come zona pericolante. Fino a quando, nel 2008, maturò la convinzione che l’unica strada percorribile fosse abbattere il complesso edilizio e ricominciare da capo. Attori della svolta, il Comune di Camino e il Parco Fluviale del Po tratto vercellese-alessandrino, promotori di un intervento di riqualificazione.
Il progetto è stato presentato alla popolazione durante un’assemblea molto partecipata la sera del 15 gennaio 2009. “È un traguardo che vedevamo molto lontano, finalmente ce l’abbiamo fatta”, ha introdotto soddisfatto il sindaco Sergio Guttero, quasi a fine mandato. “L’idea, ha aggiunto il presidente del Parco del Po Ettore Broveglio, è di riqualificare un’area utilizzando i proventi dell’attività estrattiva. Ripristinando la situazione ambientale di oltre cent’anni fa”. La concessione ha una durata di cinque anni a partire dal settembre 2008. “Progressivamente, ha concluso Nemesio Ala, consulente della ditta Nord Scavi incaricata della demolizione e della riqualificazione, costruiremo habitat, ecosistemi e particolari isole per la fauna. Insomma, un luogo da un lato bello, dall’altro ricco di vita e biodiversità”.
La mattina del 19 gennaio la neve copriva ancora i tetti delle case. La Giunta comunale e i politici della provincia si erano radunati al gran completo per assistere a quello che nella zona stava diventando un vero e proprio evento. Fascia tricolore, taglio del nastro e via alla ruspe. In pochi giorni Brusaschetto non ci sarebbe più stato: spazzato via dal paesaggio come già lo era stato dalla memoria degli abitanti. La prima casa e poi le altre. Mano a mano che i muri e le stanze venivano sventrati emergevano i dettagli di una vita recente. Una parete dipinta di verde, fotografi e, una copia di Topolino, poltrone, brandine, coperte, addirittura vestiti. Come a dire: fino all’ultimo la vita c’era. E, se ti spostavi vicino alla chiesa, potevi vedere al centro della navata un’inquietante sedia a rotelle forse utilizzata per qualche strano rito. Anch’essa spazzata via dalle ruspe.
La rinascita
Le case ora non ci sono più, le macerie nemmeno. Dove un tempo sorgeva Brusaschetto Nuovo si incomincia a vedere un laghetto. Ma gli scavi andranno avanti ancora per molto e l’ambiente si modificherà ulteriormente. I camion che trasportano via la terra proseguiranno il loro lavoro e qualche disagio turberà il quieto vivere degli abitanti, costretti ad usare una strada battuta vicina al fiume Po in vista della realizzazione di quella nuova ai piedi della collina. Era proprio questo che più li preoccupava durante l’assemblea di gennaio. “Ce la farete prima dell’inverno?” si domandavano.
“Il progetto interessa circa 40 ettari di golena, di cui solo una piccola parte era occupata dagli edifici. Per rendere l’idea, pari a 40 campi di calcio, il doppio della superficie complessiva del parco del castello di Camino”, spiega Maria Teresa Bergoglio, responsabile del settore edilizio e urbanistico del Parco. E anche i cinghiali vogliono la loro parte. Sono infatti previsti attraversamenti per la fauna selvatica, che negli ultimi anni si era ricavata la sua strada a due passi dalle case. “Al termine dell’intervento, conclude Bergoglio, il progetto prevede circa metà superficie dedicata a bosco e radura, l’altra parte suddivisa tra aree umide e specchi d’acqua con profondità massima di 3,5 metri sotto falda, poco meno della quota del fondo alveo del Po”.
Così, il volto del futuro sarà come quello del passato e i cinquant’anni di Brusaschetto Nuovo non saranno mai esistiti. Non per tutti. C’è chi ce li ha ancora negli occhi, nelle mattine di rugiada o nei pomeriggi assolati, magari al ritorno dal lavoro. Perché, incastrata tra i colli e il Po, c’era una zona grigia che era stata per anni la vita di qualcuno.
Ilaria Leccardi e Mauro Ravarino
Da PiemonteMese di ottobre
venerdì 16 ottobre 2009
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